italia
L’Italia che verrà

di Aldo Perotti
Prendo spunto dalla recente approvazione del federalismo demaniale per avviare una riflessione sul futuro del nostro paese. Mi ripeto e ripeto spesso che il disegno che sembra delinearsi nel combinato disposto delle intenzioni della Lega, del sostanziale assenso della sinistra e della connivenza delle regioni meridionali, e quello di un’Italia in un assetto pre-unitario quasi a cancellare 150 anni e più di storia.Cos’è una nazione ? Un popolo, un territorio, una sovranità, una storia, un lingua, un ordinamento giuridico. Si potrebbe dissertare su ognuno di questi concetti per definire lo stato nazionale e molti hanno studiato come nascono le nazioni, le loro finalità, i loro meriti e demeriti. E’ solo il caso di ricordare che i “padri della patria”, i vari Mazzini, Garibaldi, Cavour ecc. non fossero proprio degli stupidi e che avessero più che valide ragioni per la costruzione dell’Italia unita, che non si limitavano al semplice desiderio di casa Savoia di ampliare i suoi domini, ma facevano riferimento ad una serie di condizioni che imponevano al nostro paese di trovare una sua struttura unitaria, una sua massa critica, in grado di dialogare alla pari con gli altri stati nazionali che si andavano via via assestando.
Del resto il territorio italiano è da sempre ben definito. Separato dal resto d’Europa a nord dalle Alpi ed altrove dal mare, l’Italia ha – anche geograficamente – una sua ragion d’essere.Ma ormai questa idea sembra essere superata e nel nord del paese, sondaggi e risultati elettorali alla mano, il modello secessionista Leghista sembra aver preso il sopravvento e quindi nel futuro tutto sembra destinato a cambiare. Parlo di modello secessionista perché il faro che guida la politica della Lega è in fondo (il primo amore non si scorda mai) la secessione, nel senso di creazione di una nazione-stato distinto dal resto della penisola con il fiume Pò suo confine naturale a sud.
Questa ambizione è conseguenza di un percorso storico che ha visto, anche grazie all’unità d’Italia, attraverso l’industrializzazione e le favorevoli condizioni geografiche, la disponibilità di manodopera meridionale facilmente (anche se non immediatamente) integrabile, uno sviluppo economico particolarmente forte delle regioni del nord a fronte di un grande ritardo delle regioni del sud a prevalente vocazione agricola. Il paese vanta quindi un nord ricco e benestante che sopporta e supporta (così si dice) un sud povero ed arretrato che nonostante la generosità delle regioni ricche non riesce a sollevarsi dalla sua misera condizione.
Il bisogno delle regioni ricche di liberarsi di chi si avvantaggia di una condizione parassitaria è assolutamente comprensibile e quindi la secessione, la separazione, quell’ ognuno per la sua strada che si dicono i coniugi dopo il divorzio, sembra essere del tutto comprensibile.
L’idea di secessione è ovviamente contrastata da chi invece – rifacendosi alla storia – vede nell’idea di aggregazione, nella forza del numero, dei vantaggi in grado di superare le differenze tra uomini, territori e risorse. Chi ha sognato e sogna un’Europa politicamente unita, un grande nazione Europea, non può che ritenere l’aspirazione all’autonomia, all’indipendenza, solo il retaggio di un antico passato – medioevale come approccio – che crede di saper e poter gestire il suo feudo anche in barba all’imperatore, grazie ad alte mura ed ad un “fedele” esercito di mercenari (non ha caso la Lega fa continuo riferimento ad un momento storico che è tardo-mediovale o pre-comunale, ovvero un periodo che ricorda la situazione attuale, territori ricchi che vogliono autogovernarsi ed affrancarsi dall’impero che parassita risorse).
Quindi sembra proprio che, mascherata da federalismo (che poi federalismo non è perché il federalismo è l’unione di più stati per fini comuni), assisteremo ad una secessione di fatto o meglio ad una “esplosione” del paese in 21 staterelli tenuti insieme da una “costituzione federale” che sarà la vecchia e amata costituzione italiana ampiamente riveduta e corretta.
Con il federalismo demaniale – il primo passo – la questione “territorio” sembra risolta in parte.
Ci saranno contenziosi in futuro, questo è certo, ma il fatto che la regione disponga di un proprio demanio, di propri beni pubblici, è un segnale molto forte. Il fatto che il Pò rimanga in qualche modo “extraterritoriale” in quanto “statale” ricorda non poco il regime di extraterritorialità che riguarda il Danubio, fiume su quale si affacciano più nazioni.
L’approccio regional-nazionale (come potremmo forse definire un regionalismo spinto, per certi aspetti xenofobo) sarà in futuro portatore di conflitti spesso irrisolvibili. Già oggi ne abbiamo un assaggio quando lo stato “centrale” emana norme, che in qualche modo riguardano l’autonomia (la sovranità) regionale, subito partono ricorsi alla Corte Costituzionale per conflitto di attribuzione, competenza, ecc.
Stabilire, non solo nelle materie concorrenti ma in tutta la sfera pubblica, dove arriva lo stato centrale e dove quello regionale diverrà via via più complesso.
Il federalismo fiscale, che dovrebbe concedere autonomia impositiva e responsabilizzare nell’utilizzo delle risorse, rischia di rivelarsi anche per le regioni più ricche un terribile boomerang.
La tassazione è una “imposizione” nel senso che un’autorità più forte “impone” il suo volere ed “esige” il versamento di somme per scopi vari e non sempre ben giustificati agli occhi del “tassato” (il termine contribuente è solo più elegante). Per far pagare le tasse occorre forza, si deve essere grandi e grossi e poter contare su amici ancora più forti (essenzialmente un esercito). Se qualcuno non intende pagare le tasse lo Stato ricorre alla forza per farle pagare o comunque interviene (è il caso del crimine organizzato) per impedire o interrompere attività svolte e flussi di denaro che sfuggano al suo controllo.
Come spera un’Amministrazione Regionale di combattere l’evasione, la criminalità affaristica, senza avere a disposizione dei funzionari, un piccolo esercito, in grado di intervenire. Tra l’altro dovendo evitare quei fenomeni di “sub-corruzione” che, nelle piccole comunità, sono più facili ed incontrollabili. In un piccolo paese, un vigile non è in grado di fare multe ai suoi concittadini (non è carino e non e simpatico) e si concentra sui forestieri. Per questo motivo i carabinieri di prima nomina non possono lavorare nei paesi di origine, la loro funzione di “soggetti terzi” ne risulterebbe sminuita; potrebbero avere un occhio di riguardo con i compagni di scuola.
Le Regioni dovranno affiancare alle strutture regionalizzate dell’attuale Agenzia delle Entrate un sistema di esazione del tutto simile a quello nazionale (Equitalia, Commissioni Tributarie, ecc.) ma regionalizzato se non vorranno che fare continuo ricorso allo Stato Centrale (con i suoi tempi). Uno Stato centrale tra l’altro sempre meno interessato a svolgere il ruolo del “cattivo conto terzi” e la cui centralità è e sarà continuamente messa in discussione.
Se per lo Stato centrale è difficile riscuotere le imposte per uno stato parcellizzato diverrà quasi impossibile e sarà costretto a far pagare di volta in volta i singoli servizi per garantire il funzionamento delle strutture pubbliche, con un venir meno di quei servizi totalmente pubblici che non è agevole sottoporre a tariffa (come la pulizia delle strade, la loro manutenzione, ecc.).
Un grosso passo indietro nella storia.
In Bulgaria, dove non navigano nell’oro ed il sistema fiscale non è del tutto funzionante (anche perché prima – con il comunismo – quasi non esisteva), la manutenzione dei marciapiedi è affidata ai negozianti con il risultato che i marciapiedi sono un patchwork assurdo di materiali (con qualche buca qua e la).
Ho paura che si finirà anche da noi, in qualche quartiere, a dover rinunciare del tutto ai marciapiedi…..
L’Unione per il Mediterraneo e le prospettive per il “sistema Italia”

Luisa Pezone*
Dal luglio del 2008, l’Unione per il Mediterraneo (UpM) costituisce il nuovo quadro politico-istituzionale delle relazioni euro-mediterranee. Fondata ufficialmente in occasione del vertice dei Capi di Stato e di Governo di Parigi del 13 e 14 luglio 2008, allo scopo di imprimere un nuovo impulso alla politica mediterranea dell’UE a tredici anni dalla nascita del “Partenariato Euro-Mediterraneo” (PEM)[1] e a quattro anni dall’avvio della Politica Europea di Vicinato (PEV)[2], l’UpM comprende i ventisette paesi membri dell’Unione Europea e sedici partner mediterranei[3].
L’UpM ha visto la luce dopo un percorso costitutivo lungo, faticoso ed articolato, nel corso del quale l’originario progetto francese ha conosciuto una serie di modifiche ed adattamenti imposti dalle dinamiche comunitarie. L’iniziale proposta francese di Unione Mediterranea (UM)[4], lanciata da Sarkozy fin dai primi mesi del 2007 durante la campagna elettorale per l’Eliseo, ripresa al momento del suo insediamento, precisata nel corso dei primi mesi del suo mandato ed imposta al centro del dibattito diplomatico europeo, si proponeva di elaborare “un nuovo modello di governance” nei rapporti euro-mediterranei che, di fronte agli esiti modesti scaturiti dal Processo di Barcellona, fosse ristretto ai soli paesi rivieraschi e fondato su un “approccio basato su progetti concreti”, che costituissero la base di partenza per un più ampio percorso di cooperazione ed integrazione nell’area mediterranea. La prima iniziativa di Parigi, pertanto, nasceva come un disegno contrapposto al quadro comunitario, a carattere intergovernativo, e traeva le sue motivazioni in massima parte dalle delusioni suscitate dalle politiche euro-mediterranee dell’ultimo decennio, il PEM e la PEV.
Il lancio del progetto di Unione Mediterranea attivava un doppio binario di analisi e di confronto.
Da un lato, infatti, si apriva un ampio dibattito tra analisti, studiosi, esponenti della società civile e
dell’opinione pubblica, sia nei paesi europei che nei partner mediterranei, focalizzato sulle carenze e gli ostacoli incontrati nel dialogo tra le due sponde del Mediterraneo dal 1995 in poi. Tale dibattito, già in corso almeno dal 2005, anno del decennale di Barcellona, rappresentava un’occasione di approfondimento e di riflessione interna all’UE sulla necessità di ripensare ed aggiornare le politiche comunitarie verso l’area, ed ha avuto il merito indiscutibile di rilanciare l’attenzione sulla cooperazione euro-mediterranea che, tra la crisi del Processo di Barcellona e il “basso profilo” della PEV, sembrava in una fase di profonda stanchezza e sfiducia.
Dall’altro, prendeva avvio un articolato processo di confronto politico- diplomatico in merito alla proposta francese di UM. La Germania e la Gran Bretagna la contrastavano apertamente, timorose di un progetto che mirava, nella loro valutazione, a servire gli interessi particolari di Parigi con le risorse comunitarie. La Turchia le si opponeva duramente, considerandola un’alternativa indigeribile al suo ingresso nell’UE, un orizzonte strategico da sempre lontano dall’idea d’Europa di Sarkozy. I Paesi Membri Mediterranei (PMM), come la Spagna e l’Italia, paventandone l’impatto negativo sulla coesione europea e sulla solidità del Partenariato, la accoglievano tiepidamente e mettevano in campo una strategia di “riduzione del danno” al fine di ricondurre progressivamente l’UM nell’ambito comunitario. I paesi della sponda Sud la valutavano con attenzione ma anche con diffidenza, attirati dalla possibilità di un nuovo corso delle relazioni con l’Unione Europea ma anche timorosi di un indebolimento del “Processo di Barcellona”.
La nascita dell’ UpM, nel luglio del 2008, rappresentava il momento conclusivo di questo doppio processo. L’esito finale riconduceva l’iniziale idea francese nel canale europeo e la privava dei suoi elementi di esplicita rottura rispetto alle politiche euro-mediterranee condotte dopo il 1995, a cominciare dall’elegibilità geografica limitata ai paesi rivieraschi.
Molti dei suoi aspetti più innovativi e significativi si sono tuttavia mantenuti anche nella nuova configurazione dell’UpM: la natura essenzialmente intergovernativa; l’eguaglianza tra i membri europei e mediterranei all’interno di un contesto di accentuata “co-ownership e il tentativo di condividere il processo decisionale e gestionale tra le regioni al Nord e al Sud del Mediterraneo; l’approccio fortemente tecnico- progettuale[5]; l’apertura alle varie componenti della società civile; una certa flessibilità geografica che potrebbe aprire la strada a forme di cooperazione rafforzata, limitata soltanto ai membri più interessati a specifici settori. Si tratta di elementi ereditati, in larga parte, dall’originale proposta francese, che ci consentono di affermare che la nuova organizzazione euro-mediterranea non è stata completamente svuotata rispetto all’iniziale idea francese, ma solo adattata alle esigenze comunitarie.
Ad un anno e mezzo dalla sua nascita, i progressi compiuti sulla strada della piena funzionalità dell’UpM appaiono ancora esigui e limitati per poter esprimere un giudizio compiuto sulla bontà e l’efficacia delle innovazioni apportate al quadro delle relazioni tra l’UE e i Paesi Terzi Mediterranei (PTM). Una serie di difficoltà e condizionamenti hanno infatti pesato in maniera determinante nei primi mesi di vita dell’UpM. In primo luogo, le accese difficoltà di rendere operativo il nuovo quadro istituzionale e di suscitare il necessario interesse politico dei Paesi partner del Sud. In secondo luogo, la scarsità degli incentivi e delle risorse finanziarie, che la recessione economica globale ha reso ancora più evidente. Infine, l’impatto negativo giocato dai conflitti regionali del Mediterraneo e del Medio Oriente, a cominciare dalla questione israelo-palestinese ancora lontana da una realistica prospettiva negoziale.
Si tratta di nodi irrisolti che testimoniano della permanenza, anche nell’ambito dell’UpM, di gran parte di quegli elementi tradizionalmente individuati come fattori di debolezza delle politiche euro-mediterranee. Nel complesso, l’ Unione per il Mediterraneo al momento può essere considerata come un tentativo apprezzabile, per quanto farraginoso in alcuni suoi aspetti, di superare limiti e contraddizioni del Processo di Barcellona, ma la reale efficacia delle novità da essa apportate al quadro delle relazioni euro-mediterranee non può ancora essere compiutamente valutata.
Nonostante le difficoltà, sia esogene che endogene, che hanno pesato sui suoi primi passi, l’UpM ha suscitato fin dall’inizio l’interesse e l’attenzione di quei settori istituzionali, economici ed imprenditoriali del “sistema Italia” tradizionalmente presenti nel Mediterraneo.
L’ UpM, infatti, come accennato, presenta alcuni elementi in grado di costituire il quadro ideale per dare un nuovo e più deciso impulso all’azione italiana nel Mediterraneo, sia sul versante politico che su quello economico – commerciale.
In primo luogo, la connotazione prettamente tecnica e progettuale della nuova organizzazione, che individua gli ambiti prioritari di intervento in settori economici e sociali di particolare rilevanza strategica: l’ambiente, con particolare riferimento alla lotta all’inquinamento nel Mediterraneo; i trasporti; la protezione civile; le energie alternative, con il progetto di “Piano Solare Mediterraneo”; l’alta formazione e la ricerca, nel cui ambito è stata prevista l’istituzione di un’Università Euro-Mediterranea; lo sviluppo economico, sociale ed imprenditoriale dell’area mediterranea. In secondo luogo, la flessibilità regionale di tali progetti che potranno investire tutti o solo una parte dei partner, a seconda del loro grado di interesse e di coinvolgimento nello specifico settore di intervento. Questa sorta di “cooperazione a più velocità” nel Mediterraneo potrebbe consentire alle realtà italiane di porsi in prima fila nell’implementazione dei progetti con i paesi della sponda Sud. In terzo luogo, la decisa apertura, prevista nell’UpM, agli attori non statali, come le autorità locali, le imprese e le organizzazioni non governative, costituisce un quadro istituzionale di estremo interesse per l’Italia, in cui la forte crescita della cooperazione decentrata ha già permesso ad enti, istituzioni, autorità locali e organizzazioni della società civile di assumere una forte proiezione internazionale, spesso con il Mediterraneo come area di intervento privilegiata.
Per questi motivi, la Fondazione Mezzogiorno Europa, in collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri, ha condotto una ricerca, di recente pubblicazione[6], volta a valutare, oltre che gli scenari internazionali aperti dalla costituzione dell’Unione per il Mediterraneo, le prospettive, le ricadute e i benefici che una piena realizzazione dell’ UpM potrà avere per il “sistema Italia” nel Mediterraneo.
Partendo dagli elementi costitutivi dell’UpM sopra descritti, la ricerca della Fondazione Mezzogiorno Europa ha cercato di fornire una mappatura delle principali iniziative in corso tra alcuni settori del mondo economico e produttivo del nostro paese e i Paesi del Mediterraneo, delle possibilità di ulteriori sviluppi di interesse bilaterale e delle aspettative riposte nella nascente Unione per il Mediterraneo. Pur avendo un’impostazione di ampio respiro, l’indagine si è concentrata soprattutto su alcuni settori di rilevanza strategica: l’energia, con particolare riferimento alle fonti rinnovabili; l’agricoltura, soprattutto per quel che riguarda le pratiche innovative e gli scambi commerciali; le politiche di trasferimento tecnologico, in modo particolare la produzione industriale ad elevato valore aggiunto; il rapporto credito-impresa; l’innovazione tecnologica, di processo e di prodotto; l’analisi dei criteri di managerialità; le politiche di cooperazione culturale multilaterale e bilaterale, soprattutto in riferimento agli scambi di docenti e studenti dei Paesi mediterranei.
L’indagine si è articolata attraverso tre quesiti che sono stati sottoposti alle principali realtà italiane operanti nel bacino mediterraneo. La prima domanda ha riguardato i progetti o gli accordi bilaterali in corso con i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo; la seconda ha inteso rilevare le prospettive e le aspettative future di progetti, accordi e trattative con questi Paesi; la terza ha indagato le attese e i vantaggi che l’ UpM potrebbe recare alle realtà interessate.
Per offrire una panoramica sufficientemente completa, pur senza alcuna pretesa statistica, delle realtà italiane operanti nel Mediterraneo, è stato individuato come destinatario delle interviste un campione rappresentativo composto da enti, istituzioni ed imprese particolarmente attivi nell’area mediterranea, alcuni con un forte radicamento territoriale[7], altri con una più accentuata proiezione internazionale[8].
L’insieme di questi enti ha permesso di fornire un quadro sufficientemente preciso sia delle relazioni esistenti tra alcune realtà economiche e sociali italiane e i paesi del Mediterraneo, sia del possibile impatto che l’ “Unione per il Mediterraneo” potrà avere su di esse. La raccolta di dati oggettivi, di pareri e punti di vista dei soggetti interessati, ha consentito di sviluppare un’ analisi ragionata dei fabbisogni e delle opportunità future che il che il sistema economico e produttivo italiano dovrà essere in grado di cogliere nei rapporti con la sponda meridionale del Mediterraneo. Per ovvie ragioni di opportunità ed affinità, lo studio si è focalizzato soprattutto su soggetti afferenti al contesto meridionale, senza però trascurare, visto il forte riscontro suscitato dall’ UpM a livello nazionale, altre realtà territoriali direttamente interessate ad un rafforzamento della dimensione mediterranea dell’Unione Europea.
L’elaborazione delle risposte fornite dagli enti ha offerto molteplici spunti di riflessione per i tre elementi dell’indagine.
Per quanto riguarda i progetti e gli accordi in corso con i Paesi della Sponda sud, è da registrare un gran numero di iniziative poste in essere in tutti i settori di riferimento.
Una posizione privilegiata spetta all’ambito culturale, oggetto di concrete forme di collaborazione, che prevedono, oltre allo stanziamento di borse di studio e alla realizzazione di corsi post – lauream congiunti, intense attività di scambio di docenti e di studenti, al fine di garantire un flusso continuo di conoscenze e di informazioni tra le due Sponde del Mediterraneo.
Altro ambito di grande interesse è il settore energetico, in particolare quello delle energie rinnovabili, strettamente connesso con l’attualissimo tema della tutela ambientale e paesaggistica. Uno degli elementi di maggiore affinità tra i paesi Mediterranei è infatti la grande valenza del patrimonio naturale, una ricchezza da difendere e da mettere a frutto nella maniera meno invasiva possibile. Non è un caso, infatti, che la principale richiesta dei Paesi del Maghreb, nell’ambito dei futuri progetti targati UpM, riguardi il trasferimento di tecnologia per la realizzazione di impianti fotovoltaici, eolici e geotermici. La produzione di energia “pulita” libererebbe molti di questi Paesi da una stringente dipendenza energetica, tanto più se si considerano le caratteristiche fisiche e climatiche dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, per le quali il sole e il vento costituiscono una “materia prima” a basso costo e a massimo rendimento. Per tali motivi, dunque, proprio sul settore energetico vertono i progetti futuri di molti enti, e anche l’Italia guarda con favore allo sviluppo delle energie rinnovabili, cercando di trarre giovamento dalla condivisione di conoscenze ed esperienze con la sponda Sud.
Per quanto concerne le prospettive future di progetti e accordi, l’indagine ha segnalato grandi possibilità di incremento degli scambi commerciali con i Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, soprattutto nell’ ottica della creazione della futura zona euro-mediterranea di libero scambio prevista dal Partenariato Euro-Mediterraneo. Tali paesi, infatti, sono stati oggetto, negli ultimi anni, di un progressivo e sorprendente aumento dell’ interscambio con il nostro Paese, fino a raggiungere livelli altissimi come nel caso dell’ Egitto.
Un altro elemento da tenere in debita considerazione, inoltre, come segnalato dalle nostre Ambasciate e dalle Associazioni di industriali presenti sul territorio, è la grande spinta di rinnovamento che da qualche anno coinvolge Paesi come il Marocco e la Tunisia, i cui Governi hanno recentemente iniziato a promuovere e favorire un vasto piano di riforme in vari ambiti, in primo luogo quelli della semplificazione amministrativa e dell’ottimizzazione dei sistemi di produzione. In quest’ultimo campo, soprattutto, le conoscenze scientifiche e tecnologiche dei paesi europei si rivelerebbero preziose, soprattutto se accompagnate da programmi di responsabilizzazione civile e sociale.
In tema di sviluppo, l’attività di cooperazione rivolta a contesti problematici come quelli che ancora permangono in molte zone del Nord Africa e del Medio Oriente potrà avere benefici effetti anche a livello politico- diplomatico. Da sempre infatti il nostro Paese si è distinto per il significativo contributo offerto nelle aree di crisi del Mediterraneo, e l’attività dei nostri connazionali è sempre stata accolta con grande favore in tutti i Paesi della Sponda Sud.
Per quanto riguarda, infine, le attese verso l’Unione per il Mediterraneo, la nuova “creatura” euro-mediterranea ha incontrato grande favore presso tutti i soggetti interpellati. In generale, è emersa con evidenza la convinzione della notevole opportunità che essa può rappresentare per gli interessi economici e sociali italiani. In particolare, l’indagine ha segnalato un consenso pressoché unanime nei confronti dell’ UpM, le cui ricadute positive potranno irradiarsi a vari livelli: dal piano economico per gli enti e i gruppi imprenditoriali coinvolti, a quello socio-culturale per la società civile, a quello politico con il ricollocamento del Mediterraneo al centro di un più ampio sistema di relazioni. Particolarmente apprezzata è risultata la dimensione tecnica e progettuale dell’UpM, così come la sua forte proiezione al coinvolgimento della società civile nelle sue molteplici articolazioni.
La ricerca, quindi, ha evidenziato con chiarezza un alto livello di attese dei settori italiani maggiormente dinamici nell’area mediterranea nei confronti dell’ UpM, le cui iniziative non dovranno porsi in concorrenza con quelle comunitarie, ma in supporto ad esse, per promuovere una più approfondita rete di relazioni tra i paesi delle due sponde del Mediterraneo.
Per tali motivi, è lecito formulare l’auspicio di un forte impegno italiano, nell’ambito dell’Unione Europea, nel delicato e complesso passaggio dalla fase delle dichiarazioni a quella operativa dell’UpM, al fine di contribuire a creare quel quadro rinnovato delle relazioni euro-mediterranee che potrà consentire al “sistema Italia” di dispiegare tutte le sue potenzialità nel Mediterraneo.
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* Responsabile Ufficio Progetti, Studi e Ricerche della Fondazione Mezzogiorno Europa. Fa parte del Gruppo Europa e Mediterraneo di Innovatori Europei. Ha curato e coordinato varie pubblicazioni in tema di energia, microcredito, europa e lavoro. Articolo pubblicato sul Numero di Novembre/Dicembre 2009 della Rivista Mezzogiorno Europa.
NOTE
[1] Il PEM, lanciato alla Conferenza di Barcellona del novembre 1995, si proponeva di “trasformare il Mediterraneo in un’area di dialogo, scambio e cooperazione che garantisca pace, stabilità e prosperità” e stabiliva l’ambizioso obiettivo di realizzare un partenariato tra le due sponde fondato su tre pilastri: dialogo politico e di sicurezza; cooperazione economica e finanziaria; partnership sociale, culturale ed umana.
[2] La PEV nacque allo scopo di costruire un quadro per il rafforzamento delle relazioni politiche ed economiche dell’UE con quei paesi che, con l’ingresso dei nuovi dieci membri nel 2004 e con la conseguente ridefinizione dei confini comunitari, erano destinati a diventare i “nuovi vicini” dell’Unione allargata: Ucraina, Bielorussia, Moldova, paesi del Caucaso e del Mediterraneo.
[3] Albania, Algeria, Bosnia-Erzegovina, Croazia, Egitto, Giordania, Israele, Libano, Marocco, Mauritania (paese non mediterraneo), Monaco, Montenegro, Siria, Territori Palestinesi, Tunisia, Turchia. La Libia ha lo status di osservatore.
[4] Il primo progetto francese di ristrutturazione dei rapporti euro-mediterranei aveva la denominazione di Unione Mediterranea, in quanto destinata, nelle intenzioni di Sarkozy, a rimanere distinta dall’UE e limitata alla partecipazione dei soli paesi rivieraschi. Successivamente, il piano francese assunse la denominazione di Unione per il Mediterraneo, a sottolineare il suo pieno reintegro nel solco comunitario e il coinvolgimento di tutta l’Unione Europea nell’iniziativa promossa da Parigi.
[5] L’identificazione degli ambiti di intervento progettuale dell’UpM ha rappresentato il risultato di un processo lungo e complesso, parallelo alla faticosa evoluzione diplomatica che ha scandito il cammino dell’UpM. Alla fine la Dichiarazione di Parigi del luglio del 2008 individuava i settori prioritari nei seguenti sei: il disinquinamento del Mediterraneo; la costruzione di autostrade marittime e terrestri per migliorare le fluidità del commercio fra le due Sponde; il rafforzamento della protezione civile; lo sviluppo di energie alternative e la creazione di un piano solare comune; gli incentivi all’alta formazione e alla ricerca, con la proposta di creazione di un’università euro- mediterranea; il sostegno alle piccole e medie imprese.
[6] M. Pizzigallo (a cura di), L’Italia e l’Unione per il Mediterraneo, Napoli, Fondazione Mezzogiorno Europa, 2009.
[7] Regione Campania, Università degli Studi di Palermo, Università degli Studi di Bari, Università degli Studi della Basilicata, Università della Calabria, Camera di Commercio di Potenza, Confindustria Brindisi, Confindustria Calabria, Confindustria Sicilia, Unione Industriali Napoli, Banca Monte dei Paschi di Siena, SDI Group, Gruppo Editoriale “Il Denaro”.
[8] Ambasciata d’Italia in Marocco, Ambasciata d’Italia in Tunisia, ICE – Tunisi, Israel-Italy Chamber of Commerce and Industry , Camera di Commercio Italiana in Egitto, Camera di Commercio Italiana in Marocco, FORMEZ – C.A.I.M.E.D, MEDREC, Osservatorio EuroMediterraneo e del Mar Nero.
Da Copenaghen, a Dicembre, una grande spinta verso un futuro Low Carbon
Dope la forte apertura di Obama, appena comunicata dalla stampa (“Taglio alle emissioni di gas inquinanti del 17% dai livelli del 2005 entro il 2020, 30% entro il 2025 e 42% entro il 2030. Sono queste le cifre della proposta americana che il presidente Barack Obama porterà alla Conferenza Onu sul clima di Copenaghen”), perde forza la tesi dei tanti “scettici” che da qualche settimana dichiarano che il COP15 di Copenaghen sarà un fiasco.
Perche’ invece certamente non andrà cosi’, sebbene non ne uscirà un accordo globale vincolante, per il quale ci sarà tempo nel 2010.
La preparazione di questo appuntamento ha infatti permesso una seria ed approfondita riflessione sul tema “cambiamento climatico” al di fuori dell’Unione Europea, e i Paesi in via di sviluppo, la Cina e gli Stati Uniti hanno lavorato seriamente per trovare un compromesso tra le propie esigenze di crescita (aumentate da una crisi che ha segnato le economie mondiali) e sviluppo sostenibile.
L’annuncio di Obama ne è una prima prova chiara, e fa ben sperare che il “dopo Kyoto” comporterà, come previsto da tempo dagli “ottimisti”, la nascita di quell’auspicato Carbon Market globale che andrà lentamente ma certamente a ridisegnare lo sviluppo economico del pianeta e ad alleggerire quelle serie tensioni geopolitiche che arriveranno a breve dal mercato dei combustibili fossili – Petrolio e Gas, risolvendo insieme il problema ambientale e quello della sicurezza degli approvigionamenti energetici.
In questo percorso vi sarà poi la possibilità di cambiare, in meglio, quei modelli di consumo e culturali che hanno imperato negli ultimi 20 anni almeno, e che han fatto dimenticare a molti l’importanza di avere le radici nella cosiddetta economia reale.
In questo contesto rimane pero’ una nota dolente, e viene dall’Italia.
Nel nostro Paese, in questa legislatura, si continua ad osteggiare (e alla fine si resterà da soli in questo) questo cammino virtuoso di cambiamento: a proposito vi consiglio di leggere questo articolo dal titolo “Alla faccia di Copenaghen” che parla di alcuni emendamenti alla Finanziaria 2010 che cercano di azzoppare il mercato delle rinnovabili (proprio in una fase cosi’ delicata).
Massimo
Un interessante studio del CNR, pubblicato sul Corriere di ieri, sulla distribuzione di (domini) Internet in Italia

Se non lo avete letto, vi riporto in sintesi i risultati di uno studio CNR sulla distribuzione dei domini internet registrati in Italia:
un dato che secondo molti è una buona proxy per leggere una maggiore o minore propensione all’innovazione e allo sviluppo, ma anche il tasso di “alfabetizzazione digitale” dei cittadini, delle imprese e delle istituzioni locali, il tasso di diffusione di “connettività veloce”, ed altre.
NUMERO DOMINI TOTALI (.IT) : 1.429.009
di cui:
NORD: 776.677 (54,35%) ovvero 340 domini su 10,000 abitanti
CENTRO: 347.863 (24,34%) ovvero 354 domini su 10.000 abitanti
SUD: 304.469 (21,31%) ovvero 180 domini su 10.000 abitanti
Una delle cose che viene fuori dallo studio è, ad esempio, il fatto che il “Web è piu’ diffuso dove reddito pro capite e tasso di scolarizzazione sono piu’ alti: la Rete dunque amplifica le differenze”?
Sarebbe interessante avviare una discussione insieme su questi dati, che sono sì sintetici, ma racchiudono tante realtà del nostro Paese su cui la Rete potrebbe incidere.
Massimo Preziuso
L’Italia c’è: la Consulta boccia il Lodo Alfano perchè incostituzionale

18:11 Consulta: serviva legge costituzionale
La Consulta – secondo quanto appreso dall’Ansa – ha bocciato il ‘lodo Alfano’ per violazione dell’art.138 della Costituzione, vale a dire l’obbligo di far ricorso a una legge costituzionale (e non ordinaria come quella usata dal ‘lodo’ per sospendere i processi nei confronti delle quattro più alte cariche dello Stato). Il ‘lodo’ è stato bocciato anche per violazione dell’art.3 (principio di uguaglianza). L’effetto della decisione della Consulta sarà la riapertura di due processi a carico del premier Berlusconi: per corruzione in atti giudiziari dell’avvocato David Mills e per reati societari nella compravendita di diritti tv Mediaset.
Un Ministero per lo Sviluppo Sostenibile per la Green Economy and Society in Italia

Se si vuole essere protagonisti nella nuova epoca della Sostenibilità, questo è il tempo delle grandi innovazioni, soprattutto in Italia.
Tante sono le cose da fare, nel settore pubblico ed in quello privato, nei mondi della scuola, della ricerca, dell’industria, dei media, della finanza ed altri ancora.
Ma la prima cosa di cui un Paese come il nostro ha bisogno oggi è la nascita di una struttura di Governo che attui e coordini tutto il complesso di “politiche pubbliche” necessarie all’avvio di un percorso che ci porti ad una Green Economy and Society.
Una soluzione in tal senso è la nascita di un Ministero per lo Sviluppo Sostenibile (MISS), che accorpi in sé il Ministero dello Sviluppo Economico (MSE) e il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (MATTM).
In tal modo, il MISS si doterebbe della forte capacità di impatto sul mondo industriale dell’attuale MSE (che è l’amministrazione di riferimento per i settori portanti dell’economia italiana) e dell’esperienza e competenza in tema ambientale del MATTM (che è l’amministrazione preposta all’attuazione della politica ambientale), migliorando efficacia e efficienza della spesa pubblica.
Il Ministero per lo Sviluppo Sostenibile diverrebbe così, insieme al Ministero dell’Economia, il motore delle politiche di sviluppo (sostenibile) dei prossimi decenni in Italia.
Una proposta come questa, oggi, è chiaramente una provocazione, ma un Paese moderno, perché possa cambiare davvero, ha il dovere di discutere anche di provocazioni.
Massimo Preziuso
WAITING FOR OBAMA – INNOVATORI EUROPEI’S PARTY
CLEAN TECHS E FINANZA ISLAMICA
Finanza islamica e clean technologies per lo sviluppo sostenibile nel Mediterraneo
(pubblicato su RESET di Novembre in Progetto “Kyoto of the cities”(di Massimo Preziuso*))
In questo contributo si vuole evidenziare l’emergere, dalle ceneri della crisi finanziaria che sta colpendo i mercati e le economie di tutto il mondo, di un enorme potenziale di sviluppo sostenibile nell’area del Mediterraneo, derivante dall’incontro dei mondi delle Clean technologies e della Finanza islamica.
In pochi mesi, le clean technologies e sviluppo sostenibile del pianeta sono diventati i protagonisti del dibattito quotidiano nel mondo dei media, della politica, dell’economia e nella società.
Solo a dicembre scorso, anche io scrissi per Astrid un piccolo contributo dal titolo “il futuro della finanza nelle clean technologies” dove sostenevo che, in un mondo scottato dalla finanza derivata, gli investitori avrebbero guardato sempre più ai real assets, in particolare alle Clean technologies, per trovare riparo dalla “tempesta perfetta” che si stava per abbattere su di essi.
Solo qualche mese più tardi, tutto questo sta avvenendo, ed in maniera sostenuta: infatti, sebbene gli ambiziosi ma necessari risultati previsti dal protocollo di Kyoto (il trattato internazionale sul cambiamento climatico, che ha dato luogo alla fissazione di “limiti di emissione nocive” alla maggior parte dei paesi industrializzati) siano ancora lontani, ci sono tutti gli elementi per essere fiduciosi ed aspettarsi una ulteriore crescita di attenzione, di investitori e non, verso il tema della sostenibilità ambientale.
In questo senso, la recente sfida di lungo periodo lanciata solo qualche settimana fa al G8 di Hokkaido (riduzione del 50% di emissioni nel 2050), sebbene a molti possa sembrare soltanto “un enunciato di parole”, rappresenta un ulteriore e decisivo segnale su quale direzione il mondo abbia ormai preso: quella dello sviluppo sostenibile dell’economia e della società.
Oggi, le clean technologies (tecnologie di produzione energetica a zero emissioni) continuano ad attrarre ingenti capitali (di investitori istituzionali e non), a motivare importanti politiche pubbliche in tutto il mondo, a dar vita ad importanti iniziative di business e di ricerca, e a rendere sempre più consapevoli i cittadini dell’importanza da dare alle scelte di consumo e agli stili di vita personali.
Due esempi numerici per tutti:
– tra il 2005 e il 2007 la piattaforma finanziaria dell’ETS (Emission Trading Scheme), il principale mercato di scambio di certificati di emissione ha quadruplicato i propri volumi, passando dai 15 ai 64 miliardi di dollari annui ed avviandosi a divenire una piattaforma globale, con l’ingresso secondo molti ormai vicino (2009) dei grandi colossi economici Stati Uniti e Cina.
– Esistono ormai più di 60 carbon funds, con capitalizzazione sopra i 10 miliardi di dollari, che hanno dato vita ad importanti investimenti in progetti CDM (Clean Development Mechanism, il meccanismo project based nato a Kyoto) operanti nei paesi in via di sviluppo, dando l’inizio ad un trend crescente sull’Africa (oggi 5% del totale).
Ma se è vero che le clean techs rappresentano sempre più il cuore di un nuovo paradigma economico e culturale mondiale, da qualche tempo si affianca loro un’altra novità interessante e di lunga prospettiva: lo sviluppo della Finanza Islamica.
Negli ultimi due anni, infatti, in parallelo alla crisi scoppiata con i subprime, e continuata con la crescita dei prezzi del petrolio e delle materie prime, proprio la finanza islamica ha acceso i motori a ha preso il largo.
Ma cos’è la finanza islamica e perché sta crescendo così tanto, in un panorama finanziario da tempo e da tutti definito grigio?
Fondamentalmente la finanza islamica è basata su alcune interpretazioni di alcuni versetti del Corano – il “glorioso” libro dell’Islam, e i suoi due pilastri centrali consistono nell’impossibilità di ottenere interessi sui prestiti (ribà) e nell’obbligo di effettuare investimenti socialmente responsabili. La finanza islamica, quindi, si fonda sul concetto dell’assed based financing, ovvero sull’idea che una istituzione finanziaria possa agire solo nel finanziamento di attività produttive – reali attraverso una propria partecipazione diretta nell’investimento.
Proprio per queste sue caratteristiche peculiari, in questi ultimi due anni, mentre i mercati venivano fortemente colpiti dall’attuale crisi globale, un enorme spostamento di capitali si è diretto verso la finanza islamica: il settore è cresciuto, infatti, ad un ritmo del 20% annuo e molti analisti prevedono il giro di affari di questa tipologia di investimento sarà di circa 2 trilioni di dollari per il 2010.
Da un lato tale crescita si spiega con la crescita della ricchezza dei paesi arabi legata al prezzo del petrolio, dall’altro dalla richiesta degli investitori (istituzionali e non) di investimenti più sicuri e meno rischiosi, nel “viaggio verso la semplicità” di cui si è parlato nei media i mesi scorsi.
Alcuni analisti ed economisti sono arrivati a dire che una finanza mondiale incentrata sul modello islamico oggi non avrebbe vissuto il trauma derivante dai subprime, per la semplice ragione che “le varie strutture finanziarie montate su tali mutui non sarebbero potute esistere in quel mondo (finanza islamica)”, e quest’ultima è una verità dura da contestare.
Di contro, la finanza islamica vive oggi nella difficoltà di staccarsi dalla diffusa consuetudine, presente nelle società occidentali, di essere considerata “attività” vicina al mondo del terrorismo internazionale, sebbene la maggior parte dei colossi dell’investment banking abbiano avviato linea di attività dedicate a tale tipologia di investimenti.
Andando a concludere: il punto centrale che questo piccolo contributo vuole sottolineare è che i fenomeni “Finanza Islamica” e “Clean Techs” si stanno sviluppando insieme, perché mossi dagli stessi drivers e diretti verso un futuro collegato e correlato – la sostenibilità ambientale.
Infatti, essendo le clean techs fondamentalmente legate ad assets reali, esse diverranno sempre più il target di attrazione per la finanza islamica dei prossimi anni, a maggior ragione quando i paesi arabi dovranno guardarsi intorno per trovare il sostituto del “petrolio” – asset / risorsa che andrà ad esaurirsi presto – e trovare un nuovo sentiero di crescita sostenibile per le proprie economie e società.
I primi passi di questo avvicinamento sono stati già fatti:
– il governo di Abu Dhabi ha avviato il più grande fondo clean tech al mondo, investendo in tutto il mondo per raggiungere importanti obiettivi di crescita sostenibile per tutto il mondo arabo.
– I paesi islamici del mediterraneo iniziano a definire degli obiettivi importanti di crescita
Sostenibile basata sulle politiche ambientali
– Il Mediterraneo vive un momento di rinascimento economico e culturale, ed è già sede di importanti investimenti provenienti da tutto il mondo: è di questi giorni la notizia di un progetto (50 miliardi di Euro), sviluppato presso la Commissione Europea, per la costruzione di una immensa rete di pannelli solari (di dimensione paragonabile alla superficie del Galles) che potrebbe produrre tutta l’elettricità richiesta dal continente europeo.
E’ il mediterraneo, infatti, il luogo in cui far frutto dell’avvicinamento tra clean techs e finanza islamica sopra descritto, ed è l’Europa la naturale candidata a condurre questo percorso, essendo per storia e cultura, il baricentro naturale tra mondo arabo, mediterraneo e occidentale.
I primi fatti stanno avvenendo: infatti, con l’avvio dell’Unione Mediterranea (UM), “avvenuto” il 13 e 14 luglio a Parigi, l’Europa ha da subito la possibilità di unire i quattro concetti chiave – Europa, Mediterraneo, Energia e Finanza Islamica – sotto un unico cappello, UM appunto.
UM nasce infatti proprio con l’idea che l’ambiente possa essere il volano per lo – sviluppo sostenibile delle due sponde del mediterraneo – luogo ideale in cui cominciare a sviluppare quella complessa e necessaria transizione verso quello che io chiamo “Clean Economy and Society”.
Ci sono tutte le premesse – politiche, economiche, sociali e demografiche – per permettere che questo accada: bisogna però darsi tutti da fare, perché vi sono pochi anni per intercettare il “futuro”.
Massimo Preziuso – Innovatori Europei
www.innovatorieuropei.com
*Profilo
Laureato in Ingegneria Gestionale nel 2003 presso Federico II a Napoli, si è specializzato su Innovazione e Tlc presso Telecom Italia (Talent Academy), E Business e Management presso il Politecnico di Torino (2004), Finanza Pubblica e Valutazione di Investimenti Pubblici presso l’Università La Sapienza (2005). Si è poi iscritto (2005) al Dottorato di Ricerca in Finanza di Progetto presso Luiss Guido Carli, svolgendo una Tesi sul tema della “Evoluzione della finanza verso l’ambiente e la sostenibilità”, passando periodi di ricerca presso Peking University (2007), dove ha frequentato una Summer School sul tema Globalizzazione e Climate Change, e London School Economics (2007/08), in qualità di Visiting Researcher. Ha lavorato presso Telecom Italia (2003-04), Consip spa (Ministero Tesoro, 2004-06) e dal 2007 si occupa di investimenti nei settori delle Energie alternative e delle Risorse Naturali. Dal 2006 è fondatore e presidente di Innovatori Europei e dal 2008 direttore del Centro Studi di ISME (Istituto di studi economici e finanziari per lo sviluppo del Mediterraneo).
E’ IL TEMPO DELLE SCELTE
LA CULTURA DEL NOSTRO PIANETA E’ IN PERICOLO. E’ il tempo delle scelte
(pubblicato su RESET di Novembre all’interno di Progetto “Kyoto of the cities” (di Gabriele Mariani) *)
La nostra cultura ha conosciuto e conosce ancora momenti splendidi, là dove l’uomo viva senza traumi il suo rapporto con la natura. Questo pare si possa intendere anche dal racconto della Bibbia, ove il peccato non arrivi a rompere gli equilibri.
Ma questa età felice può non finire, se l’uomo saprà amare le proprie origini.
La natura soddisfa tutte le nostre esigenze, e vivendo in simbiosi con essa e godendone i frutti ci fa crescere. Ce ne accorgiamo quando la natura ci manca. Ed è bello apprendere ancor oggi dai libri di protagonisti del secolo appena trascorso, quale Rigoni Stern (che amo ricordare), come l’uomo che viva la natura ne alimenti anche la propria cultura.
Intendendo per cultura non tutto quanto faccia (o dia l’illusione di fare) dell’uomo un essere potente e superiore agli altri esseri viventi, ma la sapienza che deriva dalla conoscenza del proprio ambiente vitale e dal modo di gestirlo, preservandone la ricchezza. Perché mentre imparava a gestire il rapporto con elementi vitali quali la terra, l’acqua e il fuoco, l’uomo è cresciuto dallo stato semplicemente esistenziale a quello di essere razionale, in grado di stabilire e di scegliere da sé come operare per il meglio.
Così è stato sino a quando non capitò che l’uomo si sentisse minacciato dalla natura. Perché ovviamente il rapporto con la natura non è stato sempre idilliaco, e l’avvicendarsi delle stagioni e i fenomeni che nei secoli hanno modificato l’ambiente hanno sviluppato negli uomini dei meccanismi di difesa, che nel tempo talvolta purtroppo sono diventati aggressivi. L’uomo ha cercato di modificare la natura a proprio vantaggio, com’era ovvio e ragionevole, ma spesso dimenticando le regole e i limiti che la natura stessa ci insegna.
Ne è nato un conflitto, e dove la natura ha avuto il sopravvento sono rimasti solo i resti.
Perché paradossalmente, l’uomo per fare ordine crea il disordine. Il consumo dell’energia, che secondo le leggi della fisica può produrre un lavoro più o meno utile, è cresciuto a dismisura senza regole e senza freni, sino allo spreco, creando in molti casi danni non rimediabili nel breve arco dei tempi che l’umanità sa gestire.
Oggi la nostra cultura e i nostri costumi, troppo dipendenti dall’uso dell’energia, sono in pericolo. E’ tempo di rimetterli in discussione, e non solo per noi stessi, ma guardando anche a quello che ci circonda.
Infatti il colonialismo politico ed economico delle nazioni più avanzate che, per iniziativa propria o per una felice posizione geografica, hanno imboccato per prime la via dello sviluppo, monopolizzando per decenni i consumi dell’ energia e appropriandosi delle fonti, dovrà fare i conti con i mercati che loro stessi hanno sviluppato, e con i popoli che, per la crescita demografica e il migliorato stile di vita, incrementano esponenzialmente i propri consumi.
E la tentazione è più forte per chi ha avuto di meno….
E ciò in relazione al risveglio politico e sociale in quei paesi che per decenni sono stati relegati ai margini, accontentandosi di vivere di luce riflessa dai paesi ricchi.
Chi ha meno certezze ha anche più coraggio, o la forza della disperazione, ed è più disposto a rischiare. Le promesse dei paesi ricchi non hanno più credibilità e solo dove si fa qualcosa assieme si ottiene credito.
Ma nonostante la prospettiva di un inizio di esaurimento delle fonti energetiche più sfruttate, di natura fossile, i paesi ad elevato sviluppo economico, dove la crisi energetica è comunque già in atto, egoisticamente non sono disposti a sacrificare il proprio benessere. I paesi in via di sviluppo a loro volta incrementano un uso irrazionale delle stesse fonti di energia manipolandole nel modo più pratico e veloce. La mancanza di mezzi e di una seria cooperazione da parte dei paesi ricchi non li incoraggia all’impiego di tecnologie più avanzate, sia dal punto di vista ecologico che dell’efficienza. E così succede che, “nel fai da te”, chi ha sete di sviluppo e possiede una risorsa ne faccia un uso incontrollato ed anche “improprio”, diventando una minaccia anche per coloro che sinora li hanno sopravanzati .Intendendosi per “improprio” l’attitudine allo sfruttamento delle risorse su basi poco scientifiche e poco ecologiche. Come avviene in paesi quali la Cina, dove si allagano intere Regioni per fare energia idraulica e si inquina a dismisura l’atmosfera con l’uso del carbone senza trattare le emissioni e gli scarti..
Oggi per uso improprio è da intendersi principalmente quello su vasta scala di idrocarburi quali petrolio e derivati, gas e carbone senza limiti alle emissioni: le maggiori cause di una produzione enorme di gas tossici e di CO2 che la natura non riesce più a riciclare e che determinano il riscaldamento e le modifiche, talora devastanti, del clima del nostro pianeta .
Il cosiddetto “effetto serra”.
L’incremento dei consumi di combustibili di origine fossile per la produzione di energia elettrica è stato talmente rapido ed imponente da causarne la crescita spaventosa e non prevista dei prezzi, senza con questo che se ne riducano significativamente i consumi.
E paradossalmente l’uso dei cereali per produrre carburanti sintetici da sostituire agli idrocarburi rischia di contrastare la lotta alla fame nel mondo.
Per la prima metà di questo secolo gli indici di previsione degli incrementi globali dei consumi energetici nel mondo , e contemporaneamente le aspettative di riduzione attraverso l’educazione al risparmio, sono valori in continua evoluzione, anche a causa della crisi economica e politica. Pertanto è meglio riferirsi solo ai dati di tendenza, orientati comunque verso un netto incremento dei consumi, con una varia distribuzione sul pianeta.
Come fonte dei dati possiamo riferirci all’IEA (Int. Energy Agency) e al suo outlook annuale.
In effetti in Occidente, auspicando che si possano assumere comportamenti più virtuosi, o volontariamente o come effetto della crisi, i dati dei consumi potrebbero mantenersi più stabili, mentre in Oriente si é imboccata decisamente la strada della crescita, con incrementi medi del PIL di dieci punti annui. In Cina e in India in particolare, incoraggiati dalla necessità dell’Occidente di sviluppare nuovi mercati e di assumere manodopera a basso costo.
Così ogni anno in Oriente si incrementano gli impianti di produzione di energia elettrica di circa 200 gigawatt, un valore circa doppio di quello degli impianti operanti attualmente in Italia .
Pertanto ogni comportamento virtuoso dell’Occidente non basta a contrastare la crescita globale dei consumi e delle conseguenti emissioni. E ciò nonostante che per circa due terzi la produzione di energia elettrica sia ancora concentrata in Occidente.
E’ difficile parlare di risparmio a chi é ancora in gran parte sotto la soglia di povertà.
Quindi le prime esigenze sono quelle di promuovere l’educazione al risparmio energetico e contemporaneamente lo sviluppo su vasta scala di nuove risorse energetiche non inquinanti, alternative alle risorse fossili.
L’educazione al risparmio energetico diventa un fatto di costume, da sviluppare per noi e da insegnare ai nostri figli come rispetto della natura e di coloro che vivono situazioni precarie.
Ora il vero problema è che non esiste “sviluppo sostenibile” se la migliore educazione al risparmio si limita alla installazione di lampadine di basso consumo e a distribuire meglio i propri consumi nella giornata, per evitare i picchi.
Occorre investire nell’acquisto e nell’ammodernamento delle macchine e dei sistemi che migliorano il nostro stile di vita ma che hanno consumi elevati, e cogliere così due obiettivi: riduzione dei consumi e rilancio dell’economia.
I Governi del mondo attraverso il cosiddetto protocollo di Kyoto hanno avviato una azione di natura politica tendente a educare i popoli, anche attraverso sanzioni, a ridurre e/o a modificare le emissioni e le relative cause. Ma i primi a non rispettare gli obiettivi sono state nazioni come Stati Uniti e Russia, fra i maggiori consumatori (anche se produttori) di energia. Ed ora anche Cina ed India, in pieno sviluppo, reclamano per sé meno vincoli.
E’ difficile convincere i popoli dei paesi in via di sviluppo, se la logica è che hai meno diritto ad inquinare perché hai un’economia più arretrata.
Anche il commercio di questi diritti (l’ Emission Trading System) non può essere l’obiettivo principale dell’azione intrapresa per coinvolgere tutti i popoli della terra..
Le riduzioni auspicate del 20% delle emissioni al 2020 (rispetto al 1990) rimarranno una mera aspettativa fintantoché la dipendenza dai combustibili fossili non verrà ridotta drasticamente.
Sia per la trazione che per la produzione di energia elettrica.
La possibilità di catturare la CO2 e reiniettarla nel sottosuolo è una soluzione, e si sta studiando, ma, sia dal punto di vista tecnico che economico, non trova per ora larga applicazione. Forse potrebbe essere imposta se i costi dei combustibili tornassero ai livelli di dieci anni fa.
Oggi nel mondo oltre due terzi dell’ energia elettrica è prodotta ancora da combustibili fossili.
La sostituzione su scala industriale dei combustibili fossili con risorse energetiche rinnovabili (specchi solari, eolico, fotovoltaico, biomasse etc..) comporta due generi di difficoltà: i costi e la scala degli impianti. E’ noto che occorrono alcune centinaia di ettari di terreno per produrre poche decina di megawatt, là dove una centrale tradizionale produce 1000/1500 megawatt. L’impiego di tali risorse su vasta scala richiede situazioni culturali e geografiche particolari, quali la gestione diretta, su scala domestica e/o di piccole comunità, di impianti locali, con esigenze più limitate e non continuative di consumo. Inoltre il costo del kilowattora prodotto è in generale più elevato.
L’Italia incentiva l’installazione di pannelli fotovoltaici, nonostante che il costo del Kilowattora prodotto sia dell’ordine di cinque/dieci volte superiore al costo del prodotto tradizionale. Questo è un bene comunque perché incentivando l’applicazione di una tecnologia promettente se ne favorisce lo sviluppo dell’efficienza e la conseguente riduzione dei costi.
La Smart Grid, ovvero la rete intelligente, é il sogno di stabilire un rapporto di scambio diretto fra tutti i produttori e i consumatori, con una rete simile a Internet, che possa eliminare il vincolo delle politiche delle grandi compagnie e dei governi che gestiscono le risorse.
Le difficoltà derivano dal fatto che nella rete elettrica non è come su WEB, dove può andarci di tutto. Una rete elettrica per operare deve essere monitorata e controllata da un sistema centrale.
La nostra nazione, che impegna attualmente una quantità di energia prodotta pari a circa 100 gigawatt, è dipendente per circa il 15% dei consumi dall’estero, in particolare dagli impianti ad energia nucleare che la Francia e la Svizzera hanno costruito ai nostri confini.
Per far fronte autonomamente ai nostri consumi noi abbiamo la necessità di programmare la costruzione entro il 2020 di almeno dieci centrali da 1500/2000 megawatt, a meno di non voler continuare a comprare energia facendo finta di non conoscerne la provenienza.
Solo l’energia nucleare può dare il contemporaneo vantaggio di un’alta concentrazione di produzione di energia e assenza di emissioni di CO2 e di altri gas.
E’ forse il tempo di rinnovare le scelte che in modo non molto razionale e consapevole abbiamo fatto in occasione del referendum nell’87.
Se vogliamo essere sinceri le scelte le hanno già fatte gli altri per noi, ce lo dimostra anche Chicco Testa nel suo recente libro: Tornare al nucleare ?
Non possiamo più dire di no al nucleare di ultima generazione, già sperimentato e collaudato in oltre 400 impianti nel mondo, senza con questo trascurare lo sviluppo delle risorse alternative che daranno in un futuro prossimo un contributo essenziale, in mancanza di altre risorse.
Nulla che l’uomo ha scoperto o ha inventato è in sé un bene o un male, dipende dall’uso che l’uomo ne fa. Lo sfruttamento per fini pacifici della grande potenza concentrata nell’atomo é un dono di Dio, se contribuisce a elevare lo stile di vita e allontana la tentazione di usi aggressivi.
Il problema è convincersi che si può convivere con un rischio calcolato. Che dopo il disastro di Cernobyl, dovuto a un grossolano errore dell’uomo, l’energia nucleare per scopi pacifici ha causato di fatto molte meno vittime di altre attività industriali e/o di attività normali della nostra vita di ogni giorno, verso le quali non abbiamo questo rifiuto. E questo perché l’industria nucleare ha molti più controlli ed é in continua evoluzione, sia dal punto di vista delle tecnologie che della sicurezza e dei sistemi di trattamento delle scorie.
La terra nella sua evoluzione, a partire dal primo Big Bang, ha sviluppato sempre migliori condizioni di vita, almeno sul lungo periodo. Può esserci una spiegazione religiosa, oppure è solo perché nella natura c’è uno” slancio vitale”, che non si esaurisce . James Lovelock, ambientalista, noto quale inventore della teoria di Gaia, considera la terra un organismo vivente alla ricerca continua di equilibrio,coadiuvata dalla specie umana come parte attiva e interagente, e ha dichiarato che considera l’energia nucleare una risorsa irrinunciabile per affrontare i cambiamenti climatici.
*profilo
Laureato in ing.meccanica al Politecnico di Milano nel 1969, ha lavorato come progettista tre anni alla F.Tosi di Legnano.Assunto nel ’73 alla Snamprogetti( ENI) ha ricoperto vari ruoli e varie responsabilità sino al 2006.Dall’Ufficio Macchine é passato alla Divisione Infrastrutture dove é stato Resonsabile delle Tecnologie ,del Marketing e infine Direttore della Divisione sino al 1988.Direttore commerciale della Snamprogettisud sino al1992.In seguito Presidente del Consorzio Alta Velocità Cepavdue e Direttore Realizzazione Progetti.