Significativamente Oltre

innovazione

Italia 2018: gli Innovatori Europei nella “Terza Repubblica”

di Massimo Preziuso

Torniamo “live” dopo un paio di mesi, a causa di un brutto attacco informatico.

Anche se era già da gennaio scorso e il mio post su La brevissima campagna elettorale e l’importanza di progetti, programmi e visioni politiche che ci eravamo fermati, dopo aver verificato che niente di quello che auspicavamo era successo. Abbiamo così approfittato per una pausa di riflessione abbastanza lunga. Ci risvegliamo in questo maggio 2018, in un’Italia evidentemente cambiata, all’alba di una possibile e auspicabile Terza Repubblica.

Il Partito Democratico – per cui ci siamo spesi per un decennio almeno, fino alla triste esperienza della Commissione nazionale sulla Forma Partito (2014 – 2016), in cui provammo a portare le nostre idee sulla necessità di un Dipartimento Progetti e di un “filiera progettuale” (idea condivisa con il forte Fabrizio Barca, che ha coniato il termine) – si è resettato a marzo. E, cosa incredibile, continua a testare minimi assoluti, con una leadership ormai annullata, che continua a pretendere protagonismo assoluto.

Siamo nell’Italia del Movimento 5 Stelle e della Lega Nord. E in questo week end potrebbe nascere un governo, abbastanza strano e originale (per le differenze di elettorato e di programmi), tra i due protagonisti della scena politica italiana. Un tentativo rischioso, che però è giusto tentare di avviare, per provare poi a rompere gli schemi, in Italia ed in Europa. In ogni caso, speriamo davvero che tutti gli altri Partiti, a cominciare dal PD, colgano questa crisi / opportunità per riformarsi e cambiare drammaticamente.

Tornando a noi, Innovatori Europei ha lavorato per più di un decennio per provare a portare un contributo di riforma e di innovazione al sistema politico italiano ed europeo.

In alcuni casi il cambiamento è poi arrivato, in molti altri no. Soprattutto, questo ci rammarica, dieci anni dopo non vediamo alcuna sostanziale innovazione nella forma organizzativa e nella modalità di selezione di classe dirigente politica.

Unico esempio che abbiamo visto all’opera è quello di M5S, con le prime forme di E Democracy. Il Movimento ha così dato opportunità a tantissimi comuni cittadini di provare a cimentarsi nella Politica, senza intermediazioni, anche se ha così prodotto una classe dirigente di qualità a volte non eccezionale.

Negli ultimi anni, la nostra iniziativa da indipendenti si è connotata sempre meno in termini di partecipazione alle elezioni (come abbiamo fatto nel passato in varie realtà, supportando nostri candidati) e sempre più nello sviluppo di progetti complessi, regionali e nazionali. Ed è’ su questa linea che vogliamo continuare. Perché fin dai tempi dell’impegno nelle Associazioni per il Partito Democratico (2006-7) crediamo che una seria progettualità sviluppata in maniera libera da appartenenze sia la principale motrice del cambiamento innovativo.

Continuiamo altresì a sperare nella nascita dei Dipartimenti Progetto in tutte le organizzazioni politiche, che diano il via a quella “cultura di progetto”, che in tanti della mia generazione hanno studiato sui libri, che tarda fortemente ad arrivare nel Paese.

Vogliamo prima di tutto indagare meglio sugli impatti (culturali, economici e politici) delle innovazioni tecnologiche sullo sviluppo sostenibile delle società moderne. Anche perché, fin dal 2009 (quando ci rivolgemmo al candidato segretario del PD Pierluigi Bersani, che nel 2013 avrebbe voluto realizzarlo al governo ), continuiamo a sperare nella nascita di un Ministero per lo Sviluppo Sostenibile che divenga protagonista di una nuova fase di sviluppo per il Paese.

In questa nuova fase contiamo sicuramente sul supporto delle centinaia di Innovatori Europei presenti in tutta Italia e all’Estero, ma speriamo anche nell’apporto di nuove competenze e talenti. Per costruire nuovi progetti e benessere condiviso, in collaborazione con organizzazioni politiche ed istituzioni. Vi aspettiamo.

Un buon 2017 per la Basilicata

2017di Rocco Tolve

Auguri di un buon 2017.

La speranza, o se vogliamo la necessità, è che ci sia, finalmente, il cambio di paradigma tanto atteso.

Che la politica sia un po’ meno “politics” (dinamiche attuate dai partiti o gruppi di pressione per riuscire ad ottenere il potere politico) e decisamente più “policy” (gestire la cosa pubblica), e che lo sguardo sia puntato non più all’orizzonte temporale della prossima elezione, per la quale è necessaria una quotidiana creazione del consenso in modi più o meno banali, ma al futuro delle prossime generazioni.

Che poi, in fondo, è quello che gli amministratori della cosa pubblica dovrebbero fare: identificare gli scenari di sviluppo locale e globale del prossimo futuro, ed impostare un impianto legislativo di creazione del valore e sostenibilità nel lungo termine (su scala generazionale, appunto) cercando di risolvere o almeno calmierare i principali problemi socio-economici del territorio.

La situazione appare particolarmente sentita nella nostra Basilicata, dove vuoi per la crisi che ormai ci attanaglia da un lustro abbondante (ed in cui vista la fatica quotidiana si è portati, inevitabilmente, a concentrare i propri sforzi sul breve termine), vuoi per la virata particolarmente forte sulla “politics”, con gruppi, fazioni e correnti che fanno a braccio di ferro per accaparrarsi il pezzo di torta principale (accompagnato magari da buone bollicine…prosit!), si è ormai perso di vista l’obiettivo di lungo periodo.

Eppure, a guardare numeri e statistiche, le problematiche sembrerebbero ben chiare ed identificabili.

Sul sito http://www.istat.it/it/basilicata e sul portale http://www.istat.it/it/archivio/16777 sono disponibili gli indicatori per le politiche di sviluppo.

Alcuni dati sono estremamente significativi nella loro durezza.

Nel decennio 2006-2015

A) il tasso di disoccupazione giovanile è passato dal 31.9 % al 47.7%

B) La disoccupazione complessiva sul totale della popolazione dal 10.6% al 13.7%

C) l’incidenza della disoccupazione di lunga durata (persone in cerca di occupazione da oltre 12 mesi) è passata dal 57.4 % al 65.6%

D) il tasso di giovani NEET 15-29 anni è passato dal 23.9% al 28.7%

E) il livello di istruzione della popolazione adulta (% di popolazione 25-64 anni in possesso almeno di diploma superiore) è sceso dal 49.9% al 41.1%

in termini demografici, l’indice di vecchiaia (percentuale di over 65 rispetto agli 0-14) è passato dal 138% al 170%, e l’età media della popolazione regionale è passata da 41.9 anni a 44.7 anni.

Contemporaneamente troviamo nel 2015 un 25% di famiglie che vivono al di sotto della soglia di povertà, e complessivamente, quasi 230.000 abitanti a rischio di povertà o esclusione sociale (1).

(1)      L’indicatore è dato dalla somma delle persone a rischio di povertà, delle persone in situazione di grave deprivazione materiale e delle persone che vivono in famiglie a intensità lavorativa molto bassa. Le persone a rischio di povertà sono coloro vivono in famiglie con un reddito equivalente inferiore al 60 per cento del reddito equivalente mediano disponibile, dopo i trasferimenti sociali. Le persone in condizioni di grave deprivazione materiale sono coloro vivono in famiglie che dichiarano almeno quattro deprivazioni su nove tra: 1) non riuscire a sostenere spese impreviste, 2) avere arretrati nei pagamenti (mutuo, affitto, bollette, debiti diversi dal mutuo); non potersi permettere 3) una settimana di ferie lontano da casa in un anno 4) un pasto adeguato (proteico) almeno ogni due giorni, 5) di riscaldare adeguatamente l’abitazione; non potersi permettere l’acquisto di 6) una lavatrice, 7) un televisione a colori, 8) un telefono o 9) un’automobile). Le persone che vivono in famiglie a intensità lavorativa molto bassa sono invidividui con meno di 60 anni che vivono in famiglie dove gli adulti, nell’anno precedente, hanno lavorato per meno del 20 per cento del loro potenziale.

Mentre, nell’ambito della competitività e del tessuto imprenditoriale, abbiamo osservato:

I) Una riduzione degli investimenti fissi in percentuale del PIL dal 24.33 % del 2006 al 20.12% del 2013;

II) Una riduzione degli investimenti PRIVATI in % del PIL dal 21.45% al 17.87%;

III) Un numero di occupati nei settori manufatturieri ad alta tecnologia e nei servizi ad elevata intensità di conoscenza ed alta tecnologia pari a 3.000 (su 180.000 occupati nell’anno 2013, appena l’1.6%. In Lombardia la percentuale è del 4.93% con 212.000 addetti “hi-tech”, nel Lazio addirittura del 6.17% con 136.000 addetti hi-tech);

IV) Il tasso a sopravvivenza a tre anni delle imprese nei settori ad alta intensità di conoscenza è passato dal 63.2% del 2007 al 43.7% del 2014;

V) Un tasso di iscrizione netto nel registro delle imprese (iscritte meno cessate) passato dal +0.8% del 2006 al -0.7% del 2015 , risulta negativo anche il tasso netto di turnover delle imprese (differenza tra tasso di natalità e mortalità), -1.5% nel 2014. Si è passati da 32.207 imprese del 2006 (con picco di 32.855 nel 2008) a 30.747 nel 2014.

Si rileva dunque un quadro di estrema fragilità, di progressivo impoverimento, di invecchiamento della popolazione, complice anche dinamiche demografiche che portano i giovani ad emigrare fuori regione, ed un tessuto economico/produttivo debole, con riduzione degli investimenti pubblici e privati, numero di imprese e di occupati nei settori hi-tech estremamente basso, scarsa propensione al rischio di impresa ed elevata mortalità delle stesse, complice anche decifit strutturali ed infrastrutturali (in reti sia fisiche che virtuali), che riducono la mobilità, l’incontro e lo sviluppo di persone, merci, idee, da cui possono nascere le soluzioni ai problemi di oggi e le idee per i settori economici portanti del domani.

In verità i problemi, già di per sé gravi, hanno conseguenze che si riverberano appunto su scala generazionale, ai quali la “policy” dovrebbe porre rimedio, prima che la nostra Regione si incammini in una spirale di declino inarrestabile, ed al proposito possono essere utili un paio di esempi.

L’elevato numero di famiglie che vivono al di sotto della soglia di povertà (25%), ed i numerosissimi abitanti a rischio povertà o esclusione sociale (oltre 200.000), sono spesso costretti a privazioni significative, in termini di alimentazione, di cure mediche, di istruzione o di sviluppo cognitivo e attività ludico-ricreative. Queste privazioni in particolar modo sui figli, e nei primi anni di vita dei bambini (anche a causa dei forti stress ambientali durante i quali il flusso di informazioni verso la corteccia prefrontale si interrompe, riducendo anche la creazione di sinapsi) riducono significativamente lo sviluppo cerebrale, cosa ormai accertata universalmente nelle neuroscienze vista la vivacissima neuroplasticità del cervello dei bambini, che vengono privati di stimoli, cure e attenzioni, ed energie. Si è dimostrato che il volume cerebrale di bambini che hanno vissuto al di sotto della soglia di povertà è dall’8 al 10% inferiore, in età adulta, rispetto a pari età che non hanno dovuto subire le medesime privazioni, ed i risultati in test intellettuali, i salari massimi ai quali possono giungere e la produttività lavorativa risulta, in modo analogo, inferiore.

(cfr https://www.scientificamerican.com/article/poverty-disturbs-children-s-brain-development-and-academic-performance/ ; https://www.scientificamerican.com/article/poverty-shrinks-brains-from-birth1/ )

È pertanto necessario fare il possibile, in termini di sviluppo della regione nel lungo periodo, per ridurre la percentuale di adulti in povertà o a rischio esclusione, o qualora questo non fosse possibile in maniera drastica fin da subito, provare a garantire ai bambini nella fascia 0-6 anni il miglior supporto possibile in termini di educazione, supporto e sviluppo.

È un processo che necessità appunto di “policy”, e senza allontanarci troppo verso i paesi nordici come Danimarca, Svezia, Norvegia, dai quali purtroppo siamo distanti anni luce, abbiamo all’interno del nostro territorio nazionale esempi di amministrazioni che hanno dedicato una porzione consistente del bilancio allo sviluppo psico-fisico, culturale ed educativo dei bambini. È il caso di citare la città di Reggio Emilia, che stanzia ogni anno oltre il 20% del proprio bilancio per il percorso educativo e formativo dei bambini 0-6 anni. Non si tratta di approccio del tipo “politics”, i bambini non hanno diritto di voto e non possono “ricambiare” il favore dei fondi stanziati per loro, ma piuttosto di buona policy, lungimirante, le cui conseguenze si misurano su una scala temporale generazionale.

(Altra problematica analoga riguarda l’effetto dirompente e devastante che avrà fra 25-30 anni il metodo pensionistico contributivo, in cui la prestazione previdenziale dipende dalla quantità di contributi versati, unita alla disoccupazione durante la quale, per sua stessa natura, non viene versato alcun contributo, e che genererà una numero spropositato di pensionati sotto la soglia di povertà. La cosa, unita al fatto che ad oggi le famiglie costituiscono il principale ammortizzatore sociale dei giovani disoccupati, può avere un effetto sociale devastante; ma chiaramente argomenti di tale portata vanno trattati in sede nazionale e non regionale).

Il secondo esempio riguarda chiaramente l’andamento demografico, con riduzione della popolazione ed incremento dell’età media e dell’indice di vecchiaia. La mancanza di un tessuto economico produttivo forte, e di investimenti mirati su cluster tematici, ha fatto sì che la crisi economica globale colpisse in maniera più forte qui da noi. L’elevato livello di disoccupazione, in particolar modo quella giovanile, e la mancanza di misure di impatto sul problema, ha generato un flusso migratorio di giovani, in particolar modo quelli con formazione universitaria e post-universitaria, con il risultato di drenare competenze e professionalità fuori dalla regione, di innalzare la vita media e l’indice di vecchiaia della popolazione residente.

La cosa, senza misure significative per invertire la tendenza, avrà come conseguenza una riduzione della forza lavoro specializzata e di creazione di imprese con elevato livello di conoscenza, una riduzione generale del tessuto economico produttivo, ed un contemporaneo aumento delle spese socio-assistenziali per gli anziani, con conseguente taglio di risorse su altri settori.

Dei pochi giovani che restano, alcuni diventano NEET, talmente scoraggiati dallo stato di fatto delle cose da non cercare neanche più occupazione, rifugiandosi negli ammortizzatori sociali garantiti dalla famiglia, alcuni entrano nel sistema della “politics”, provando tramite l’aspetto relazionale ad ottenere un piccolo posto o contratto di lavoro nel pubblico, ma chiaramente non è in grado di invertire la tendenza complessiva, e una piccola percentuale prova ad andare avanti, creando e rischiando in prima persona nel settore privato, o da dipendente, o mettendosi in proprio.

Una buona policy dovrebbe avere l’obbligo morale di invertire questa tendenza, concentrandosi sulla creazione di lavoro, sul provare a far rientrare i cervelli in fuga, o, nel caso peggiore, a non farne partire altri nel prossimo futuro.

Abbiamo le basi su cui partire. Un capitale umano straordinario, con alcune competenze di assoluta eccellenza. Centri di ricerca di caratura nazionale (Università, CNR), alcuni poli industriali di primissimo livello (Fiat-SATA a Melfi).

Serve una visione, quello che la buona politica dovrebbe avere.

Possiamo provare ad esempio ad investire in maniera significativa in ambito fin-tech, una volta completata l’infrastuttura di banda larga ed ultralarga sul territorio regionale.

Possiamo sfruttare il polo fiat-sata, alcune competenze interne all’Università, ed eventuali partnership (ad esempio con Pisa), per creare un polo avanzato di robotica e meccatronica, grazie al quale sarà possibile rilocalizzare nel nostro paese le industrie 4.0. Chiaramente essendo la robotica un’attività piuttosto capital intensive ma poco labour intensive, non genererà un significativo numero di posti di lavoro “generalisti”, ma un numero ridotto di competenze piuttosto specifiche. L’investimento è però in grado di generare un vantaggio competitivo nell’evoluzione del lavoro industriale.

Un numero significativo di posti di lavoro, perlatro non sostituibile nel medio periodo da intelligenze artificiali, importante nella nostra regione, e che avrà uno sviluppo nei prossimi decenni, è quello dei servizi alla persona (sanitari, socio-assistenziali, di supporto e di servizio) su cui la regione dovrebbe puntare in modo forte.

E poi vi sono chiaramente gli altri due cluster, quello energia e ambiente (che necessita di un articolo a parte) e quello dell’osservazione della terra sul quale si può procedere con investimenti piuttosto mirati.

Penso ad esempio alla civionica, la branca dell’ingegneria civile (quindi su strutture e infrastutture) che si occupa di structural health monitoring, controlli e monitoraggi su strutture ed infrastrutture esistenti (il mondo delle costruzioni nei prossimi decenni è destinato a muoversi sempre più verso la gestione e manutenzione del patrimonio edilizio ed infrastrutturale esistente) con sensori e sistemi di controllo da remoto, interfacciati su piattaforme e sistemi SDI (spatial data infrastructure) per la loro gestione, programmazione e manutenzione in tempo reale; oppure alla difesa del territorio dal rischio sismico e idrogeologico.

Ci sono diverse idee possibili, ma è importante che la POLITICA locale inizi ad avere una visione di lungo termine, un approccio da seguire senza disperdere tempi, risorse, e senza lotte interne per il “controllo” di un territorio che altrimenti rischia di dissolversi senza avere più molto da “controllare”. C’è bisogno di idee, competenze, e di una politica che si rinnovi. BUON 2017.

Ing. Rocco Tolve

“Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno.”                                                       Antonio Gramsci

6 Ottobre, Roma: “La Politica tra Riforme e Progetti”

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Link alla pagina Facebook dell’iniziativa

Dopo lo scorso convegno di Settembre 2015 sul Mezzogiorno protagonista tra Europa e Mediterraneo, che ha contributo al Master Plan per il Sud, nell’ultimo anno gli Innovatori Europei si sono concentrati sul tema della Forma Partito, dentro e fuori la omonima Commissione istituita nel Partito Democratico, provando ad orientare il dibattito sull’importanza di un Partito – ma più in generale di partiti – aperto e scalabile attorno alla realizzazione di “Progetti” condivisi, veri collanti di un dialogo territori e istituzioni centrali, unici attrattori di sano consenso, in un periodo caratterizzato da così alta disaffezione per la politica.

Nel pieno del dibattito sul Referendum Costituzionale di autunno, che propone la approvazione di importanti modifiche al sistema istituzionale, che aprono il Paese ad una fase di nuova progettualità si è dunque scelto di dedicare il prossimo convegno annuale a “La Politica tra Riforme e Progetti“.

Il convegno è organizzato dal Comitato #BastaunSì di Innovatori Europei e si terrà il 6 ottobre 2016 dalle 9.30 alle 14 presso la Sala delle Conferenze del Partito Democratico, in Via Sant’Andrea delle Fratte a Roma –

Per partecipare: infoinnovatorieuropei@gmail.com

Link alla pagina Facebook dell’iniziativa

Link al Resoconto del Convegno La Politica tra Riforme e Progetti

 

Innovazione e investimenti per non finire come il Messico

di Romano Prodi su Il Messaggero

Mariachi Band Performing with Violins ca. July 1991 Puerto Vallarta, Mexico

Mariachi Band Performing with Violins ca. July 1991 Puerto Vallarta, Mexico

Riflessioni fiduciose e constatazioni amare sono state al centro dell’Assemblea annuale della Confindustria. La fiducia è nella constatazione che molte tra le imprese esportatrici sono state capaci di trasformarsi e, crescendo, si sono adeguate alle dure regole della globalizzazione.
Le constatazioni amare riguardano invece il fatto che, dopo una lunga crisi, la risalita è ancora “modesta e deludente” e, soprattutto, che la produttività del sistema Italia e dell’industria manifatturiera non tengono il passo con gli altri grandi paesi europei.
Alla perdita di velocità del sistema produttivo si è inoltre accompagnato un processo di selezione che ha provocato la scomparsa di quasi un quinto delle nostre aziende e di un peggioramento generale dei risultati economici delle imprese.
Il Presidente della Confindustria e il Ministro dello Sviluppo hanno accompagnato la lettura di questi dati con una serie di proposte destinate ad agire favorevolmente sulla dimensione delle imprese, sulle regole di governo delle imprese stesse, sull’alleggerimento del loro peso fiscale, sugli incentivi agli investimenti e su un rapporto più costruttivo con le banche e con la Pubblica Amministrazione.
Misure non solo utili ma necessarie per dare corpo ad una “risalita” finalmente robusta e veloce sulla quale tutti noi facciamo conto.
Alcune riflessioni aggiuntive sono tuttavia necessarie per capire quali sono gli elementi di fondo che rendono difficile questa “risalita”.
Partiamo da un dato molto semplice ma sorprendente. La lunga crisi di produttività ( e quindi di efficienza) del nostro sistema produttivo e la contemporanea crisi mortale di tante aziende sono state infatti accompagnate da un ottima tenuta della nostra bilancia commerciale, largamente attiva nel settore manifatturiero. Tutto questo mette in rilievo che, pur nella scomparsa delle nostre grandi imprese, abbiamo, centri di eccellenza che, nonostante tutti i nostri limiti, si affermano nei mercati internazionali vincendo i concorrenti tedeschi, cinesi e americani.
Se, nonostante queste affermazioni, la produttività non aumenta, questo significa che una parte troppo grande del nostro sistema economico non è capace di trasformarsi e vive cercando nicchie di mercato interno che si vanno sempre più restringendo, proprio per il cattivo andamento dei nostri consumi e dei nostri investimenti e per la pervasività della globalizzazione.
Se a questi dati aggiungiamo quelli che l’ISTAT regolarmente ci fornisce riguardo alla fortissima crescita dell’economia illegale, ci troviamo di fronte a un’economia italiana sempre più anomala rispetto a quella degli altri paesi europei.
Usando l’esagerazione come strumento didattico Alberto Forchielli, in un recente confronto televisivo, traeva le conseguenze di questi dati affermando che l’Italia si va orientando verso una struttura simile a quella del Messico, dove convivono tre diverse organizzazioni economiche. Una prima formata da imprese eccellenti che sfidano i mercati internazionali, una seconda che opera in un mercato informale, sfruttando le imperfezioni del mercato e utilizzando mano d’opera scarsamente specializzata ed ancora più scarsamente garantita e remunerata. Infine una corposa parte del Paese vive nell’evasione delle regole e nell’illegalità.
Non credo che questo sia fatalmente il nostro destino ma penso che le tendenze che ci portano verso di esso debbano essere combattute con ogni mezzo, affermando in ogni circostanza la maestà della legge e operando sulla preparazione delle risorse umane che sono alla base del successo di ogni paese moderno.
La lettura della realtà non è invece consolante perché i confronti sull’efficacia dei sistemi scolastici ci trovano costantemente in coda, intere realtà del paese operano sempre più nell’ombra e i dati sul progresso dell’illegalità e sulla penetrazione della criminalità nella vita economica e amministrativa sono allarmanti. Credo tuttavia che noi abbiamo ancora la capacità di reagire con successo, dimostrando di avere obiettivi comuni e condivisi.
Il compito di dettare e di imporre la rotta per vincere la sfida spetta naturalmente al governo ma, come si usa dire in Gran Bretagna, la regina si aspetta che ciascuno faccia il proprio dovere.
Dato che queste riflessioni partono dall’analisi di quanto è stato detto nell’assemblea della più autorevole rappresentanza del mondo industriale voglio quindi aggiungere che, mentre mi sono amareggiato ma non sorpreso di vedere molte delle nostre più grandi e floride imprese cadere in mani straniere, mi sono amareggiato e sorpreso nel vedere che i ricavi di queste vendite non sono stati per niente investiti nel fare progredire le nostre strutture produttive.
Dobbiamo cioè concludere che se i generali sentono il dovere di combattere, nemmeno gli incitamenti della regina saranno certo in grado di farci vincere la durissima battaglia che deciderà il nostro futuro.

Il lettone girevole ed i politici bulimici

Giuseppina Bonaviri

 

di Giuseppina Bonaviri

 

Emerge con chiarezza , dalle notizie che corrono e dalle tante voci sussurrate, che ormai tutto è convenuto per le prossime amministrative locali considerando che, tra l’altro, a breve scadrà il mandato per gli amministratori del capoluogo frusinate ed in attesa della nuova corsa alle regionali. Il dato è tratto!

Due i macro argomenti che si intrecciano: il primo riguarda la questione sempre emergente delle non-scelte nelle mani dei soliti noti, l’altro le sovrapposizioni tra i vari attori, partiti e correnti – il cosiddetto partito della nazione o cicli e ricicli storici?- Sembrerebbe più una catena di montaggio che il carattere collegiale di un processo democratico e decisionale da agire localmente e necessario al popolo ciociaro.

Questo scenario si scontra con il reale bisogno di indirizzi strategici operativi e di programma e con l’esigenza fortemente sentita di una solidità sociale quale fondo di garanzia alla crisi in atto. Appare chiara la carenza di una architettura, da parte di chi governa, a mettere le basi per soluzioni alternative. Il lettone girevole e a più piazze dove, in un’unica ed indistinta ammucchiata, si trovano distesi politici bulimici, amministratori miopi, eletti impotenti, buoni per tutte le stagioni è il simbolo della decadenza che vogliono imporci. Costoro, obbedendo solamente all’inesorabile principio del piacere narcisistico ed ignorando l’esistenza delle leggi della logica e della rappresentazione dei valori -che mai saranno svendibili- son divenuti atemporali ed apparentemente invulnerabili.

Chi coordina, fuori da ogni retorica, la partecipazione e l’impegno della base e della cittadinanza attiva? chi getta il cuore oltre l’ostacolo per difendere e proteggere la ricchezza di un popolo tanto martoriato? chi arresta il malcostume? chi ammonisce corrotti e corruttori se di tutt’una erba si fa un fascio? chi riconosce l’urgenza di sostenere programmi adeguati per le future generazioni tanto vulnerabili ed esposte? chi permette al dissenso di esprimersi senza ricattati? chi riconsegna autonomia morale ed autorevolezza all’entroterra provinciale? La marcia è lunga.

Il Maestro Sigmund Freud in uno dei suoi tanti capolavori “ Psicopatologia della vita quotidiana” parla dell’esistenza di “esseri perversi polimorfi” e di loro azioni ed atti mancati, di falsi ricordi e di dimenticanze, di deja vu e di lapsus, di disfunzioni mnestiche, di rimossi e negazioni riuscendo a rappresentare ed attualizzare la rozzezza- mollezza di una classe dirigente avvezza solitamente ad azzannare con le sue voraci fauci e a derubare con le sue lunghe ed affilate mani, nulla lasciando all’altro ed alla storia.

Ed ecco allora che la mission di chi come me, intellettuale ed innovatrice indipendente, impegnata da sempre in frontiera rimane per il bene comune, per la best practice, vicino alla gente comune. Sono consapevole che mai verranno meno coraggio, determinazione, etica , credo, onestà a supporto di libere idee, merito, talento. Continueremo a coniugare metodo e rigore in un percorso progettuale già in essere necessario al rilancio, alla competitività , alla rigenerazione del nostro territorio, a favore della discontinuità e del tanto auspicato e necessario cambiamento.

Chimica, ultima chiamata per l’Italia: senza “big player” non c’è futuro

di Leonardo Maugeri su la Repubblica – Affari & Finanza del 4 aprile 2016

L’Eni si avvia a vendere Versalis, ovvero quel che rimane della grande chimica italiana, sollevando interrogativi e preoccupazioni. Per molti dovrebbe rinunciare all’operazione e impegnarsi essa stessa nel rilancio della chimica, evitando di cederla a un soggetto finanziario straniero piccolo e senza una storia di grandi operazioni alle spalle; per altri, la vendita a un soggetto apparentemente interessato a occuparsi davvero di chimica è di per sé una buona cosa, indipendentemente dalla nazionalità e dalle dimensioni del soggetto stesso. Per altri ancora l’Eni dovrebbe impegnarsi nella ricerca di acquirenti con le spalle più larghe.

A rendere più teso il confronto c’è poi la storia di speranze e fallimenti, parabole politico-industriali, successi, follie e malversazioni proprie della chimica italiana – ma anche una domanda che aleggia come una Spada di Damocle: è ancora “strategico” per un paese avanzato avere un’industria chimica forte, incentrata su un grande soggetto nazionale e in grado di catalizzare lo sviluppo di tante piccole e medie imprese? Affrontare questi temi richiede di ripercorrere brevemente il passato, per poi guardare alla realtà presente e alle possibilità del futuro.

LA STORIA. Quello che oggi rimane della chimica Eni non è stato il frutto di un disegno industriale perseguito dall’Eni stessa. All’inizio, negli anni ’50, il suo sviluppo scaturì soprattutto dalla insensata competizione tra Enrico

Mattei e l’industria privata che lo avversava – a partire dalla Montecatini, che della chimica italiana rappresentava la vera eccellenza (dalla Montecatini vennero, tra l’altro, alcuni dei fertilizzanti chimici di Giacomo Fauser che rivoluzionarono l’agricoltura, e il Nobel per Giulio Natta per quello che commercialmente sarebbe passato alla storia come Moplen). Purtroppo, la guerra tra Eni, Montecatini, Edison e altre società portò alla moltiplicazione di impianti troppo piccoli, spesso costruiti in aree contigue, già deboli a livello internazionale ma capaci di canniba-lizzarsi l’un l’altro. A fare le prime spese di quella guerra fu la migliore, la Montecatini, risucchiata dalla Edison nell’operazione da cui nacque Montedison (1966). La competizione andò avanti, alimentata oltremodo dalle leggi che incentivarono l’industrializzazione delle aree depresse del Paese – soprattutto al sud e nelle isole: siti industriali che non avevano alcun senso economico e logistico sorsero come funghi, mentre gli operatori rimanevano comunque troppo piccoli. La crisi economica degli anni ’70 mandò tutto in frantumi. Società private che avevano beneficiato di copiosi finanziamenti pubblici – come la Sir di Nino Rovelli o la Liquigas di Raffaele Ursini – andarono a gambe all’aria, insieme a società più piccole. Per ovviare al disastro occupazionale, fu imposto all’Eni – allora ente di stato – di incorporare i siti petrolchimici delle società fallite (mentre i loro proprietari, finiti in guai giudiziari, fuggivano all’estero con un cospicuo bottino). Molti dei siti petrolchimici ancora in capo all’Eni sono l’eredità di quell’imposizione di stato, cui sono legati anche gli oneri di danno ambientale e risanamento che ancora oggi gravano sull’Eni stessa. Tra gli anni ’80 e i primi anni ’90, poi, si ebbero altre operazioni insensate – culminate nella disastrosa fusione tra Eni e Montedison da cui nacque Enimont, la “madre di tutte le tangenti” dell’era Tangentopoli. L’impatto economico di quelle operazioni fu devastante, tanto da rischiare di far deragliare l’intera Eni agli inizi degli anni ’90.

IL MOSTRO. Non si può prescindere da questa storia di lacrime e sangue per valutare il successivo atteggiamento dell’Eni post-Tangentopoli nei confronti della chimica. Per quanto vi fossero dei gioielli che meritavano attenzione, l’impulso immediato di chi aveva attraversato tutte quelle vicende fu di disfarsi dei tanti pezzi senza andar troppo per il sottile – anche perché la chimica rimaneva oggetto di continue interferenze politiche, rappresentando un bacino di voti e di affari sul territorio (cosa che, per esempio, non valeva per gas e petrolio). In breve, la chimica divenne una sorta di “mostro” da confinare in un angolo remoto come un malato da accompagnare a lungo in una lenta eutanasia. Negli stessi anni, d’altra parte, l’Eni cominciò a volare, macinando utili crescenti e perfino impressionanti fino alla prima metà degli anni 2000 – quando il greggio stava a livelli di poco superiori a quelli di oggi: nel 2005, con un prezzo medio del greggio di 54 dollari a barile l’utile netto dell’Eni fu di 8.8 miliardi di dollari – un record ineguagliato rispetto al valore del greggio. Nel frattempo, però, l’ordalia della chimica Eni continuò, con vendite continue di altri pezzi, perdite sanguinose, massicce ondate di tagli dei costi e razionalizzazioni. Parlare di grande chimica italiana in riferimento a quella dell’Eni, pertanto, è fuori luogo. Eppure, sebbene offuscata dai tanti problemi di siti petrolchimici critici (ritornerò su questo tema), essa ha mantenuto la co-leadership mondiale nelle tecnologie per gli elastomeri (gomme sintetiche) e gli stirenici (una delle maggiori categorie di plastiche), ricercatori e manager di eccellente livello, lavoratori tra i più competenti, dediti e appassionati che l’industria italiana conosca. Avendo ben presente la realtà con le sue tante ombre, è da queste luci che bisogna ripartire se si vuole pensare ancora a costruire una chimica italiana grande e di successo.

IL RUOLO DELLA CHIMICA. Al di là dell’information technology, tutti i più grandi cambiamenti nelle economie avanzate riguardano settori (dai nuovi materiali all’energia, dalle biotecnologie all’ambiente, e via dicendo) che hanno in comune l’incrocio tra chimica, fisica e ingegneria – un intreccio che è tipico della grande industria chimica. Da questo intreccio deriva una possibilità infinita di fertilizzazioni incrociate: sovente, studiando molecole per un certo uso, se ne scoprono altre per impieghi che non si erano nemmeno immaginati, e si aprono campi completamente nuovi di applicazione industriale. In teoria, questo è possibile anche per gruppi di ricerca indipendenti o piccole e medie imprese italiane, che nel tempo hanno dimostrato eccellenza nell’innovazione. Il loro problema è come finanziare e sviluppare le fasi successive all’invenzione uscita dal laboratorio.

PICCOLO NON È BELLO. Il primo ostacolo si presenta già al momento di coprire con brevetti internazionali l’invenzione che, per molti, presenta già costi insormontabili. Le difficoltà aumentano esponenzialmente nel momento in cui l’invenzione deve essere testata su un progetto pilota – un piccolo impianto il cui costo può raggiungere qualche decina di milioni di euro. Gran parte delle piccole imprese italiane è costretta a arrendersi. Infine, se il progetto pilota supera l’esame, è necessario passare alla prima applicazione su scala industriale, che può comportare investimenti anche dell’ordine di molte decine o di qualche centinaio di milioni. Questo percorso accidentato può spianarsi quando il “piccolo” può contare su un grande partner industriale, con cui abbia facilità di relazione e sintonia culturale: il primo diventa il volano del secondo, magari tramite un’alleanza in forma di joint venture. Per questo nel mondo anglosassone i grandi gruppi industriali vengono considerati uno dei “pilastri” dello sviluppo tecnologico di un sistema paese, sia che facciano ricerca in proprio o fertilizzino quella di terzi. Questo stesso modello fu sperimentato, con straordinario successo, negli anni gloriosi della Montecatini. Le tante invenzioni rivoluzionarie di Fauser furono sviluppate attraverso una joint venture tra la piccola società creata da Fauser stesso – che aveva pochi mezzi – e la Montecatini, guidata allora dal genio di Guido Donegani, che fornì a Fauser risorse finanziarie e quant’altro necessario per il successo finale. Per tutte queste ragioni, penso che una grande industria chimica italiana potrebbe fornire un contributo importantissimo allo sviluppo economico e industriale futuro del nostro Paese. Ma il percorso non è facile.

L’EUROPA AI MARGINI. La chimica sta vivendo una rivoluzione che lascia l’Europa ai margini. Da un lato, Stati Uniti e Golfo Persico, avvantaggiati dalla disponibilità di materia prima a basso costo, stanno costruendo impianti di grande scala che aumenteranno l’offerta di prodotti nei prossimi anni – col rischio di esportazioni a basso costo che potrebbero abbattersi anche sull’Europa. Lo stesso avviene in Asia, e soprattutto in Cina – in questo caso, per far fronte a una domanda interna che cresce in modo rigoglioso e necessita comunque di importazioni. La speranza dei produttori europei è che l’export americano e mediorientale si indirizzi verso l’Asia senza compromettere la già minor competitività di gran parte della petrolchimica europea – che non dispone di materia prima in loco né di una forte domanda interna. La situazione dell’Italia è ancora peggiore.

I SITI ITALIANI. Molti siti petrolchimici italiani – a partire da quelli dell’Eni – sono piccoli e non integrati con quelli di raffinazione; talvolta la logistica è pessima. Alcuni aspetti assurdi della nostra legislazione, in gran parte derivanti da inaccettabili oneri di sistema, rendono i costi dell’energia (una delle componenti più importanti dei costi di produzione) i più alti d’Europa. Le normative ambientali sono così severe e onerose (per chi intende rispettarle) da rendere impossibile un risanamento di aree inquinate simile a quello realizzato dalla Germania nel bacino della Ruhr – che Berlino vanta sempre come esempio da seguire. Lo stesso apparato normativo italiano rende arduo realizzare investimenti in tempi accettabili anche all’interno di siti industriali già esistenti: troppe autorità (nazionali, regionali, locali) si sovrappongono con poteri di autorizzazione o di veto. Cito sempre un esempio: nell’anno e poco più in cui fui a capo della petrolchimica Eni mi venne presentata una lista di ben 51 (!) autorizzazioni necessarie per sostituire una piccola centrale elettrica (delle dimensioni di due roulotte) in un sito di interesse nazionale; se tutto fosse andato bene, sarebbero occorsi tre anni e mezzo per averla in funzione.

COME RICOSTRUIRE. Per tutte queste ragioni, occorre grande realismo nel pensare al futuro della chimica italiana, evitando improvvisazioni e – soprattutto – pericolosi voli di Icaro. Eppure un futuro di successo è possibile, lavorando su tre pilastri. Il primo, naturalmente, è costituito dalla ricerca e dallo sviluppo tecnologico – che già a breve, ma soprattutto a medio-lungo termine, possono rivitalizzare completamente la chimica. Si tratta però di indirizzare bene la ricerca, di collegarla alle necessità del mondo che cambia rifuggendo dallo slogan sterile per cui la ricerca è sempre utile. Il secondo pilastro, che è parte del primo, è la chimica verde, potenzialmente capace di garantire all’Italia una leadership internazionale, essendo ancora un settore di nicchia con molti concorrenti ma senza protagonisti già definiti. Anche in questo caso, però, attenzione ai facili slogan e a entusiasmi ingiustificati: parliamo di un futuro a medio-lungo termine. E’ bene ricordare, infatti, che occorrono almeno 5 anni per passare da un’idea a una realizzazione industriale. Se tutto va bene, pertanto, una solida transizione verso la chimica verde richiede almeno un decennio, forse più: come tutte le nuove frontiere, infatti, la chimica verde sembra avere a portata di mano cose che non lo sono, e purtroppo vengono spesso sbandierate come possibili già oggi da chi poco comprende di processi chimici o di evoluzione dei mercati. Gettarsi a capofitto in queste vere e proprie trappole significherebbe bruciare risorse per la ricerca e per investimenti che meritino davvero d’essere effettuati.

IL FUTURO. La costruzione del futuro fondata sui due pilastri che ho appena sintetizzato, tuttavia, passa inevitabilmente dal puntellare e mettere in sicurezza un terzo pilastro – che sorregge anche i precedenti. È quello che presenta le maggiori difficoltà, essendo costituito dai siti petrolchimici esistenti, con i loro problemi e le loro opportunità: senza gestirli al meglio, senza fare tutto ciò che è necessario per renderli più competitivi nell’ambito del possibile – magari con sviluppi e riconversioni mirate in modo chirurgico, ove conveniente – tutto il sistema che ho prefigurato imploderebbe, perché le perdite della chimica tradizionale toglierebbero ogni possibilità di sviluppo alla ricerca, alla tecnologia e alla chimica verde. Pensare di ricostruire una chimica italiana di grande valore mondiale partendo da quello che rimane oggi nell’Eni è quindi difficile, ma possibile. Per farlo, però, occorrono conoscenza adeguata delle specificità spesso assai singolari del sistema italiano e visione strategica globale, fede nell’innovazione continua, grande conoscenza di processi e impianti industriali complessi. Occorrono, soprattutto, una passione e un’anima imprenditoriali già declinati in un record comprovato di salvataggi quasi impossibili di realtà industriali che sembravano prossime al capolinea. La porta è strettissima, ma credo (e ho sentore) che ci siano ancora soggetti nazionali in grado di gettarsi in questa missione. Viceversa, tendo a pensare che essa rappresenti una proposizione impossibile per un piccolo fondo semisconosciuto, con pochissime persone e mezzi finanziari, senza una tradizione di grandi e importanti operazioni industriali alle spalle. Qualunque sia la sua nazionalità.

Intervista ad Alessandra Clemente, assessore alle Politiche Giovanili, alla Creatività e all’Innovazione del Comune di Napoli

Alessandra Clemente

di Massimo Preziuso

– Ciao Alessandra. Partiamo dalla tua esperienza politica. Come sta andando?

Quando il nostro Sindaco, la notte del primo gennaio 2013, mi disse che aveva in animo la volontà di istituire un assessorato con esclusiva delega ai giovani, alla creatività e all’innovazione, per dare a noi ragazzi napoletani un peso e una cura più profonda nella “grammatica” della Giunta Comunale, e che pensava a me come guida, come se già il fatto di istituire un Assessorato di questa importanza non fosse straordinariamente innovativo, ricordo che oltre che quasi svenire sul divanetto sul quale colloquiavamo e ad avere paura, pensai al gran coraggio e alla libertà che erano sottintesi alla scelta di affidare questa responsabilità così grande, non con le parole, ma con i fatti, a una ragazza di 25 anni.

Quando abbiamo iniziato questa esperienza, Luigi ed io ci siamo dati tre obiettivi: non far perdere nessuna occasione di finanziamento ai giovani; costruire delle opportunità; far sì che gli interventi nel settore fossero realmente organizzati dai giovani per i giovani, purché competenti ed entusiasti.

Il 100% delle risorse è stato impegnato a favore di soggetti composti da under 35. Tutti selezionati sul merito attraverso procedure a evidenza pubblica. Abbiamo dato grande importanza a progetti in grado di produrre occupazione duratura e quindi sviluppo, puntando alla creazione di nuovi luoghi di aggregazione giovanile come la Casa della Cultura e dei Giovani a Pianura, il centro giovanile nel Polifunzionale di Soccavo, la valorizzazione della Galleria Principe di Napoli.

Oltre all’arricchimento culturale prodotto dai tanti eventi realizzati insieme, la cosa che più ci da soddisfazione è camminare per la città e riconoscere in ciascuna delle dieci Municipalità un’attività d’impresa giovane nata grazie al nostro piano di finanziamenti “Sviluppo Napoli” o andare in un centro per i giovani che prima non c’era e adesso c’è. Sono soddisfatta, sta andando bene. Le cose da fare sono ancora tante e in futuro l’impegno deve sempre essere massimo affinché le cose vadano andare ancora meglio.

– Napoli è oggi la città a più alto potenziale per l’avvio di quel rinascimento italiano, che leghi Sud, Centro e Nord Italia, proprio attraverso le sue rinnovate e dinamiche città intelligenti. Che ne pensi?

Certamente Napoli è la città a più alto potenziale per un “rinascimento” che riguardi tutta la Penisola. Le ragioni a questa mia risposta sono diverse, cercherò di elencare le più rilevanti in modo obiettivo.

Napoli, tra le metropoli italiane, è la più giovane. Sembrerà scontato ma i rinascimenti partono da questa parte di società. Se gli anziani, infatti, sono le nostre radici, capisaldi della nostra cultura, valori e tradizioni, i giovani sono la forza propulsiva che fa saltare schemi consolidati e fanno “ripartire” società sopite, ferme, statiche.

In secondo luogo, potrei apparire di parte, ma nessuna metropoli ha le nostre potenzialità in città e nei dintorni. Nessun area al mondo ha in pochi km milioni di abitanti che vivono tra bellezze artistiche, storiche e soprattutto naturali di Napoli, Pompei, Capri, Ischia, la Costiera Amalfitana, Sorrento ed il Vesuvio. Qui c’è tantissimo ancora da fare, ma è un dato di fatto che Partenope stia attraversando una fase di rilancio: Napoli è più visitata, più connessa con il resto d’Italia e con l’estero, più pulita, più socialmente e più culturalmente attiva nell’ultimo triennio, in poche parole Napoli è più viva!

Ancora, nonostante i mille ritardi di cui questo territorio soffre non per propri soli demeriti, Napoli rimane il capoluogo della sesta regione italiana per startup. Inoltre permangono leader mondiali realtà produttive e commerciali straordinarie penso al tessile Made in Naples, penso ai nostri artigiani, penso ad aziende di alta ingegneria poco note al grande pubblico come la K4A che da Ponticelli vende elicotteri in tutto il mondo ed ancora aziende leader nel web come il gruppo Ciaopeople di cui noi conosciamo soprattutto i rami d’azienda Fanpage o gli straordinari TheJackal e vi sono migliaia di esempi del genere.

Infine, Napoli è sede di realtà di ricerca straordinaria con CNR, Istituto Telethon, CEINGE, Città della Scienza, le nostre Università (Federico II, SUN, Parthenope, Suor Orsola Benincasa, l’Orientale) in cui si formano brillanti menti che partono alla conquista del mondo.

Il rilancio dell’Italia non può che partire da qui.

– Andando alla politica e alle prossime amministrative, non trovi che sia strano davvero che De Magistris e il PD non facciano un percorso comune nel segno della innovazione amministrativa che Luigi ha avviato e nella forte cultura del cambiamento che il PD di oggi ha ben radicata nel proprio DNA?

L’innovazione amministrativa e la forte cultura del cambiamento hanno fatto si che la città in piena emergenza rifiuti del 2011 oggi sia solo un cattivo ricordo. Finalmente le testate nazionali e da un po’ anche le testate internazionali raccontano un incredibile rilancio napoletano. Le presenze alberghiere, aereoportuali o gli arrivi via mare e via terra sono dati di fatto, così come lo sono anche i dati di Confcommercio. Napoli catalizza milioni di visitatori, fa partire la raccolta porta a porta, ha un’amministrazione vicina al cittadino. La Giunta è  concentrata sulla città, nessuno si risparmia ed è straordinario ciò che questa amministrazione sta facendo grazie fortemente a Napoletani e non che qualificano il nostro lavoro. Tanto c’è da fare e tanto abbiamo da fare, imparando dagli errori e nutrendoci di motivazione.

Con il Partito Democratico c’è una distanza che purtroppo si è andata rafforzando nel corso dei 5 anni. Di anno in anno il Pd ha confermato di essere opposizione in Consiglio Comunale e il dibattito mi è parso più attento a personalismi e leadership che al lavoro che l’Amministrazione porta avanti.

Quella parte politica ha governato Napoli per 20 anni. Non mi piace avere preclusioni e penso davvero che se il Partito Democratico saprà dare un segnale di reale interesse verso i cittadini napoletani si potrà aprire un dialogo, ma al momento ci si muove su posizioni troppo diverse, accentuate anche dal doppio livello, nazionale e regionale del partito che appare interpretare in modo diverso i temi dell’innovazione e della cultura del cambiamento. La vera rivoluzione che questa amministrazione ha messo in campo è stata quella di diventare nei fatti un ente di prossimità, abolendo le distanze tra strada e “palazzo” e coinvolgendo nel governo energie giovani ed esperienze della società civile.

– Cosa ti piacerebbe vedere a Napoli nel 2020 e come ti ci vedi in quella città?

Nel 2020 Napoli dovrà essere una città tornata capitale culturale, commerciale e sociale del paese.

Una metropoli con un trend turistico impressionante, una città capace di riconvertire interi quartieri all’accoglienza di milioni di visitatori facendo invidia ad altre città italiane ed europee con migliaia di giovani e non attivi in questa “industria” che deve diventare la n.1 della città.

Napoli sarà una metropoli con decine di voli dalle città europee e treni superveloci verso  Roma, Milano e speriamo anche verso la nostra terra sorella Puglia con l’alta velocità Napoli-Bari che avvicini il Tirreno all’Adriatico.

Il nostro porto merci ed il porto turistico devono ripuntare a posizioni di leadership mondiali.

Le nostre Università dovranno raddoppiare i propri studenti erasmus tutt’ora presenti puntando – grazie alle collaborazioni con i centri ricerca del territorio, nazionali ed internazionali – ad un incremento della qualità della formazione e della propria ricerca.

Napoli infliggerà colpi mortali alla camorra e le uniche “paranze” di bambini che conosceremo saranno quelli che giocano a pallone nella Villa Comunale.

Napoli dovrà aver completato la Linea1 della metropolitana e starà progettando una nuova metropolitana che la connetta ancora di più alle sue sterminate periferie. Secondigliano, Pianura, Barra, Bagnoli, Scampia o Soccavo saranno collegati quanto il Vomero o Montesanto al resto della metropoli.

Napoli dovrà essere una realtà da cui non si “parte” ma si “ritorna” o si “arriva” da tutto il Sud, Nord ed anche dall’estero per ragioni di lavoro: quelli che oggi sono bambini, saranno i nostri lavoratori.

Napoli sarà un punto di riferimento commerciale ed industriale per tutta l’Italia, la porta dell’Europa sul Mediterraneo e viceversa: il Made in Naples sarà sinonimo di qualità, bontà del cibo e simbolo di eleganza.

Napoli deve tornare ad essere capitale dell’accoglienza, dell’ospitalità e dell’inclusione sociale: nel DNA di Napoli c’è scritto “amore” aiutateci a mostrarlo al mondo!

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