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Sabato 27 giugno, Roma: Innovatori Europei a “L’Italia che vogliamo, Il Pd che vogliamo” organizzato da Roberto Speranza

L'Italia che vogliamo, il PD che vogliamo

Comunicato Stampa

Sabato 27 giugno, a Roma, Innovatori Europei parteciperà al convegno “L’Italia che vogliamo, Il Pd che vogliamo”, organizzato da Roberto Speranza.

IE porterà con sé le sue idee e progetti decennali per un Partito rinnovato che finalmente si apra alla società e guidi l’Italia e l’Europa alle opportunità di un futuro Mediterraneo.

Comunicato stampa: Se non ci si apre e si innova davvero, il PD si frantuma entro le amministrative 2016

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Comunicato Stampa: Se non ci si apre e si innova davvero, il PD si frantuma entro le amministrative 2016
Tocca ripeterlo: se non ci si apre davvero e finalmente alle tante e forti competenze e progettualità diffuse attorno al Partito e nella Società, il PD si frantuma e perde il Governo del Paese entro le elezioni amministrative 2016 (perdendo Napoli, Roma e Milano).
Ecco, infatti, la sintesi degli ultimi sondaggi pubblicati oggi su La Repubblica da Demos & PI : #‎Tonfo‬ Partito Democratico a 32%, fiducia Matteo Renzi mai così giù, MoVimento 5 Stelle vola al 26%. Attenzione, davvero.
Solo con forti e rinnovate competenze, tecniche e politiche, innestate nel Partito e nel Governo, il Presidente Renzi può affrontare la complessità del momento storico e rilanciare il Paese e la sua gente attorno ad una visione euro-mediterranea di crescita, che noi Innovatori Europei auspichiamo dal 2008.
PS. Di tutto questo continueremo schiettamente a discutere nella Commissione Forma Partito, di cui siamo membri.

L’Europa ha bisogno di una “terapia choc” per uscire dalla crisi

Il Piano di investimenti europei (Eur 800 mld nel 2015-2020) per la transizione economica sostenibile del vecchio continente – oggi proposto dal PSE  – sommato al massiccio stimolo monetario avviato da BCE l’ultima chance per invertire una terza lunga stagnazione, che potrebbe essere letale.
Speriamo diventi subito una proposta condivisa.
Gli Innovatori Europei

Oggi, il gruppo S&D ha proposto di creare un nuovo fondo da 400 miliardi all’interno del piano di investimenti per promuovere la crescita e l’occupazione in Europa.

Il piano è stato presentato oggi durante una conferenza stampa a Bruxelles.

Il presidente del gruppo S&D Gianni Pittella ha dichiarato:

“Per la prima volta dopo l’era Barroso, crescita e flessibilità sono seriamente prese in considerazione dalla Commissione. Questo nuovo approccio potrebbe rappresentare l’inizio di una rivoluzione per l’Europa.

“Vogliamo portare avanti una terapia choc. Una terapia choc attraverso l’investimento di nuove risorse fresche (pubbliche e private), nuovi strumenti di investimento europei e finalmente l’azione di una ‘clausola per gli investimenti’ associata al piano di Juncker: il denaro pubblico speso dagli stati membri per determinati progetti europei non deve essere calcolato nel computo del deficit nazionale.

“Non è più tempo di mezze misure. E’ tempo di decisioni coraggiose e sagge. Abbiamo proposto una terapia choc per far partire la ripresa della nostra economia e salvare l’Europa da lotte sociali, populismi e disintegrazione”.

La vicepresidente del gruppo S&D per lo Sviluppo sostenibile, Kathleen van Brempt, dichiara:

“Gli investimenti senza capo né coda non rimetteranno l’Europa in carreggiata. Ciò che importa non è soltanto la quantità degli investimenti, ma dove le risorse saranno investite.

“La transizione verso un’economia sostenibile e basata su un uso efficiente delle risorse è la priorità e la sola strada che abbiamo davanti. Gli investimenti devono essere mirati alla transizione e all’efficienza energetica, all’economia digitale, all’innovazione e alle risorse umane, favorendo così la creazione di nuovi posti di lavoro. L’Europa deve focalizzarsi su progetti che non potrebbero mai svilupparsi senza lo stimolo di investimenti pubblici”.

La vicepresidente del gruppo S&D per gli Affari economici, finanziari e sociali, Maria João Rodrigues, aggiunge:

“Oggi l’Europa si trova dinanzi al rischio di un lungo periodo di bassa crescita e di disoccupazione di massa. Siamo anche di fronte a un deficit di investimenti stimato in 300 miliardi all’anno. Gli Stati membri hanno bisogno di recuperare la flessibilità in modo da essere in grado di investire. Occorre ripristinare sia gli investimenti privati, sia quelli pubblici. I fondi pubblici devono servire come leva per attrarre gli investimenti privati. Forme leggere di sovvenzioni, come ad esempio un prestito senza interessi, potrebbero sbloccare molti progetti importanti che altrimenti non potrebbero permettersi il finanziamento a condizioni puramente commerciali. Gli investimenti europei devono riguardare tutti gli stati membri dell’Ue ed essere rivolti al sostegno delle regioni in crisi”.

La vicepresidente del gruppo S&D per il Bilancio, Isabelle Thomas, ha sottolineato:

“Non sosterremo un ‘finto’ piano di investimenti”. Abbiamo bisogno di denaro fresco. Per questo proponiamo di creare un fondo speciale. Il capitale iniziale sarebbe gradualmente fornito dagli stati membri dell’Ue per raggiungere i 100 miliardi entro entro sei anni. Tali contributi nazionali dovrebbero essere esentati dal calcolo del deficit e del debito pubblico.

“Su questa base, il fondo potrebbe mobilitare ulteriori 300 miliardi messi sul piatto dagli investitori privati. Questa capacità finanziaria pubblica di 400 miliardi potrebbe generare un totale di 500 miliardi di euro di investimenti pubblici e privati”.

Parliamo di sanità – I

giuseppina1di Giuseppina Bonaviri

Si assiste, ormai da troppo tempo, ad un moto immobile che colpisce il bel Paese. Le stagioni passano e le riforme sono ferme. Non c’è accenno di progetto e di programma per  risollevare le sorti di tanti italiani messi alla gogna da anni di mala politica. In questa immobilità come pensare di rilanciare innovazione e ricerca tanto più se volessimo impostare un piano sanitario strategico su concrete basi scientifiche ad iniziare dalle nostre periferie? La riorganizzazione dei servizi sociali e sanitari diviene parola d’ordine a partire dagli Stati Generali  che imposteremo nel nostro entroterra argomenti su linee guida programmatiche e senza veleni  che vedano al centro  diritti e persone, sostenibilità del sistema, trasparenza dei dati, emancipazione collettiva.  La salute non è un costo ma un investimento economico e sociale, un valore per l’intero paese e per la qualità dei suoi abitanti. Una cosa sarebbe risparmiare sulla sanità pensando di riorganizzarla e ammodernarla a partire dalla condivisione di un Patto per la salute altro sarebbe ridurre  il fondo sanitario.

Il Patto alla salute tra Stato e Regioni (risalente a giugno di questo anno) prevede un risparmio concordato con le stesse regioni, senza traumi, affinché ci si avvicini ai costi standard  per arginare corruzione e sprechi. Il finanziamento per il servizio sanitario nazionale di quest’ anno siglato con un accordo tra Stato e Regioni- salvo eventuali modifiche  che si rendessero necessarie in relazione al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica e variazioni macroeconomiche- ammonta a 109,9 miliardi di euro e l’accordo con il governo prevede un aumento di circa 2 miliardi e mezzo per il 2015 e 2016 ( per il 2015 saranno erogati  111,6 miliardi e per il 2016 115,4 miliardi). La macroeconomia deve calarsi ora e necessariamente nei territori con studi di settore che partano da politiche di discontinuità e non di continuismo amministrativo.

Tuttavia, dal testo della proposta di riforma costituzionale emerge chiaramente la consapevolezza della necessità di assicurare, in alcuni specifici settori, uniformità di trattamento sull’intero territorio nazionale. A corollario delle potestà esclusive, sono infatti previste, in capo al legislatore statale, numerose norme generali – tra cui “norme generali per la tutela della salute mediante le quali si intende garantire la soddisfazione di quelle istanze unitarie, connaturate ad alcuni qualificati e specifici obiettivi di carattere generale, come appunto la tutela della salute”. Agli amministratori della salute pubblica va chiesto subito, fuori da macchinosi e strumentali atti dimostrativi o da organigrammi ministeriali prevedibili  per malaffare e collusioni dunque non accettabili, la garanzia reale di una programmabilità degli investimenti pubblici per la salute da effettuarsi nel nostro locale ambito territoriale, attraverso la predisposizione di piani annuali di investimento accompagnati da un’adeguata analisi dei fabbisogni e della relativa sostenibilità economico-finanziaria complessiva.

Nella nostra provincia a che punto sono gli studi di fattibilità e conseguente programmazione sanitaria? Quali le proposte elaborate dalla Asl locale per spending review interna? Quali gli interventi previsti localmente come da richiesta del Patto (da adottare entro il 31 dicembre 2014) in attuazione dei principi di equità, innovazione e appropiatezza nel rispetto degli equilibri programmati della finanza pubblica? Quali gli interventi urgenti previsti in provincia dedicati e finalizzati al miglioramento e all’erogazione  dei LEA? A che punto è, dalle nostre parti, l’analisi sulle percentuali di patologie aids, fibrosi cistica, rivalutazione sussidi, medicina penitenziaria, emersione lavoro fondamentali ed obbligatori perché le regioni adottino provvedimenti economici d’impatto rispetto ai locali servizi sanitari? E quali gli obiettivi programmatici previsti per il prossimo semestre dalla azienda sanitaria locale? Saranno in grado gli alti organismi burocratici interni alla realtà sanitaria provinciale di permettere -come da richiesta nazionale- la semplificazione degli iter sanitari attraverso il potenziamento degli strumenti di programmazione, controllo e valutazione privilegiando il corretto utilizzo delle risorse e del personale con la dovuta affermazione della cultura del merito, della trasparenza anche attraverso progetti di riqualificazione condivisi con l’area vasta e metropolitana? E come sarà reso attuativo in provincia il programma operativo regionale 2014-2015 che prevede un decremento dell’ospedalizzazione nei termini sia di dimissioni che di ospedalizzazione? Come avverrà la riduzione dei ricoveri ad alto rischio di inappropiatezza in considerazione della diminuzione dei posti letti prevista dal piano sanitario nazionale (pl x 1.000 ab. da 4,5 a 3,9) considerando, tra l’altro, che la quota di popolazione straniera è pari a circa il 9,5% della popolazione totale e che la popolazione di 65+ anni costituisce circa il 20% della popolazione totale, concentrata specialmente nelle Province di Rieti e di Viterbo mentre la popolazione anziana fragile (definita sulla base dell’età, delle condizioni sociali e dei ricoveri per malattie croniche), rappresenta circa il 3.5% della popolazione di 65+ anni del Lazio (circa 44.000 persone nel 2013 )? Abbiamo risposte pronte per interventi sanitari locali di management qualificati che nascono da ricerche e studi appropiati, di campionamento, osservazionali e validati sulla base di lavori epidemiologici-statistici, stratificati per rischio e per territorio, per patologie, per gruppi omogenei?

E allora, fintanto che avremo imparato ad usare scienza e coscienza, metodo e rigore al di fuori da ogni  schieramento,  in attesa che il piano strategico locale sia trasmesso alla Regione per la relativa approvazione entro il termine fissato di legge del 15 ottobre 2014 ed in attesa che venga modulato il  Tavolo di coordinamento (attraverso il quale la Regione fornirà alle Aziende sanitarie locali indirizzi inerenti ricollocazione di attività e funzioni inter e sovra aziendali prevedendo che potranno essere anche approvate modifiche ai posti letto) abbassiamo i toni e non giochiamo con la salute. Abbiamo urgenza di salvaguardare la qualità di vita dei nostri compaesani con azioni preventive, diagnosi precoci , reti di medicina associativa ( che in provincia non sono ancora attuative), con servizi territoriali di accoglienza al nuovo disagio e riabilitativi, di assistenza ai dimessi e ai cronici che non vengono reintegrati e accuditi dalle famiglie. Il privato non può rimanere unica garanzia alla complessità socio sanitaria che emerge. Va rilanciato un progetto dal basso, autogestito, per il recupero dell’umanesimo mettendo al sevizio del buon governo conoscenza e tecnica.

Abbiamo bisogno di welfare agibile che accompagni la solitudine delle utenze dimenticate e abbandonate. Iniziamo dalla costituzione volontaria di un” Social-Selfie” di specialisti e di figure sanitarie che, avendo seriamente a cuore la propria gente, dia il via alla nascita di ambulatori popolari gratuiti compensativi delle enormi carenze di una sanità pubblica lacerata.

30 Giugno Seminario “Dall’Expo ai Territori” – Seminar “From the Expo to our territories”

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Gli Innovatori Europei La invitano a partecipare al Seminario conoscitivo del progetto “Dall’Expo ai territori”, che supportano quale driver di sviluppo competitivo dei territori italiani “verso la Smart Nation”.Se è interessata/o all’iniziativa, La preghiamo di rispondere via email entro il 29 giugno.Seminario, 30 giugno 2014, ore 17.00 – 18.30, Roma, Spazio Europa, Via IV Novembre 149

Gli Innovatori Europei incontrano “Dall’Expo ai territori”

Si svolgerà il 30 giugno presso la sede italiana del Parlamento Europeo a Roma il seminario tecnico “L’Expo dei Territori”, dedicato ad approfondire le diverse opportunità di partecipazione all’Expo 2015, il ruolo e le iniziative delle amministrazioni locali e illustrare le risorse finanziarie che le amministrazioni centrali, le Regioni e i Comuni intendono destinare al percorso di avvicinamento e alla promozione del territorio.

Ai lavori, coordinati da Massimo Preziuso (Innovatori Europei), parteciperanno esperti, ricercatori ed innovatori aderenti al think tank.

Il rappresentante dell’Ufficio di Staff del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri Graziano Delrio illustrerà il progetto “Dall’Expo ai territori”, finalizzato alla promozione di azioni ed iniziative – nazionali e regionali – mirate alla valorizzazione delle dotazioni turistiche, culturali, delle filiere agroindustriali e delle eccellenze alimentari diffuse su tutto il territorio nazionale.

A seguire gli Innovatori Europei presenti, rappresentativi di importanti realtà associative ed istituzionali, proporranno idee e progetti per accrescere le potenzialità del progetto e le sue ricadute sul territorio in termini di immagine, economia e occupazione.

Per iscriversi e partecipare all’evento: infoinnovatorieuropei@gmail.com o Pagina Facebook

Innovatori europei: per il Sud una nuova fase da protagonista?

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Articolo pubblicato sul sito del Partito Democratico

L’associazione Innovatori europei ha organizzato per il 21 Giugno al Nazareno, presso la sala delle conferenze della sede nazionale PD a Roma un convegno fortemente caratterizzato fin dal titolo: “Logistica e Infrastrutture. Il ruolo del Mezzogiorno e il suo contributo all’economia del paese”, con uno sviluppo degli interventi che vuole dimostrare come la ripresa dell’Italia sia pura illusione se non si attribuisce, una volta per tutte, al Sud un nuovo ruolo: non più inerte beneficiario di provvidenze utili a consolidare rapporti clientelari ma parte orgogliosamente e consapevolmente integrata nel territorio nazionale, organica allo sviluppo dell’intero paese.

Certo, non è una tesi completamente nuova, ma è la prima volta – da quanto ci risulta – che il tema è trattato in maniera così approfondita.

La scaletta degli interventi è infatti estremamente ricca, tanto da costringere gli organizzatori a dividere l’evento in due sessioni, una più tecnica e politica al mattino e una al pomeriggio che si propone di mostrare come il mondo si muove così rapidamente da non lasciare scampo a chi non accetta le sfide del nuovo mondo globalizzato.

Ed è proprio qui che si tocca di nuovo con mano lo “spirito del cambiamento” in atto nel paese: come affermano gli Innovatori europei, appena è iniziata a circolare la voce che si stava organizzando al Nazareno un convegno su questo tema, sono arrivate da ogni parte d’Italia tantissime richieste per poter assistere o anche per dare il proprio contributo al successo della manifestazione.

È segno che sta per iniziare una nuova fase? O che forse è già iniziata?

Fonte, Europa Quotidiano

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Programma del convegno: Logistica e Infrastrutture. Il ruolo del Mezzogiorno e il suo contributo all’economia del Paese

Verso le europee. Un PD più innovativo possibile. Adesso o mai più

Europee-2014di Massimo Preziuso su L’Unità

Per il Partito Democratico è tempo di spingere nel solco di quel cambiamento innovativo invocato da Matteo Renzi, per ora avviato nella comunicazione e nella forma.

Con il declino netto del Partito Socialista francese alle amministrative di ieri, a due mesi da elezioni europee  “costituenti”, fondamentali per il rilancio del Sud Europa, non si può davvero scherzare.

Soprattutto se si pensa che, dopo anni di tentennamenti, il PD a guida Renzi ha deciso di entrare nella famiglia socialista solo qualche settimana fa, dando vita ad una chiara contraddizione politica: quella del giovane premier rinnovatore, formatosi nella Margherita, che aderisce ad una famiglia politica piena di valori sedimentati nel tempo, in alcuni casi meno innovativi e attuali di qualche anno fa.

Una scelta rischiosa, dunque, come si è poi visto con i risultati di ieri. Che si sommano al precedente annuncio del mancato supporto dei laburisti inglesi al candidato socialista alla presidenza della Commissione Europea Schulz.

E allora per ovviare al rischio di una débâcle alle europee, il Partito Democratico ha una sola via possibile: quella di tradurre le speranze di rinnovamento e riformismo riposti nella carica comunicativa e di leadership di Matteo in cambiamenti concreti da qui a maggio.

Tre sono i livelli su cui operare:

– Riforme. Il PD sostenga Renzi a migliorare e approvare quella elettorale e avvii una sostanziosa spending review che dia forza ai consumi italiani, con un aumento dei salari netti degli italiani tutti (non solo i dipendenti!).

– Alleanze elettorali. La sensazione è che il PD non possa più permettersi le alleanze storiche. Fortunatamente, il “Centro Democratico” è andato ad avventurarsi nell’ALDE italiana. Ma è evidente che anche la alleanza con un “SEL” statico e pieno di contraddizioni non regge più. Essa è in forte contrasto con la visione che gli italiani e gli elettori democratici hanno di questo nuovo PD.

– Persone e competenze. Il Partito di Renzi ha finalmente la forza di aprire la porta ai  Talenti italiani presenti nel mondo, che oggi han voglia di “ricostruire” il Paese, disegnando con il governo nuove politiche industriali competitive. Lo può fare a partire dalle nomine delle aziende quotate di cui si discute in questo periodo.  Può non  farlo, riconfermando il molte volte vetusto management attuale, o imponendo figure politiche senza riguardo al merito, dando in quel caso il via ad una slavina. Evidentemente lo stesso ragionamento è applicabile nella scelta dei candidati alle europee.

In conclusione: il PD diventi più “innovativo” possibile. Faccia sua, con fatti netti e svelti, la voglia di cambiamento politico e progettuale presente nel Paese. Attui le prime soluzioni anticrisi. Altrimenti, rimanendo in una sorta di limbo tra visioni socialiste e rinnovamenti annunciati, i suoi risultati elettorali alle europee saranno sicuramente deludenti. Con effetti sulla stabilità del governo, e del Partito, immaginabili.

 

Renzi e i rinnovamenti necessari

renzidi Massimo Preziuso su L’Unità

Matteo Renzi ha deciso di accelerare e scalare il Paese, senza passare per le urne.

Forte di un consenso pressoché unanime (!?) nel Partito Democratico e in tanti stakeholders del Paese, dopo aver chiesto e ottenuto in maniera discutibile le dimissioni di Enrico Letta, presidente del consiglio del suo stesso partito, egli si propone come premier alla stessa compagine governativa (?).

Una operazione così rapida e ambiziosa è chiaramente rischiosa: lo si vedrà nelle prossime ore, fino alla richiesta di fiducia alle camere, e nei prossimi mesi, con tensioni nelle istituzioni parlamentari, dentro il Partito Democratico e nell’elettorato del centrosinistra.

Per attenuare questi rischi, Renzi allora eviti di proporre un governo di legislatura, fissando un termine per completare, migliorandole, le riforme istituzionali programmate nelle scorse settimane ed avviarne nuove sui gravosi temi del lavoro e dell’economia.

E soprattutto – per costruire un solido consenso in un Paese che sembra lentamente uscire (almeno formalmente, con un +0,1% di PIL nello scorso trimestre) da una dura recessione a “doppia V”, con una classe politica “rottamata” da dentro e da fuori – Matteo attui rapidamente una serie di ”rinnovamenti” (dal titolo di questa rubrica), ovvero cambiamenti di qualità (più che di quantità).

E allora Renzi diventi “rinnovatore” in Italia (a partire dalla composizione del governo che va a proporre a breve, per proseguire con le nomine di primavera nelle grandi aziende pubbliche) e in Europa (nel semestre europeo a guida italiana si faccia portatore delle istanze dei Paesi del Sud Europa, richiedendo a Brussels l’avvio di quei cantieri europei di crescita sostenuti dalla leva pubblica).

Contestualmente apra il governo e il Partito Democratico al contributo di variegate energie esterne presenti nel mondo dell’associazionismo e della piccola e media impresa. Lì risiede gran parte dell’energia vitale del Paese, soffocata in questi anni di austerità e di centralismo decisionale, che va adesso messa al centro della ripresa economica e sociale italiana.

Insomma, verificate nei prossimi giorni le condizioni politiche per un governo di riforme, si utilizzi questo forse irripetibile momento per “cambiare rotta” sul serio al Paese.

Se riuscirà nel 2014 su questi temi, Renzi potrà tornare alle urne da “costruttore” per vincere la vera “missione impossibile” italiana: quella di portare il centrosinistra al governo pieno del Paese, attraverso i voti degli elettori, e non ad accordi di “larghe o medie intese”.

 

Perché l’Italia non innova più

di Leonardo Maugeri (su Il Sole 24 Ore)

In questi ultimi mesi mi sto occupando di trovare finanziamenti negli Stati Uniti per alcune start-up molto innovative in settori in cui le loro invenzioni avrebbero un’immediata e dirompente applicabilità – se di successo. La relativa facilità sia del contesto, sia di trovare interlocutori pronti a rischiare il loro denaro, mi ha spinto a un amaro parallelo con quanto avviene in Italia.

Mentre l’America continua a rigenerarsi e a uscire da ogni crisi grazie a moti periodici di innovazione, l’Italia non inventa più da troppi anni. E questa è una causa del suo declino economico.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, il miracolo economico italiano fu sostenuto dalla straordinaria inventiva di un popolo che non aveva grandi capitali: eppure, dalla chimica all’industria dei trasporti, dagli elettrodomestici alla meccanica di precisione, il nostro era un Paese che inventava, brevettava e trasformava in industria il risultato delle sue scoperte. Ricercatori innovativi trovavano capitani d’industria (allora era giusto chiamarli così) culturalmente pronti a sposare l’innovazione, a investirci sopra, a scommettere su nuovi prodotti che avrebbero cambiato il mercato e consentito di generare ricchezza e lavoro. Questo connubio naturale tra ricerca e industria, peraltro, rendeva la prima più concentrata sui bisogni e le aspettative della seconda, evitando così di disperdere risorse su filoni che non avevano prospettive commerciali. Di quel terreno fertile, è rimasto poco o niente. I ricercatori italiani sono di ottimo livello internazionale, nonostante siano pagati malissimo e siano dimenticati da tutti. Anche per questo, il numero dei brevetti italiani si è più che dimezzato rispetto agli anni Sessanta, e i brevetti di oggi spesso rappresentano solo migliorie all’esistente, non innovazioni tali da introdurre discontinuità di mercato. Molte università non hanno nemmeno un ufficio brevetti e – se lo hanno – non hanno alcuna idea di come valorizzare un brevetto. Nella mia esperienza industriale ho avuto esempi deprimenti di questa mancanza, su cui è meglio stendere un velo pietoso. Allo stesso tempo, i capitani d’industria dell’Italia post-bellica hanno lasciato il campo a grigi manager capaci di tarare le loro azioni solo sull’esistente e per un orizzonte temporale non superiore a tre anni, quello che – per il codice civile – esaurisce il loro mandato.
Per tutti loro, la ricerca è fondamentale solo a parole, in termini di comunicazione e immagine. Eppure, senza la capacità di generare nuove attività economiche basate sull’innovazione, le possibilità di crescita di un Paese sono nulle, e l’unica via è quella di competere sul costo del lavoro. Scelta che ci porterebbe verso il terzo mondo. E’ possibile cambiare questo stato di cose? Forse.
Ma occorre agire all’unisono su almeno sette fronti.
Primo: occorre liberare dalle tante vessazioni che li opprimono e dare un ruolo preminente a fondi di investimenti privato, private equity, venture capital etc. disponibili a investire nelle piccole società innovative. Nelle aree più produttive di idee degli Stati Uniti, come la Silicon Valley o Boston, ne esistono a centinaia, spesso migliaia. In Italia, secondo i dati di “Start Up Italia”, esistono solo 1.127 start up innovative, di cui solo 113 finanziate, per un misero totale di poco più di 110 milioni investiti nel 2013. Niente, rispetto agli oltre 10 miliardi di dollari che – nel 2013 – i soli venture capital statunitensi hanno trainato su start-up americane. Nel complesso, esistono (dati Aifi – Associazione Italiana Private Equity e Venture Capital) non più di 13 venture capital (contro i quasi 2.000 degli Stati Uniti o gli 800 della Germania). Ugualmente misero è il numero delle società di private equity. Con questi numeri non si va da nessuna parte. Un’ampia presenza di fondi privati e venture capital, invece, è fondamentale in quanto da noi manca una grande industria le cui articolazioni possano svolgere il ruolo di “pillar companies” – società pilastro, in grado esse stesse di finanziarie e aiutare le start-up nel loro percorso di crescita. Tuttavia, i pochi investitori nell’innovazione sono sottoposti (in quanto raccolgono capitali privati) a un sistema di vigilanza spesso vessatorio, che andrebbe drasticamente ridimensionato.
Secondo: i fondi privati dovrebbero godere di tassazioni agevolate, in particolare sugli investimenti in conto capitale. Per la fase iniziale della loro vita, si potrebbe addirittura pensare a annullare o rendere minimi tutte quegli esborsi (oneri di costituzione e registrazione, etc.) in modo da rendere attraente anche per fondi stranieri l’ingresso nel nostro Paese. Si tenga presente l’investimento in piccole società innovative è a altissimo rischio, in quanto la percentuale di start-up che muoiono prima di arrivare alla commercializzazione di un prodotto supera di gran lunga quella di quante hanno successo. Secondo un recente studio di Harvard, per esempio, solo il 25 percento delle start-up americane ha successo, nel senso che produce innovazioni vere e reddito per chi ci ha investito: ma è proprio quel 25 percento che rappresenta l’onda di continuo rinnovamento dell’economia americana. In un sistema perfetto, nessun problema: il tipico investitore si attende che i profitti realizzati su due delle dieci start-up su cui ha messo soldi eccedano di gran lunga gli investimenti complessivi. Ma in un sistema che deve decollare, come quello italiano, senza forti incentivi (e con le tante vessazioni di cui ho parlato) è difficile pensare che il capitale di rischio si muova agevolmente.
Terzo: bisogna smettere di pensare che tutta la ricerca sia utile, e quindi degna di finanziamento. In assoluto può essere anche vero, ma in pratica – per un Paese che deve ripartire – è un’idea velleitaria e dannosa. Occorre puntare su quei filoni che, in questo decennio, possono avere una grande potenzialità di mercato e in cui le barriere d’ingresso e i vantaggi accumulati dai concorrenti non siano già insormontabili. Queste caratteristiche, per esempio, escludono l’energia nucleare, ma non l’energia solare, le biotecnologie, la remediation ambientale, la chimica verde, il riutilizzo dell’acqua, i nuovi materiali a basso impatto energetico e ambientale, e molto altro ancora.
Quarto: la ricerca deve essere collegata al mercato e confrontarsi con esso. In realtà, questo aspetto è un corollario del precedente. Il ricercatore deve capire di che cosa ha bisogno il mondo che gli sta intorno e cercare di trovare delle risposte. Allo stesso tempo, deve essere in grado di presentare un business plan articolato a potenziali investitori. Pochissimi sono preparati su quest’ultimo aspetto: le università che fanno ricerca dovrebbero introdurre dei corsi specifici sull’argomento.
Quinto: tra università e l’universo di fondi e società che finanziano piccole società innovative deve esistere una sorta di simbiosi. Non a caso, grandi società, venture capital, private equity assediano letteralmente i campus del MIT o di Harvard. Da noi, come ho già osservato, gran parte delle università ha perfino difficoltà a dare valore alla proprietà intellettuale che produce, e non prepara i propri ricercatori a mettersi sul mercato. Tra i parametri di finanziamento della ricerca nelle università italiane, pertanto, dovrebbe entrare un meccanismo che consenta di misurare quel valore. Questo renderebbe più agevole e auspicabile l’erogazione di fondi di ricerca all’università – sia pubblici sia privati – e consentirebbe alle stesse università di creare fondi per finanziare spin-off e start-up da cui trarre royalty con cui finanziare altra ricerca (come fanno le grandi università americane), o per vendere le loro quote nel momento più propizio, anche attraverso periodiche esposizioni aperte agli investitori (vere e proprie mostre) delle ricerche più interessanti in atto, come fanno Harvard e MIT.
Sesto: lo stato dovrebbe limitarsi a finanziare la ricerca di base, una volta individuati i filoni di ricerca che meritano finanziamento. Chi riceve il finanziamento dovrebbe comunque presentare dei piani in cui siano presenti le tappe fondamentali che si vogliono conseguire con la ricerca, i tempi previsti per ciascuna tappa, l’originalità e la potenziale competitività di ciò su cui si lavora. Periodicamente, tutti questi aspetti dovrebbero essere rendicontati per evitare che si continuino a gettare soldi al vento per anni senza alcun controllo. Potrebbe partecipare anche al capitale di rischio dei fondi creati da università o soggetti privati.
Settimo: la proprietà intellettuale va difesa. In Italia lo si fa pochissimo, cosicché la possibilità di “scippi” di idee innovative è sempre in agguato. Il problema investe la scarsa specializzazione di studi legali e di altre organizzazioni professionali specializzate in materia. Visto che il mercato da solo non può dare in brevi tempi una risposta a questo problema, forse sarebbe più utile che lo stato o le regioni creasse questo tipo di organizzazioni sul territorio.

 

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