Significativamente Oltre

innovazione

COME SUPERARE QUESTA CRISI 2

crisiCome superare questa crisi ? Quale crisi !? Crisi economica e/o crisi del sistema

di Aldo Perotti

Leggo nel bell’articolo di Daniele una serie di proposte tutte ponderate, ragionevoli, ma nelle quali non trovo personalmente, e spero non se ne dispiaccia, nulla di veramente nuovo.

Si tratta effettivamente di ottime proposte ma non immaginano, come invece piace a me, un mondo diverso.

Ma iniziamo con ordine. La crisi.

A detta del nostro Presidente del Consiglio la crisi, letta come recessione – riduzione del PIL , è un fenomeno trascurabile. E, da un certo punto di vista, ha ragione. Se il PIL misura in qualche modo il “livello di benessere” tornare 3 o 4 anni indietro nel tempo non è così terribile. Il problema vero è che leggere la crisi attraverso gli usuali indicatori economici si rischia di giungere ad una sottovalutazione del problema ed alla ricerca di soluzioni “economiche”, tutt’al più aziendalistiche.

Ed è quello che sta succedendo. Aiuti, incentivi, detassazione, qualche svalutazione, ricontrattiamo i mutui, detassiamo, riorganizziamo, ricapitalizziamo, ecc. ecc. In quest’ottica la crisi non spaventa più di tanto; la possiamo interpretare come una fase ciclica negativa quanto si vuole ma, come dicono tutti gli economisti, passerà.

Se invece allarghiamo lo sguardo con una visione più distaccata si osserva che la crisi economica, ed è questo che più spaventa, sembra essere un segnale di crisi “socio-planetaria”, nella quale in discussione non sono in fondamentali dell’economia ma i fondamentali della convivenza umana sul pianeta.

Gli uomini “consumano” le risorse del nostro pianeta da millenni. Molte si rigenerano, altre no. Questo consumo ha avuto una accelerazione spaventosa negli ultimi due secoli. I benefici li conosciamo tutti. C’è una parte del pianeta la cui vita ha raggiunto livelli di qualità inimmaginabili cent’anni or sono. Se paragoniamo la vita di un faraone a quella di molti nostri contemporanei ho l’impressione che il faraone nutrirebbe una sostanziale invidia nei confronti di chi per alimentazione, durata della vita, potere sugli uomini, considerazione degli altri, è oggi anche un semplice capitano d’industria.
Il problema reale è che il livello dei consumi individuali, per ragioni che la storia spiega, è drammaticamente diverso da individuo a individuo, da regione a regione, da stato a stato. Le scienze economiche hanno studiato e spiegato tutto questo, proponendo anche soluzioni, ma senza risolvere il problema. Gli ultimi 50 anni poi, grazie ad una relativa pace mondiale, hanno permesso la creazione di relazioni economiche globali che hanno visto e vedono lo spostamento di risorse, materie prime, semilavorati, lavoratori, scienziati, su tutta la superficie del pianeta. Tutto questo permette un livello di produzione (e di consumo) elevatissimo e misurabile attraverso quantità enorme di rifiuti che l’umanità produce.

Per complicare le cose si deve aggiungere che il tutto è dominato da un principio generale che rende disponibile per l’uso di altri quelle risorse detenute e non utilizzate a fronte della promessa di una maggiore restituzione futura. Si tratta del sistema dei prestiti, del credito, della rendita, dell’interesse sul capitale, che rende certo possibile un ancora maggiore utilizzo delle risorse ed un maggiore consumo anticipato (un consumo diremmo “a debito”). Tutto questo ha portato, a scala planetaria, ad un tale intreccio di collegamenti creditore-debitore che il fallimento di una banca in un posto sul pianeta fa cadere sul lastrico una famiglia all’altro capo del mondo. Molti hanno “consumato” (e ancora consumano) a spese di altri. Paesi come gli Stati Uniti hanno debiti enormi con la Cina dove milioni di operai “lavorano e producono” per permettere ad altri di consumare, questo a fronte di un impegno che sulla carta li rende in pratica ormai “proprietari” (in senso lato) di un pezzo di America.
Immaginiamo per un attimo di voler mettere un po’ d’ordine e consolidare il debito trasformandolo tutto in diritti reali: hai un debito ? hai perso la tua proprietà che viene ceduta a chi vanta dei crediti. Vedremmo delle cose incredibili: tutti i beni pubblici del nostro paese diverrebbero proprietà in parte dei cittadini in cambio dei titoli di debito pubblico e in parte di proprietà estera; molte fabbriche italiane – attraverso una serie di passaggi finanziari – diventerebbero probabilmente proprietà di cittadini cinesi o indiani; e purtroppo si scoprirebbe che a fronte (a garanzia) di molti investimenti finanziari non c’è nulla o nei casi migliori qualcosa di molto incerto che vedrà la luce solo nel futuro.

I parametri di “ricchezza” dei singoli paesi valutati non sul PIL (sul consumo) ma sul “patrimonio” ci vedrebbero di fronte un mondo diverso.

La complessità del sistema è tale che investire in un fondo di investimento in Italia può significare comprare una quota parte di una casa negli Stati Uniti per farci abitare un operaio che al primo problema sul lavoro non pagherà l’affitto o la rata del mutuo (sono i famigerati sub-prime sparpagliati per il mondo).

Se una cosa di positivo c’è, in questo sistema, è che ha creato una sorta di fratellanza universale nella quale i creditori ci tengono molto ai debitori nella speranza di recuperare il loro investimento. Paradossalmente tutti pregano per una ripresa dell’economia americana nella speranza di recuperare un po’ del denaro investito quando ,attraverso il fallimento delle banche, molti hanno già “donato” fiumi di denaro ai super-consumatori americani.

Questo, come prima conseguenza, riduce molto le possibilità di guerre (non si uccide il debitore.. i morti non pagano i debiti).

Non ci sono ancora segnali di “rottura” di questo meccanismo per cui ritengo che la crisi che stiamo affrontando è e rimane una crisi economica. Il livello di fiducia nell’umanità è ancora abbastanza elevato. Si continuano ad utilizzare le banche, le carte di credito. Si comprano i titoli di stato. La borsa valori è attiva e funzionante, ha perso qualche punto, ma nessuno mette in discussione il sistema. Bisogna però ricordare che esiste un movimento “no global” che fa proseliti.

Credo personalmente che la globalizzazione sia ormai un dato di fatto e che indietro non si torna. Il vero problema verrà alla luce quando in questo sistema globale il gruppo dei “creditori” che stanno permettendo ai consumatori “a debito” di mantenere il loro livello di consumi inizierà a consumare “in proprio” ed in particolare a chiedere di rientrare delle “somme anticipate”. A quel punto ci potrebbe essere un’inversione delle parti con gli attuali consumatori che scendono a livelli di consumi sempre più bassi pur continuando a produrre (e molto) per garantirsi la sussistenza. Una sorta di inversione dei ruoli tra oriente/terzo mondo e occidente.

Come evitare questa possibile più grave crisi ? Dobbiamo essenzialmente puntare a limitare i danni e cercare potentemente di recuperare un sistema più sostenibile.

Barack Obama credo lo abbia ben chiaro.

L’occidente deve consumare di meno. Deve consumare meglio. Non più la quantità ma la qualità del consumo deve divenire i l parametro del benessere. Un atteggiamento parsimonioso verso le cose è l’unico che permetterà a tutti una vita sostenibile. Risparmiamo acqua, aria, terra.

Si deve ristrutturare il sistema del credito con l’obiettivo di combattere l’accumulo di capitale. L’accumulo di capitale finanziario è il latifondo moderno, va combattuto con ogni mezzo per l’inevitabile deriva usuraria che comporta (non è una cosa nuova … le religioni spesso combattono il concetto di interesse).

Bisogna ripensare la banca del futuro. Molto promettenti , a mio giudizio, le iniziative di “social lending”.

L’obiettivo può essere quello di qualificare il nostro sistema di vita facendo in modo che i paesi emergenti nel perseguire il nostro livello di benessere non abbraccino (cosa che purtoppo stanno facendo) l’attuale modello insostenibile che con i suoi cicli economici, con la promozione dell’indebitamento, con il capitalismo d’assalto, è spesso fautore di tragedie come l’impoverimento, la disoccupazione, l’emarginazione.

E’ forse questo, certo a parole mie, il “Patto delle responsabilità collettive per il Paese” a cui accennava Daniele.

COME SUPERARE QUESTA CRISI?

crisi finanziariaCome superare questa crisi? Un patto delle responsabilità collettive

di Daniele Mocchi – IE Sapere

Tra i tanti insegnamenti che ci sta fornendo questa crisi economica, così unica – se vogliamo – nel suo genere, quello che più mi ha colpito è che non è possibile pensare di rispondervi usando soltanto strumenti tradizionali. Ce lo hanno insegnato addirittura i nostri stessi Governi, nella fase iniziale, quando più o meno all’unisono hanno messo in atto azioni finalizzate a salvaguardare il sistema finanziario, per evitare che si diffondesse panico eccessivo a livello di imprese e famiglie.

Personalmente, sono dell’idea che di fronte ad una crisi così globale e durevole, che nel giro di un anno/un anno e mezzo porterà inevitabilmente ad un rimescolamento degli equilibri competitivi mondiali, chi pensa di seguire il facile ragionamento che <>, rischierà di trovarsi pericolosamente vicino al crinale, quando effettivamente la ripresa si sarà riavviata.

Non voglio entrare nel merito dell’efficacia delle diverse politiche economiche dei Governi europei e mondiali. Dico soltanto che chi ci ha condotto repentinamente nel tunnel riuscirà anche a tirarci fuori, grazie ad un’incisività e ad una flessibilità nella politica economica e monetaria che molte autorità europee non sono state in grado, in questi mesi, di esprimere (vedi BCE).

Ciò che più mi preoccupa è però l’aspetto micro. Questa crisi, infatti, non può essere affrontata solo in chiave macro, se poi a livello di singoli territori, singole imprese, singole famiglie non vi è altrettanta sensibilità a recepire e a modificare certi comportamenti o a correggere certe disfunzioni.

Guardando più specificamente il lato produttivo, resto dell’opinione che un’impresa, oggi, indipendentemente dalla sua dimensione, non può pensare di rispondere a queste gravi avversità soltanto bussando alla porta delle banche per avere liquidità, piuttosto che razionalizzando o allungando le scadenze dei propri ordini ai fornitori, o approfittando del rinnovo e dell’ampliamento dei fondi governativi per mandare in Cassa integrazione parte della propria forza lavoro.

Oggi, ancor più di ieri, è indispensabile mostrare responsabilità e consapevolezza rispetto all’idea iniziale sulla quale ha preso le mosse l’intrapresa. La cifra della responsabilità sociale di un imprenditore si vede, in questo momento, dal coraggio e dalla perseveranza con la quale vuole continuare a portare avanti il proprio progetto imprenditoriale. Pensare pertanto di continuare a finanziarsi, per esempio, con il classico credito ordinario di cassa, sarebbe soltanto un modo per alleviare temporaneamente la situazione, ma nel lungo periodo non porterebbe a nulla, se non ad un aggravamento della situazione dei conti economici e finanziari dell’azienda.

Le risposte da dare oggi, invece, sono altre, più innovative; risposte che in Italia, in generale, non sono purtroppo mai germogliate totalmente. L’idea è che sia assolutamente indispensabile un gentlemen’s agreement tra tutti gli stakeholders del sistema, una sorta di “Patto delle responsabilità collettive per il Paese”, per evitare derive ancora peggiori, che nessuno vorrebbe. Da un lato vi deve essere una presa di coscienza maggiore da parte degli imprenditori che è indispensabile un loro sforzo ulteriore, e dall’altro, però, si deve riconoscere loro la pretesa di poter ricevere qualcosa in più dal contesto in cui operano, dai loro dipendenti, dalle banche.

Ecco perché un patto tra gentiluomini è assolutamente necessario per rispondere a questa crisi in maniera collettiva, come sistema. Se riusciremo a fare ciò come Paese e come singoli territori, questo varrà molto più di tanti finanziamenti pubblici, che per loro natura sono inevitabilmente individuali, a pioggia e, spesso, non sono neppure allocati efficientemente.

La logica che sottende tutto il ragionamento è quella di sfruttare un tale momento storico per uscirne più forti di prima.

Queste, secondo me, sono quindi le azioni che andrebbero messe in atto dalle nostre imprese in questo lasso di tempo.

1. Approfittare di questa crisi per rimettere a posto i conti economici e finanziari. Sappiamo tutti che in generale le nostre imprese sono troppo piccole, sottocapitalizzate, fortemente indebitate e scarsamente redditizie: approfittiamo di questa situazione per invertire questo trend, altrimenti una crisi lunga e così difficile, rischierà di lasciare molte macerie.

Scivolare, infatti, fino ad un rating tripla C non è poi così difficile, soprattutto in momenti come questi: basta essere sottocapitalizzati (l’optimum secondo i parametri di Basilea dovrebbe essere un patrimonio netto pari ad almeno 1/3 del capitale investito), avere margini operativi non entusiasmanti (secondo Basilea pari ad almeno il 10% del fatturato), appartenere a un settore in crisi e essere contraddistinti da performance negative. Ceteris paribus, è facile immaginare che, nel nostro Paese, l’esercito di coloro che rischieranno di ottenere ristrettezze sul credito o impennate del costo del denaro nelle prossime settimane (perché fuori da questi parametri), conterranno molte reclute.
Oggi più di ieri, l’imprenditore, di qualunque statura esso sia, dovrebbe sempre tenere a mente quotidianamente che impresa vuol dire produzione, ma vuol dire anche economia e finanza, e che tutti questi tre aspetti sono strettamente intrecciati tra loro, per cui è fondamentale tenerli in ordine e in equilibrio.

E’ assolutamente indispensabile, dunque, scrollarsi di dosso tutti quei comportamenti poco virtuosi e quei timori che finora hanno accompagnato gran parte del capitalismo italiano. A mio modo di vedere, per fare ciò occorre:

• ricapitalizzare la propria impresa con mezzi propri;

• aprirsi ai capitali esterni (private equity);

• aprirsi alle risorse umane esterne favorendo un mercato dinamico dei managers e dei talenti in generale;

• cercare strade alternative come quella di lavorare in sinergia con altre imprese, anche internazionali, e, se è il caso, praticare la soluzione non indolore della fusione;

• essere più chiari e trasparenti nei propri prospetti contabili e presentare progetti aziendali convincenti, di ampio respiro e di lungo periodo.

2. Rimettere al centro dell’organizzazione aziendale il capitale umano. Questa crisi ci sta insegnando che dobbiamo ritornare alle qualità tangibili, al sapere fare, al saper innovare, elementi che sono stati e sono ancora nel Dna delle nostre imprese, al di là di ciò che viene codificato dalla statistiche ufficiali. La vera forza competitiva di un’impresa oggi, e ancor meglio in una contingenza simile, oltre a dipendere dalla vivacità del contesto nel quale opera, si misura attraverso la capacità di valorizzare i propri uomini e le proprie donne. Sono loro che fanno veramente la differenza, non sono più, come un tempo, né i prodotti, né l’accesso alle materie prime. Molte indagini internazionali ci dicono che la produttività, che poi è il vero deficit delle nostre imprese, non si alza se non attraverso la valorizzazione dei nostri talenti e la qualità del lavoro. Coltivare e valorizzare talenti vuol dire anche assicurare capacità innovativa all’impresa.

3. Guardare a nuovi mercati, come quelli dell’Est Europa, dell’Asia o del Sud America, insomma rafforzare la rete distributiva in paesi non tradizionali, cercare joint venture. Ci si è sempre vantati che le nostre aziende sono aziende internazionali. Ebbene dimostriamolo ancora di più e meglio in queste occasioni!

Va benissimo continuare a vendere una certa quota dei nostri prodotti all’estero, ma l’internazionalità è anche altro. L’internazionalizzazione si misura anche nella capacità di partecipare come protagonisti ai grandi giochi del mondo, nella capacità di fare cooperazioni, joint venture, per accordi tecnologici, per trovare nuove fonti di idee, per conquistare nuovi mercati, etc. E su questi aspetti, purtroppo, siamo un po’ rimasti fuori finora dai giochi globali. E’ logico che occorra un approccio mentale e culturale innovativo, ma se non lo mostriamo adesso se ce l’abbiamo, quando lo facciamo? Sia chiaro: non è un problema di dimensione aziendale.

Già decidere di destinare almeno un 10% del proprio budget in attività di ricerca e sviluppo, nella conoscenza dei mercati e dei potenziali clienti (georeferenziazione dei mercati), e in piani di comunicazione, sarebbe una buona pratica. D’altro canto, negli ultimi anni la qualità del prodotto non è più la discriminante principale del successo di un’azienda, ma sono invece i fattori immateriali e gli individui ad essere determinanti.

E’ giusto quindi che gli imprenditori diano molto alla causa, ma al contempo è anche giusto che ricevano un di più dal sistema banca io e dai loro dipendenti.
Si sa che il sistema bancario in Italia, ma non solo, è assolutamente vitale per le piccole medie imprese, essendo l’unico vero canale dove poter reperire fondi. Proprio per questo è auspicabile che un salto di qualità del tessuto produttivo sia accompagnato da un altrettanto salto di qualità del principale canale di finanziamento. Perché la capacità di investire e di innovare di un’impresa non dipenda soltanto dalla forza contrattuale dell’imprenditore nei confronti del sistema bancario, ma dalla bontà del progetto aziendale che presenta. Oggi si deve ripartire da questo punto. E’ uno dei tanti insegnamenti che ci lascia questa crisi.

Alla luce di ciò, sarebbe auspicabile se il sistema bancario:

1. Andasse incontro alle imprese, laddove queste esprimessero l’intenzione di rinegoziare vecchi mutui, sottoscritti tempo addietro ad un tasso di interesse fisso molto più alto rispetto a quello odierno; oppure accogliesse la loro volontà di fare operazioni di consolidamento del debito, per spalmare il finanziamento su un arco temporale il più lungo possibile, in modo da ridare un po’ di ossigeno ai loro conti. E’ chiaro che l’ausilio di un Confidi in questo caso potrebbe essere prezioso, sostituendo con la propria garanzia la debolezza dell’impresa.

2. Si rendesse disponibile ad entrare direttamente come socio, e non solo come creditore, nel capitale di alcune imprese, laddove queste non avessero disponibilità monetarie per ricapitalizzare saldamente il proprio patrimonio sociale. Questo è un passaggio importante. Oggi è fondamentale, per le imprese, mostrare un’apertura nei confronti del capitale terzo e nei confronti del management esterno, e, per le banche, è altrettanto importante mostrare disponibilità ad investire nel sistema. I problemi sono diventati talmente complessi che se non ci si affida anche a specialisti esterni, a dottori della materia, mettendo da parte l’ambizione personale, si rischia di non guarire le nostre aziende.

3. Desse maggior supporto, non solo finanziario, ai progetti di espansione commerciale all’estero e di stabile presenza sui mercati internazionali del sistema produttivo.

Infine, non può venire meno la responsabilità dei Sindacati dei lavoratori, i quali oggi dovrebbero accantonare ogni forma di protesta sterile che in questo momento non serve a nessuno, e dare una mano a riscrivere le regole per una pacifica convivenza e per una fattiva collaborazione, per uscire da quest’impasse.

UE E PARTENARIATO ORIENTALE

europaL’Ue e il Partenariato orientale: tra sfere di influenza e soft power, i paesi del Caucaso sono fuori dall’ allargamento

Di Alessia Centioni – Innovatori Europei Europa

La Commissione europea ha annunciato la nascita di un nuovo e ambizioso progetto: si tratta del Partenariato orientale attraverso cui saranno potenziate le relazioni politiche, economiche (in particolar modo quelle legate all’energia) tra l’Unione europea e Ucraina, Moldavia, Georgia, Armenia, Azerbaijan e Bielorussia.

La prospettiva europea, indirizzata ad una nuova generazione di accordi di associazione, tende a realizzare sia un’integrazione maggiore tra le economie di questi paesi e quelle degli Stati membri, sia la semplificazione normativa legata allo spostamento delle persone, nonché la stabilità degli scambi delle risorse energetiche.

Ed è proprio in materia di energia e di assistenza finanziaria che si ravvisa l’affare più significativo della nuova strategia di associazione con i paesi dell’Europa orientale. Per realizzare i benefici di un’intesa economica tra l’UE e i “sei” sarà necessario un forte e reciproco impegno politico per garantire un futuro più stabile e sicuro all’Europa e alle regioni caucasiche.

Mentre Barroso respinge l’interpretazione di chi vede nel partenariato la divisione dell’Europa orientale in sfere di influenza, il Presidente della Commissione, ribadendo le buone relazioni tra Bruxelles e Mosca, parla al contrario di soft power e della capacità di attrazione degli accordi tra l’UE con i “sei”. Tuttavia la Russia continua ad essere considerato un paese “riluttante” come indica lo studio CEPS (“La politica di vicinato due anni dopo: è il tempo di PEV-plus”), e per questo il Cremlino richiede un trattamento speciale, non considerandosi semplicemente paese vicino, bensì partner strategico dell’Unione europea.

Per la Commissaria alle Relazioni esterne Benita Ferrero-Waldner “il partenariato garantirà un’integrazione più approfondita nell’economie dell’Unione e regole più semplici per i cittadini dei paesi partner che viaggiano nell’UE”, e aggiunge che ,“l’approccio dell’ UE continuerà ad articolarsi in programmi su misura per le esigenze dei singoli paesi, benché su scala diversa e con l’aggiunta di una forte dimensione multilaterale. Con questo nuovo pacchetto di misure offriamo anche un sostegno più approfondito per aiutarli a conseguire i loro obiettivi”.Gli accordi prevedono una struttura molto efficace per rafforzare le relazioni tra l’UE e i partner dell’Est nonché un rilevante stanziamento di fondi che raggiunge i 350 milioni di euro e riprogramma quelli già stanziati per arrivare entro il 2013 a 600 milioni di euro. I punti fondamentali degli accordi dell’Unione con i “sei” prevedono la gestione integrata delle frontiere, il sostegno per lo sviluppo di piccole e medie imprese, lo sviluppo dei mercati regionali dell’energia elettrica e la promozione dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili, la realizzazione del corridoio energetico meridionale e la cooperazione per risposte congiunte alle calamità naturali.

Se nel secolo scorso, l’integrazione economica in Europa, ha dato vita ad un mercato comune del carbone e dell’acciaio per scongiurare il riarmo nel vecchio continente e per equilibrare l’assetto politico, militare ed economico delle potenze nel dopoguerra. Oggi l’integrazione economica rappresenta la possibilità di mettere in comune (o almeno sottrarre al monopolio) l’energia globale e accelerare il processo di democratizzazione in alcuni paesi; l’ambizione del partenariato di costruire una zona di libero scambio di beni e servizi tra UE e i “sei”, e successivamente tra i paesi dell’area caucasica, comporterà nel medio periodo il riassetto politico dell’Europa orientale. Nonostante le più vicine relazioni che sono in procinto di instaurarsi tra Ue e i paesi caucasici, è da escludersi la possibilità di convertire gli accordi di associazione in accordi di adesione, come avvenne per i paesi ex-sovietici; la prima spiegazione a tale impossibilità è abbastanza evidente, giacchè quattro dei sei paesi vivono in uno stato di guerra, come avviene in Bielorussia, dove vige un regime repressivo assai lontano dai parametri dell’aquis comunitario che ne permetterebbe l’ingresso nell’Unione.

Fa eccezione l’Ucraina, unico paese potenzialmente candidato all’allargamento. L’adesione dell’Ucraina all’UE è tuttavia ancora molto lontana a causa della forma di governo presidenziale semi-autoritaria e della conseguente crisi istituzionale. La riforma costituzionale e giudiziaria, fortemente incoraggiata dall’UE, consentirebbe di giungere ad una maggiore stabilità politica, eliminando i frequenti contrasti interistituzionali risolti troppo spesso a colpi di autoritarismo. Ad oggi l’Ucraina non mostra ancora di aver intrapreso la strada della stabilità al contrario della Georgia, dove l’unità politica è senza dubbio maggiore. Qui la lotta alla corruzione e il tentativo di garantire la trasparenza delle elezioni riflettono l’intenzione di intraprendere il cammino di democratizzazione europea.

La Georgia si aspetta molto dall’UE e conta sul sostegno delle strutture transatlantiche per raggiungere la fine del conflitto, concludere accordi commerciali e ottenere maggiori aiuti. Realizzare una maggiore integrazione con l’UE fino a diventarne stato membro; disattendere le aspettative georgiane potrebbe aggravare una situazione già molto delicata, per la stabilità nel Caucaso e per l’Unione europea che non può perdere questa partita dove in gioco ci sono energia, diritti umani e libertà fondamentali.
Ragioni di carattere politico rafforzano l’impossibilità di adesione da parte di Azerbaijan e Armenia, paesi che hanno manifestato l’intenzione di orientarsi verso altre direzioni. Vista la posizione geografica dell’Azerbaijan, vicino alla Russia e sensibile alle sfide che arrivano a sud dall’Iran, la futura politica del paese, sia interna che estera, sarà determinata dalla gestione delle risorse energetiche e dagli assetti geopolitici che ne deriveranno. Il controllo delle risorse energetiche e delle vie di trasporto strategiche nella regione del mar Caspio possono conferire al governo azero una maggiore forza negoziale, e accrescere l’apertura politica e lo sviluppo nonostante la corruzione, la repressione dell’opposizione politica e del diritto di informazione facciano parte di un’evidente instabilità interna e di standard democratici non ancora raggiunti.

L’Armenia rappresenta un grande interesse per l’UE, tuttavia il suo impegno ad avvicinarsi ai parametri di democrazia europea sono ancora insufficienti; permangono forti contrasti tra governo e opposizione caratterizzati da un’aspra tensione tra le forze politiche, nonché violazioni dei diritti e delle libertà civili. Il passo verso l’Unione europea è ancora molto lontano. Più che alla NATO e all’UE, l’Armenia sembra guardare alla più vicina Russia.

La futura politica europea di vicinato PEV ha l’obiettivo di garantire la stabilità dei rifornimenti energetici e promuovere la diffusione dei valori fondamentali dell’UE, vale a dire democrazia, diritti umani, libertà civili e trasparenza; il destino dei paesi ex-sovietici dipenderà dal testa a testa tra Unione europea e Russia o da chi saprà offrire un’alternativa democratica?

STUDIO E RICERCA IN ITALIA

universitàStudiare e Fare Ricerca in Italia: Come Progettare l’Università’ del XXI secolo

(Documento presentato dal Gruppo IE Sapere all’interno del dibattito UNIVERSITA’ E RICERCA.
LE RIFORME E LE RISORSE PER CAMBIARE. DISCUTIAMONE! tenutosi oggi presso la sede del Partito Democratico).

In questi giorni il dibattito pubblico si sta occupando di baroni, scandali giudiziari, e concorsi truccati. A noi di Innovatori Europei sembra invece giunto il momento di ri-centrare il dibattito su quello che veramente conta: quali opportunità il sistema universitario offre ad ognuno di noi per migliorare e crescere professionalmente? Per produrre e condividere innovazione e sapere? Per cambiare in meglio il nostro status sociale?

Nelle economia moderne, le Università sono un motore fondamentale dello sviluppo tramite la produzione di capitale umano, avanzamenti scientifici e l’integrazione con le giovani imprese in parchi del sapere per aggregare competenze e produrre ricchezza Ma non solo. L’accesso esteso agli studi universitari sarà’ tra i principali discriminanti tra società’ chiuse e immobili, e società dinamiche, aperte e pronte ad adattarsi ai mutamenti delle condizioni economiche globali.

Partiamo quindi dai dati. Fino al 35% dei lavoratori nei paesi più’ avanzati è impiegato nei settori ad alto contenuto tecnologico delle scienze della vita, della finanza, della comunicazione, dell’ingegneria, delle industrie manifatturiere leggere e high-tech. Ma strategiche sono anche la diffusione della cultura umanistica e artistica, tanto più’ importanti in un paese come il nostro, detentore del 70% del patrimonio artistico mondiale.

E invece, negli ultimi 15 anni i settori ad alta densità tecnologica hanno avuto in Italia tassi di espansione più lenti che altrove; gli investimenti in tecnologie della comunicazione sono stati scarsi e scarsamente produttivi; gli stipendi medi hanno perso potere d’acquisto.

Come recentemente descritto, la crisi italiana e’ soprattutto una crisi di produttività. Siamo stati di fatto incapaci di utilizzare appieno il nuovo apporto di forza lavoro, assorbire efficacemente le innovazioni tecnologiche e arricchire il capitale umano del paese per tenere il passo dei nostri diretti concorrenti. In Italia, il ritorno economico dell’investimento in istruzione terziaria e’ infinitesimo e in preoccupante decremento da 15 anni, mentre quasi la metà dei dirigenti e imprenditori ha un titolo di studio pari o inferiore alla terza media.

Da tempo l’Italia è il più grande esportatore europeo di cervelli e il paese meno capace di importare figure professionali qualificate dall’estero. Già’ agli inizi degli anni 90 la quota di laureati italiani residenti fuori dal territorio nazionale era doppia o tripla di quella degli altri paesi europei. Le Università italiane più aperte ospitano solo il 5% di ricercatori stranieri contro il 30-75% dei migliori Atenei del mondo. Inoltre, il nostro paese produce meno laureati dei nostri competitori e la durata degli studi e’ esorbitante: in Italia ci si laurea a 30 anni, dopo più di 9 anni dall’immatricolazione e circa 4 studenti su 10 sono fuori corso da oltre 5. Numeri impensabili in qualsiasi altro paese moderno.
Anche il versante della ricerca non offre un panorama rasserenante. La nostra produzione scientifica e’ inferiore per quantità e qualità a quella dei diretti competitori internazionali. Anche per questa ragione le nostre Università faticano ad attrarre capitali privati. Quando poi i nostri ricercatori riescono ad ottenere finanziamenti Europei, scelgono spesso di emigrare per realizzare i loro progetti, segno che ritengono il nostro paese inadatto a sostenere i loro studi.

Infine, aspetto non meno allarmante, l’Università pubblica italiana fallisce anche nella sua funzione di moderazione delle diseguaglianze sociali: solo 1 ragazzo su 3 tra i 19 e i 22 anni frequenta un corso accademico. Poco più’ della metà rispetto agli Stati Uniti, nonostante i costi per l’istruzione siano in quel paese ben più’ elevati.

E’ allora fondamentale dare gli strumenti legislativi e finanziari per consentire all’Università italiana di recuperare il terreno perso e raggiungere livelli di eccellenza, pur garantendo l’accesso all’istruzione superiore anche alle fasce più’ deboli della popolazione.

Oggi tutti sembrano convinti che più denaro e concorsi a prova di truffa possano risolvere ogni problema. Ma è questa la strada giusta? La ricerca accademica italiana e’ poco produttiva perché sotto-finanziata? La correttezza dei concorsi pubblici è veramente una questione risolvibile tramite leggi prescrittive sempre più dettagliate che finalmente indichino una procedura inespugnabile? E’ veramente una questione di furbetti, mascalzoni e fannulloni?

A prima vista maggiori investimenti pubblici sembrerebbero essere non solo necessari, ma urgenti: la quota di PIL devoluta alla ricerca e all’innovazione nel nostro paese è pari al 1.1% (di cui 0.55% statale) ed è inferiore alla media europea (EU15). Ma a guardar bene si scopre che le spese sostenute per full time – equivalent student e per ricercatore sono superiori a qualsiasi altro paese europeo e persino agli Stati Uniti. Inoltre il rapporto tra full time – equivalent students e docenti, una misura dell’effettivo carico didattico, non e’ diverso da quello delle ottime Università inglesi.

Esiste poi un altro mito, forse il più’ persistente, il quale consiste nel ritenere che il corretto funzionamento del meccanismo di reclutamento sia una questione essenzialmente etica e normativa. E allora ad ogni scandalo si introducono nuove fantasiose regole nel tentativo di circoscrivere la discrezionalità e promuovere la trasparenza fino a quando la fantasia dei regolati (che in Italia pare essere inesauribile) trova un metodo per superare i limiti imposti dalle leggi.

I dati empirici confermano tristemente quello che ognuno di noi conosce. Il fattore che maggiormente determina il successo accademico in Italia è l’affiliazione a qualche cordata locale o baronia, e non la produttività scientifica o la qualità della didattica offerta. Il “fattore campo”, se vogliamo usare una metafora calcistica, è così forte che un outsider deve produrre almeno 13 pubblicazioni in più di un affiliato se vuole partire alla pari nel concorso.

In realtà, non conta da chi è composta la commissione, se sorteggiati o selezionati tra un panel di esperti. Non conta la correttezza delle procedure formali, se nessuno pagherà mai per scelte sbagliate in sede di reclutamento e promozione. L’attuale sistema di fatto incentiva il prodursi di cordate e accordi. Il tempo che i professori dedicano a costituire e solidificare relazioni è necessariamente maggiore di quello dedicato a fare ricerca e insegnare, perché solo le “amicizie” contano veramente. Non è un problema antropologico, nemmeno genetico. E’ un problema strutturale che riguarda il sistema di incentivi che governano il sistema.

Fino ad oggi in Italia i fondi sono stati distribuiti su base storica, e il sistema di progressione salariale è automatico, biennale e dipende esclusivamente dall’anzianità di servizio. In Italia non esiste alcun meccanismo efficace di interruzione della carriera accademica che sia iniziato da una Università. Questo deve cambiare. Bisogna pretendere che il sistema universitario pubblico sia efficiente, produca risultati misurabili, si sottoponga alla verifica delle sue attività perché assegnare appropriatamente i fondi in assenza dei segnali prodotti dal mercato richiede una costante raccolta di dati e un attento scrutinio.

Come dimostrato dai recenti studi empirici, l’autonomia, finanziaria e legale delle Università e la loro responsabilizzazione attraverso le valutazioni di efficacia ed efficienza, sono i presupposti necessari perché qualsiasi riforma abbia una qualche speranza di successo.

Ad oggi, il 70% dei fondi provengono dal Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO). Da qualche anno però una parte del FFO viene assegnato secondo la Quota di Riequilibrio (QR) che entrerà a regime nel 2030. Questo meccanismo attribuisce i fondi pubblici in base al numero di full time students e al costo standard per studente. La QR si basa sul presupposto che le Università che offrono servizi migliori vengano frequentate da più studenti e siano quindi in grado di acquisire proporzionalmente maggiori risorse.

Purtroppo anche questo meccanismo presenta ancora notevoli imperfezioni. In sintesi la QR tende a favorire le aree didattiche a bassa intensità tecnologica che richiedono costi fissi minori; l’assenza di un sistema di controllo di qualità dei risultati tende a disincentivare la creazione di percorsi e metodi formativi innovativi, di per se stessi più’ rischiosi e costosi; terzo, in assenza di un mercato del lavoro che accoppi efficientemente produttività e salario la QR può incentivare una riduzione degli standard formativi e inflazionare il rilascio di lauree, come osservato molto chiaramente da recenti analisi empiriche.

E’ quindi fondamentale condurre valutazioni basate sull’evidenza scientifica per migliorare il calcolo della QR e includervi parametri in grado di riconoscere opportunamente le differenze di costi fissi tra le diverse aree e discipline. Sarà inoltre decisivo agganciare una parte rilevante dei fondi ad un sistema di valutazione della didattica che incorpori indicatori di volume (numero di laureati/anno) e indicatori di qualità’ (ad esempio, soddisfazione dell’utenza, tempo mediano di disoccupazione post-laurea, salario nel primo biennio post laurea, ecc).

Dovrà anche essere implementato un piano di edilizia universitaria e di prestiti facilitati legati alla performance dello studente che abbatta i costi di trasferimento e faciliti la mobilità. Infine dovrà’ essere favorito lo sviluppo di agenzie autonome per il ranking e resi pubblici i dati di performance delle Università.

Ma non dobbiamo dimenticare che il successo di un’istituzione accademica dipende anche dalla qualità e motivazione degli studenti. Il regime attuale, in cui gli studenti pagano solo il 10% dei costi, non incentiva lo studio serio e il raggiungimento di obiettivi formativi in tempi ragionevoli. Inoltre, rette artificialmente basse rappresentano di fatto un trasferimento netto dai poveri ai più ricchi, perché abbassano la qualità della didattica intrappolando i meno abbienti in un sistema non in grado di fornire una formazione adeguata a competere nei mercati globali. Dobbiamo prevedere di raddoppiare il contributo degli studenti e di estendere contemporaneamente borse di studio che coprano l’intero importo della retta degli studenti meritevoli con difficoltà economiche.

Ma questi provvedimenti incideranno solo indirettamente sulla qualità della ricerca, che necessita una ristrutturazione dei meccanismi di finanziamento.

Ad oggi solo una parte minoritaria del finanziamento pubblico viene devoluta specificamente alla ricerca tramite i Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale (PRIN, equivalente al 2% del FFO nel 2000), i fondi per giovani ricercatori (0.2% del FFO, sempre nel 2000) e altre fonti minori. Questi fondi vengono assegnati tramite un processo di valutazione esperta. I fondi vengono assegnati al ricercatore che può utilizzarli discrezionalmente per il raggiungimento degli obiettivi. Una parte di questi fondi va all’Università ospitante per la copertura dei costi indiretti (spese amministrative, affitti, personale di supporto). Il processo di valutazione esperta coinvolge almeno 3 revisori di cui 1 straniero. Inoltre è prevista, ma non ancora realizzata, una valutazione degli outcomes raggiunti.
Questo metodo di assegnazione è potenzialmente in grado di fornire gli incentivi e le condizioni ambientali necessarie a promuovere una vera rivoluzione delle produttività scientifica nel nostro paese. La competizione diretta e aperta per risorse limitate indurrà i gruppi di ricerca a dotarsi di modelli organizzativi e strumenti di analisi dei costi oggi sconosciuti nelle nostre Università. Costringerà gli Atenei a convergere verso un progressivo miglioramento della performance. Questi strumenti permetteranno contemporaneamente alle Università di competere a livello internazionale sul mercato privato della ricerca.

Ma questo modello di incentivazione non può funzionare alle attuali condizioni. Poco più del 2% del fondi non possono influenzare comportamenti generali. E necessario ristrutturare gradualmente ma con decisione, il fondo per il finanziamento Universitario in modo che almeno il 30% sia devoluto tramite il meccanismo PRIN. Inoltre i criteri di valutazione adottati in Italia non sono trasparenti e quindi non garantiscono l’adeguata allocazione delle risorse: in molti paesi, primo fra tutti gli USA, sono stati realizzati efficaci protocolli di assegnazione competitiva che potrebbero essere adattati alla realtà’ italiana. Infine è necessario istituire procedure per il controllo di qualità’ a breve e lungo termine dei progetti finanziati, dei criteri di valutazione e di accuratezza dei valutatori.

In conclusione, se da un lato le prestazioni dell’Università italiana sono fonte di estrema preoccupazione, essa è già parzialmente dotata degli strumenti necessari alla sua radicale riforma. Nonostante l’opinione pubblica sia indignata per gli scandali venuti recentemente alla luce, noi crediamo che gli istinti punitivi siano inutili e controproducenti. La riforma dovrà essere condotta con gradualità, consentendo a tutte le figure coinvolte di adattarsi con efficienza al cambiamento e di trarne i maggiori benefici.

Bibliografia:

– Banca D’Italia. Rapporto Annuale. Maggio 2008
– Bagues, Sylos Labini, Zinovyeva. Differential Grading Standards and University: Evidence from Italy. CESifo Economic Studies, Vol. 54, 2/2008, 149–176, doi:10.1093/cesifo/ifn011.
– Daveri, Jona-Lasinio. Italy’s decline: getting the facts right. Unpublished.
– Tammi. The competitive funding of university research: the case of Finnish science universities. High Educ, DOI 10.1007/s10734-008-9169-6
– European University Association. Financially Sustainable Universities. Toward full costing in european University. EUA Publications, 2008
– Gagliarducci et al. Lo splendido isolamento dell’Università Italiana. Presentato alla conferenza, “Oltre il declino”, Roma, 3 febbraio 2005.
– Lazear. Incentives in Basic Research. Journal of Labor Economics. Vol. 15, No. 1, Part 2: Essays in Honor of Yoram Ben- Porath (Jan., 1997), pp. S167-S197
– Becker, Ichino, Peri. How Large is the “Brain Drain” from Italy?. March, 2003
– UN Economic reports. Understanding Knowledge Societies. 2005. ISBN 92-1-109145-4
– Tinagli, Florida. L’Italia nell’era creativa. Creativity Group Europe; Luglio 2005.
– OECD Policy Brief. International Mobility of the Highly Skilled; Luglio 2002.
– OECD/GD(97)202. Technology Incubators: nurturing small firms. 1997.
– Perotti. The Italian University System: Rules vs. Incentives. European University Institute. 2002.
– Sandlers, Weel. Skill-Biased Technical Change: Theoretical Concepts, Empirical Problems and a Survey of the Evidence.
– Simone, R., L’Università dei tre tradimenti, Laterza
– Simone, R., Idee per il governo dell’università, Laterza
– Van der Ploeg. Towards Evidence-based Reform of European Universities. CESifo Economic Studies, Vol. 54, 2/2008, 99–120

Presidente:
Massimo Preziuso, Ph.D. in Finanza, LUISS; infoinnovatorieuropei@gmail.com

Coordinatore del gruppo di lavoro: “Progettare l’Università’ del XXI secolo”
Luca Neri, Post-Doctoral Fellow – Saint Louis University, Mo – USA; lneri@slu.edu;

Hanno collaborato alla stesura del documento:

Luca Neri, Post-Doctoral Fellow – Saint Louis University, Mo – USA; lneri@slu.edu;
Daniele Mocchi, ricercatore ISR – CCIAA Massa-Carrara; daniele.mocchi@gmail.com;
Andrea Candelli, Ph.D. student – Vrije Universiteit Amsterdam, The Netherlands; andrea.candelli@gmail.com;
Michele Cipolli, Consulente in ICT; mcipolli@msn.com;
Aldo Perotti, Funzionario del DPS – Ministero dello Sviluppo Economico; aldo.perotti@tesoro.it;
Giancarlo Giordano, Esperto in Gestione delle Aziende sanitarie giancarlo742001@yahoo.it;
David Ragazzoni, Filosofia Politica – Universita’ Normale Superiore di Pisa ; d.ragazzoni@sns.it.

Enzo Tripaldi, Consulente per Politiche Comunitarie e Sviluppo Rurale; enzotripaldi@tiscali.it;

LA LETTERA DI UN INNOVATORE

Cari amici di IE,

in questi giorni ho potuto riflettere su quelle potrebbero essere le potenzialità del Centro Studi di Innovatori Europei.

Vi dico subito che le trovo enormi!

Mi è venuto lo spunto dalla preparazione di un paper (che vi allego), fatta per la stragrande parte dal buon Luca Neri, sull’università e la ricerca in Italia, che stamani andremo a presentare come IE ad una convention del PD. Era un argomento che conoscevo poco, ma grazie al grande lavoro di Luca, ho potuto saperne di più, ho potuto farmi una migliore idea della situazione attuale delle università italiane.

In questo momento di crisi morale della politica, e del Pd in particolare, e di depressione economica, ma anche sociale, sto notando come molti gruppi, associazioni, che prima delle elezioni si mostravano tanto dinamici, oggi invece stanno alzando bandiera bianca, anzi direi che pian piano si stanno sfarinando.

Personalmente, invece, sostengo che proprio in questo momento si debba mostrare coesione, vitalità, propositività per uscire da questa crisi, se volete anche di valori, che sta attanagliando la società italiana.

Il Censis, nel suo Rapporto annuale presentato un paio di giorni fa, ha evocato il ritorno alla dimensione collettiva delle cose, all’impegno di ciascuno per il bene comune, percependo una deriva individualista sempre più pericolosa ed un sempre più diffuso senso di apatia, di disinteresse verso la società nel suo genere.

Quindi, se davvero vogliamo essere riformisti, dobbiamo dimostrare sul campo di essere tali. E come farlo se non assumendoci, soprattutto in questo momento storico, ognuno le proprie responsabilità?

Mi rendo conto che vi sono mille impegni quotidiani, dal lavoro alla famiglia, etc, che assorbono quasi totalmente le nostre giornate.

Però io credo che un piccolo ritaglio di tempo per formare ulteriormente la nostra coscienza sociale di cittadini di questo piccolo mondo si possa trovare. Anche perché vi dico, per esperienza personale, che giungere alla fine di un lavoro apprezzabile, che è stato lungo e doloroso, ripaga di tutti gli sforzi che si sono fatti.

D’altro canto, non credo neppure che il lavoro per IE sia così eccessivamente gravoso. A questo proposito, ho fatto un ragionamento che vorrei porre alla vostra attenzione.

Partendo dal presupposto che sarebbe ottima cosa, se a regime, ogni centro (sapere, energia, europa) avviasse, a rotazione, una volta ogni 3-4 mesi, un paper, un’iniziativa specifica su un tema al centro dell’agenda politica, visto che ciascuno gruppo è costituito in media da una decina di persone, vuol dire che, se funzionasse la rotazione e tutti collaborassimo, ciascuno di noi potrebbe essere propositore e coordinatore di un determinato progetto (magari sull’argomento che conosce meglio!) una volta ogni due/tre anni circa.

Vi pare un lavoro eccessivo?

Immaginatevi soltanto cosa vorrebbe dire avere a disposizione un patrimonio di una decina di ricerche l’anno sui temi più delicati dell’agenda economica, sociale, europea, ambientale, etc.
Sarebbe una piattaforma eccezionale anche per poter aprire dei dibattiti sui nostri territori, oltreché naturalmente elevarci come importante e ascoltato (si spera!) interlocuture del PD.

In questo momento, per esempio, mi sembra alquanto all’ordine del giorno il tema del ricambio generazionale e di una nuova moralità nella vita pubblica.

Che ne dite?

Un caro saluto

Daniele Mocchi – IE Carrara (MS)

DARIO MARINI SCRIVE AGLI I.E.

Amici e amiche del Gruppo Innovatori Europei.

Mancano pochi giorni alle Primarie dei Giovani del PD del 21 novembre. Questi sono stati, per me, mesi straordinariamente intensi, fatti di politica sul campo, quella vera, complessa e affascinante. Arriva ora il momento di stringere i denti più che mai, per lasciare un segno e rendere reale, tutti insieme, un’idea rivoluzionaria di Giovanile e di impegno giovanile nel PD.

Sono felice di poter dialogare con voi con grande franchezza, consapevole del percorso unico che abbiamo condiviso all’insegna della competenza, dell’etica della responsabilità, della politica come percorso di crescita individuale al di là della “spada” e del “sangue”.

Le sfide che sono alla base della mia candidatura a Segretario dei Giovani del PD sono tre. La prima è l’opportunità di costruire una giovanile di spiriti liberi, autonomi e critici. Un’organizzazione vera, nazionale, ma al tempo stesso federale e aperta a tutti senza pregiudizi. La seconda è la voglia di non riproporre gli schemi del passato, voglia di sussidiarietà e di praticità. La terza ragione è l’assoluta necessità di un cambio generazionale all’interno del PD, intendendo con questo non solo l’aspetto anagrafico ma anche il profilo politico dei suoi “giovani”.

Insomma, certo non avrò vinto il Nobel in economia o in scienze poltiche, ma ho chiaro in testa che c’è una sinistra riformista in via di estinzione in aree importantissime per il Paese e un PD in difficoltà fra gli under-30, che pure hanno mutui sulle spalle, non arrivano a fine mese, ma preferiscono al nostro senso di realtà il radicalismo leghista o il machismo dei Berluscones. E’ tempo di testimoniare che i democratici esistono davvero, che c’è una parte importante del Paese e dei suoi giovani che non si accontenta di andare in piazza ma vuole essere protagonista, spendersi per risolvere i piccoli e grandi problemi, capire i territori e partecipare concretamente al cambiamento.

Un’alternativa è possibile. Ti chiedo, perciò, di sostenere il 21 novembre con il tuo voto la mia candidatura a Segretario Nazionale.

Con stima,

Dario Marini

http://dariomarini.wordpress.com

marinidario@hotmail.com

ELEZIONI USA E FUTURO MONDIALE

ELEZIONI USA: IL FUTURO DI UNA NAZIONE PER L’EQUILIBRIO DEL MONDO

di Giovanni Satta

Un commento personale tra il razionale e l’emotivo. L’evento delle elezioni negli Stati Uniti, nell’era della globalizzazione e della crisi economico-finanziaria globale, propone una scala di problemi mai prima di ora affrontati e comunque assai difficili da affrontare adeguatamente da parte di una rivista come la nostra, piccola e di settore ancorché attenta a ciò che avviene nel mondo.
Ho pensato perciò di rinunciare ad un editoriale impegnato su tutti i fronti – che meriterebbe giudizi e commenti approfonditi per i quali non dispongo di competenze ed informazioni sufficienti – e di offrire ai nostri lettori una rappresentazione dell’evento basata semplicemente sul mio vissuto razionale ed emotivo.

Per me che, grazie ad una precoce e lunga militanza nel PRI di Ugo La Malfa, sono diventato adulto con i miti della più grande e consolidata democrazia del mondo, dello spirito del Mayflower con l’etica protestante a fondamento e regola del capitalismo, del modello di sviluppo fondato sull’utilizzo della scienza sulla produttività e sulla società aperta, del management scientifico di Harward neopositivista e comportamentista, delle libertà ed opportunità individuali offerte dall’unico Paese al mondo in cui tutto è possibile, queste elezioni hanno rappresentato una emozione enorme. Una emozione da passione politica e professionale che mi ha attanagliato sia per il ricordo del periodo della Nuova Frontiera Kennediana (che è stata la mia grande passione giovanile drammaticamente stroncata dall’assassinio di JFK), sia per la frustrazione vissuta negli anni della presidenza Bush, le cui politiche ed i cui comportamenti operativi mi sono sembrati radicalmente antitetici alla “mia”immagine dell’America leader di democrazia e sviluppo, partner autorevole ma non arrogante ed anzi rispettosa dell’indipendenza ed autonomia dei suoi alleati.

Il timore di un deragliamento. Per dirla in tutta sincerità, il mio vissuto durante la campagna elettorale è stato dominato dal timore che, con la sconfitta di Obama, si consolidasse la deriva che andava trasfigurando la “mia” America, e pertanto, in un mondo in cui la democrazia è in netta minoranza, la posta in gioco sarebbe stata la scomparsa di quello che per me è sempre stato il pilastro centrale della libertà e della convivenza dei popoli.

Credo che i seguenti pochi esempi di deviazione arrogante dal solco tradizionale della politica americana siano sufficienti per comunicare i miei timori:

– la Convenzione di Ginevra ed il principio base dell’habeas corpus (valore fondante delle libertà e della democrazia), calpestate dalle detenzioni di Guantanamo, dalle extraordinary renditions, dalle torture di Abu Graib, per di più praticate contestualmente alla pretesa di esportare la democrazia con la forza delle armi;

– i principi e la stessa credibilità dell’ONU pubblicamente disattesi ed oggetto di scherno, con la proclamazione unilaterale della guerra, accompagnata dalla falsa accusa delle armi di distruzione di massa ed addebitata alla inettitudine della Organizzazione delle Nazioni Unite ed alla codardia (i mangiaformaggio) dei Paesi membri della EU – da sempre alleati dell’America- che si allineavano alle posizioni dell’ONU;

– la distruzione di tutte le regole del mercato, che decreta il trionfo dei falsificatori di bilanci perché la crisi finanziaria, sfociata in recessione globale, è fondata su una infinita catena di valori certificati ma falsi e, ironia della sorte, viene curata con il denaro dei contribuenti, statalizzando le aziende in default e sopprimendo il mercato;

– il rifiuto di aderire al protocollo di Kyoto, essendo tra i più forti inquinatori e non essendo in grado di proteggere i cittadini da calamità legate al clima come quella di New Orleans.

L’endorsment del New York Times. A sollevarmi dalla solitudine e dalla angoscia con cui osservavo tutto ciò, pochi giorni prima del giorno fatidico è giunto l’endorsment del New York Times per il candidato Obama. L’incipit dell’editoriale – intitolato Barack Obama For President – presentava un quadro insolitamente fosco della condizione politica degli Stati Uniti, avvisando i lettori che la posta della campagna elettorale era più che mai il futuro della nazione.

Nei dettagli l’articolo spiegava poi che gli Stati Uniti erano giunti a questa scadenza disastrati dagli otto anni di “failed leadersip” del Presidente Bush, che lasciava ai suoi successori due guerre, una immagine globale sfregiata ed un governo sistematicamente privo della capacità di proteggere ed aiutare i suoi cittadini. Aggiungeva inoltre un sintetico raffronto delle grandi linee politiche dei contendenti, sottolineando in generale che Obama prometteva speranza, cambiamento, riforme per difendere gli americani ed i loro business, struttura fiscale più giusta e uso della forza limitato alla sconfitta dei Talebani e di Al Quaeda, mentre Mc. Cain insisteva su guerra di classe, divisioni razziali, tasse poco progressive, e parlava ancora di una ingloriosa vittoria in Iraq. Il raffronto sulle posizioni dei contendenti proseguiva con la valutazione dei problemi – ritenuti semplicemente troppo gravi per poter essere ridotti a retorica o a messaggi negativi – e si concludeva con il seguente assunto politico finale: “This country needs sensibile leadership, compassionate leadership, honest leadership. Barak Obama has shown that he has all of those qualities”.

L’emozione dei risultati. Dunque la mia visione non era frutto di paranoia, bensì di riflessione sui fatti, se coincideva con le ponderate opinioni di uno dei migliori quotidiani degli States. Ero certamente in buona e numerosa compagnia e potevo aspettare anche io con speranza l’esito delle urne, tuttavia ho atteso con trepidazione i risultati ed ho assistito in diretta, con partecipazione inenarrabile, al discorso di ringraziamento che il nuovo Presidente ha dedicato ai suoi elettori ed a tutta la Nazione.
In questo clima, mi sono reso conto, ed ho il piacere di raccontarlo, che le dimensioni della vittoria di Obama, e la felice serenità che ha caratterizzato la festa finale (compreso il tempestivo, sincero e cavalleresco riconoscimento da parte del concorrente Mc. Cain, prima prova empirica che la grande nazione ha ancora solide radici) dimostrano che il New York Times aveva visto giusto, perché la vittoria ha premiato proprio le doti di leadership e le promesse di futuro identificate dall’editoriale di endorsment.

E subito dopo ho realizzato lo straordinario valore storico e politico di questa vittoria, che finalmente risolve al massimo livello istituzionale l’antico problema della separazione etnica o razziale, retaggio della schiavitù, e dimostra con i fatti che gli Stati Uniti sono ancora un grande Paese in cui qualsiasi meta è possibile. La semplice, pudica e breve apparizione della moglie e delle due figlie, coniugata con lo slogan “we can” ripetuto milioni di volte durante la campagna elettorale e ribadito in questa circostanza, acquista un valore simbolico inestimabile, anche alla luce del sostegno del popolo ispanico. Il valore della inclusione definitiva di tutti i cittadini: il segnale che l’America vuole andare avanti e quindi chiama a raccolta tutte le sue forze.

Il sogno che è costato la vita a grandi leaders come i fratelli Kennedy e Luther King ha compiuto il suo passo più importante e inizia ad avverarsi e può essere la carica morale necessaria per un new deal di grande respiro, per superare la crisi e rilanciare lo sviluppo e la pace.

Speranza, cambiamento e nuove forze in un Paese in cui ancora tutto è possibile. In queste condizioni di inclusione totale e con la mobilitazione di nuove risorse umane e politiche, le sole parole “speranza e cambiamento” con cui si è qualificato Obama e le promesse riforme per difendere gli americani ed i loro business, struttura fiscale più giusta e uso della forza limitato, acquistano un grande valore di impegno credibile per una svolta che ricostruisca il paese.

Anche in questo caso, credo che, più del commento possa essere eloquente un brano del discorso di ringraziamento, relativo alla volontà ed all’atteggiamento con cui Obama affronta le sfide per il mantenimento delle Promesse.

“Abbiamo bisogno di nuova energia, nuovi posti di lavoro, nuove scuole, …. avremo pericoli da affrontare e alleanze da ricostruire. La strada che abbiamo davanti sarà lunga ed in salita, ed il traguardo non è a portata di mano, probabilmente non sarà raggiunto nel giro di un anno o di un singolo mandato. Ma vi prometto che ci arriveremo ……. Molti non saranno d’accordo con ogni singola decisione che dovrò prendere, e tutti sappiamo che il governo non può risolvere ogni problema, Ma sarò sempre onesto con voi e vi ascolterò, soprattutto quando non la penseremo allo stesso modo. Dobbiamo resistere alla tentazione di ricadere nelle divisioni che per tanto tempo hanno avvelenato la politica americana”. E, citando Abramo Lincoln a rafforzamento del vincolo democratico nazionale, riconferma che “non siamo nemici, ma amici. E la passione non può spezzare il vincolo che esiste fra di noi” e, rivolto a chi non lo ha votato promette “Sarò anche il vostro presidente”. Ritengo che, in considerazione della grande mobilitazione e delle maggioranze consolidatesi nelle due camere, si possa dargli credito nonostante l’impervio cammino che lo aspetta. E d’altronde, con la crisi che avanza, avremo presto nuovi elementi di giudizio.

Politica estera, il grande banco di prova. Sulla politica estera le enunciazioni di Obama sono più caute, ma è lecito attribuire questo atteggiamento alla prudenza legata alla sua ancora scarsa esperienza, alla grande turbolenza che caratterizza la situazione ed alle questioni irrisolte ed incancrenite della gestione precedente. Su questa partita, a parte il già avvenuto ingaggio di un uomo di consumata esperienza, la cautela è di obbligo, perché il quadro politico internazionale è fortemente perturbato in tutti i continenti, anche in ragione delle iniziative unilaterali della gestione Bush che sono state la spina nel fianco dello stesso Mc. Cain, e quindi la agenda del nuovo Presidente all’inizio del mandato sarà affollata di disimpegni più che di impegni.

In proposito, credo che il primo problema da affrontare sarà quello del nuovo posizionamento, che dovrà scontare il principio che gli Stati Uniti, proprio in ragione della loro importanza per l’avanzamento e la difesa della democrazia, non possono accampare nessun privilegio rispetto al resto del mondo. Se Obama partirà col piede giusto, il resto verrà di conseguenza, e conosceremo presto la sua caratura. In altri termini, se sarà chiara la sua preferenza per la cooperazione sulla imposizione ed inizierà innanzitutto ad impegnare positivamente gli Stati Uniti su una concezione dell’ordine mondiale per grandi aggregazioni geopolitiche ed economiche e quindi su un equilibrio multipolare e a dare la giusta importanza alle battaglie ideali come la questione ambientale, i diritti umani e le precondizioni per la democrazia, allora sapremo che veramente e definitivamente in America tutto è possibile.

L’UOMO CHE VINSE DUE VOLTE

di Enzo Tripaldi

“Evvai!”. E’ stato questo il generale commento del centrosinistra italiano all’annuncio dei primi dati ufficiali delle presidenziali statunitensi. Al quale si unita anche la sinistra e qualcuno di destra.
Barak Obama è il 44° Presidente USA. Tutti o quasi pazzi per l’ex senatore dell’Illinois.
La storia tuttavia va ricordata per intero e non solo nelle sue battute finali, altri momenti ben più decisivi hanno segnato il successo di Obama.

Ad onor del vero il miracolo l’avrebbe dovuto compiere il suo avversario, quel John McCain che partiva con gli otto anni dell’era Bush sul groppone, un’amministrazione screditata, impantanata su molti teatri internazionali ed accusata di aver fatto poco per prevenire il ciclone finanziario degli ultimi tempi.

Ma chi era Barak Obama? Basta riavvolgere il nastro di un paio di anni. Un senatore del PD americano, un “emergente” lo definirebbero in Italia, uno cui occorreva ancora un po’di gavetta.

Al momento della sua discesa in campo, molti hanno mostrato solo simpatia, altri scetticismo, soprattutto il PD americano puntava su un altro cavallo: Hillary Clinton.

Gli stessi toni della lotta nelle primarie dell’asinello, la stessa “stampa amica”, hanno cercato di affibbiargli addosso l’immagine di un candidato competitivo, nuovo, ma ancora acerbo.

Mentre Obama lavorava con caparbietà alla sua proposta, alla sua vittoria, utilizzando con genialità il web, l’etablishment democratico era per lo più schierato con la Clinton.

La disputa fra i due è stata serrata, è volato anche qualche colpo basso (e non dal senatore afroamericano), che successivamente i repubblicani hanno cercato di rilanciare con modesti risultati.

Qui nasce l’impresa di Obama, la vera lezione del “popolo democrat” è stata quella di ribellarsi nelle urne al candidato appoggiato dal partito, è stato più difficile superare Hillary Clinton del settantaduenne John McCain. Chi oggi esalta la “lezione americana” dovrebbe anche riconoscere questa decisione rivoluzionaria dell’elettorato democratico. Il cambiamento non è solo stato annunciato, auspicato, esso si è concretizzato con la nomination dell’outsider Barak Obama.

Ecco perché ha vinto due volte.

Anche sull’altro fronte d’altra parte ha prevalso il candidato meno amato del partito, che avrebbe preferito (ed ha sostenuto) Mitt Romney e Rudolph Giuliani.

A McCain qualcosa di più dell’onore delle armi, dopo aver dichiarato che “Obama è il mio presidente” si è spinto sino a dire “Questa è un’elezione storica, ed io riconosco lo speciale significato che riveste per gli afroamericani e per il particolare orgoglio che deve essere il loro questa sera”. Non prima di aver chiamato il vincitore per congratularsi e comunicagli “…il mio rispetto per le sue capacità e la sua perseveranza”.

Gli americani, il mondo ora si augurano una forte “rottura” Con il permesso del pauroso deficit americano dovrebbe essere impostata una nuova politica economica, più attenta alle fasce più bisognose. Le maggiori speranze riguardano però gli scenari internazionali: si dovrebbe ripartire da zero per tessere un dialogo (con il contributo dell’interlocutore) sul dossier – Iran, mentre seppur abbandonando la dottrina “bushiana” dell’attacco preventivo, è difficile che, a breve, vi sia un radicale cambiamento della strategia in Iraq ed Afghanistan. Se sono divisi su alcuni temi, su altre partite democratici e repubblicani registrano più differenti sfumature che reali divergenze.

Dovrebbe mutare la sensibilità dell’amministrazione verso i problemi del clima, si vedrà di quanto.
Questa elezione potrà dare una spinta alle aggregazioni non conservatrici del vecchio continente?
Certo che si, ma sarà meno intensa di quanto si spera, le socialdemocrazie, i riformisti, la sinistre europee ci dovranno mettere molta applicazione.

Resta il fatto che un quarantasettenne sarà a capo della più grande potenza mondiale.

Good luck Mister Obama !

L’ORGOGLIO DI ESSERE AMERICANO

L’orogoglio di essere concittadino ed elettore di Barack

(di David Ragazzoni – IE)

NEW YORK – Il 4 novembre 2008 sara’ per me non solo uno spartiacque indelebile nella storia politica del nostro tempo, da raccontare ai miei figli con la commozione e l’attenzione di chi lo ha vissuto in prima persona. Sara’ nella mia memoria il giorno in cui mai mi sono sentito piu’ orgoglioso di essere cittadino americano. Il 4 novembre 2008 e’ stata l’occasione per me di votare per la prima volta negli Stati Uniti e di far sentire la mia voce in una circostanza in cui non si poteva rimanere in silenzio. Il seggio elettorale a New York dove mi sono recato a votare poco dopo le 17 contava ancora un’affluenza straordinaria: persone di ogni eta’ rimaste per ore in attesa del proprio turno, perche’, come ci ha ricordato Barack nel suo discorso subito dopo i risultati, sentivano che la loro voce poteva essere, questa volta, la differenza. Il popolo di Times Square in tripudio come se si festeggiasse una palingenesi, i volti rigati dalle lacrime mentre sui maxi schermi passano in diretta le immagini di colui che portera’ nel mondo una nuova immagine di cosa significa America, il paese dove ‘tutto puo’ succedere’, e di cosa significa essere Americani nell’America di Obama. La mattina del 5 novembre alle 9 del mattino le copie del New York Times in tutta New York erano esaurite: una copia nel pomeriggio arrivava fino ai 100 dollari, per chi voleva conservare le immagini stampate del giorno in cui la Storia aveva preso una direzione diversa. Mai il mondo e’ stato cosi’ unito e cosi’ preso nel festeggiare la vittoria di un presidente americano. Mai si sono visti tanti paesi reclamare il proprio contributo nell’aver formato o contribuito anche in tempi remoti ai natali di un presidente USA. Nel discorso che ha pronunciato immediatamente dopo i risultati, Barack non ha utilizzato tonfi trionfalistici, ma ha messo l’accento su quello che adesso serve fare, ha ricordato quanto sia importante lavorare adesso per lasciare ai propri figli un paese migliore. Guardare avanti, non fermarsi nel presente. Otto anni di amministrazione repubblicana in cui le paure radicate nella pancia e nel cuore dell’America sono state manipolate con efficacia vengono ora rimossi per lanciare verso il futuro uno sguardo nuovo. Non lo sguardo trionfante che potrebbe vantare chi ha dimostrato di poter realizzare l’impossibile, ma quello incredibilmente penetrante, deciso e carismatico con cui Barack ha ringraziato l’America che lo ha eletto. Lo sguardo che caratterizza soltanto le forze dolci, le forze piu’ vere e visionarie.

David Ragazzoni

News da Twitter
News da Facebook