innovators
CAMBIAMENTO E INNOVAZIONE IN POLITICA
di Laura Tussi
Il cambiamento consiste nella trasformazione che un individuo sperimenta su un piano evolutivo-naturalistico, anche intenzionalmente, ossia voluto, provocato e indotto da uomini per il benessere o il malessere di altri uomini. In filosofia il cambiamento può definirsi il rendere o divenire diverso; nelle scienze sociali è riferito al mutamento sociale; in sociologia è legato all’evoluzione e al progresso; in pedagogia è un’esperienza temporale da cui si esce con diverse percezioni del sé. Il cambiamento è un laboratorio in cui il soggetto si scopre “capace di…” ciò non si verifica se non vi è un contenuto come qualcosa da apprendere, capire, usare, costruire, così importante da rigenerare e sviluppare una parte nuova o rigenerare la parte sepolta dall’identità adulta, verso un’innovazione, un mutamento di positività. Secondo i cognitivisti il cambiamento riguarda il soggetto attivo. L’educazione è concepita come educazione della mente, innescamento e attivazione di processi cui il soggetto può rispondere per cambiare, per evolversi, per rin-novarsi ed in-novarsi, ossia rendersi nuovo, innovativo, diverso da dentro, fondamentalmente, senza comunque perdere totalmente i propri capisaldi, i propri punti di riferimeno, ma facendo memoria di sè e della Storia degli eventi. Il cambiamento inteso come trasformazione rappresentativa avviene prima a livello cognitivo, poi emotivo e affettivo. Secondo la psicologia culturale postpiagetiana il cambiamento avviene quando il soggetto si accorge che da passivo ricettore diventa attore della formazione del proprio conoscere e si accorge di pensare di pensare: ciò genera il panico della mente necessario al cambiamento. Per la psicanalisi, Freud ha elaborato il modello psicanalitico di resistenza al cambiamento, oltre all’istinto di piacere subentra l’istinto di morte, meta di tutto ciò che è vivo è morte, ossia pulsione a ritornare allo stato inanimato, nella pulsione che è cambiamento apparente. Il cambiamento in base all’approccio fenomenologico, con Rogers, analizza il soggetto che tende all’autorealizzazione mediante una continua ricombinazione degli elementi del suo sé. Secondo Lewin l’accettazione e la reazione all’ambiente sono le funzioni più importanti della personalità totale. Quando il soggetto è incapace di modificare le sue modalità interattive con l’ambiente insorge la nevrosi. Il cambiamento è un modo nuovo di guardare la realtà, lasciando immutati i fatti concreti e oggettivi da cui è composta e trasformando la loro interpretazione soggettiva. Secondo l’approccio sistemico, Bateson sostiene che la mente è un aggregato di parti e componenti interagenti e le differenze che percepiamo si trasformano nella mente in informazioni. L’informazione è un cambiamento in quanto processo soggetto a trasformazione. Per l’approccio psicosociodrammatico, Levy Moreno intende indagare il mondo psichico a partire da alcuni metodi di azione con lo scopo di liberazione soggettiva della spontaneità per permettere l’espressione e lo sviluppo della creatività senza le quali emergerebbero psicopatologie. Lo psicodramma è una metodologia basata su cinque elementi: spazio scenico, protagonista, degli io ausiliari. E’ la messa in scena di una vicenda umana che porta la psiche sul palco impersonificandola nell’attore, in un processo catartico per l’individuo, in cui il soggetto non è solo, ma inserito in un gruppo che vive emozioni dell’attore protagonista (empatia). La Gestalt di Polster vede il cambiamento come effetto del contatto, in quanto far proprio l’elemento di novità o rifiutarlo, comporta l’interferenza nel sistema percettivo dell’individuo. Secondo Bion l’identità è la capacità di continuare a sentirsi gli stessi nella successione dei cambiamenti che si verificano in relazione a momenti di disagio e crisi, in corrispondenza delle fasi evolutive quali lo svezzamento, l’adolescenza, la vecchiaia. Il cambiamento comporta la perdita di rapporti e di relazioni precedenti e di alcuni aspetti della personalità, verso l’innovazione e la trasformazione intrise di molteplici potenzialità.
L’ITALIA E I TALENTI SPRECATI
di Andrea Benedetto
Tempo fa, ho letto sul Sole24ore, un articolo, che mi ha destato estremo interesse, sull’economia della conoscenza, “L’Italia, un capitale di talenti sprecati”.
Il concetto di “Economia della Conoscenza”, introdotto negli anni ‘60 da Eritz Machlup e ripreso da Dominique Foray, indica una nuova fase di sviluppo in cui l’istruzione, la conoscenza scientifica, le risorse umane rappresentano fattori di crescita essenziali, ancor di più del capitale tangibile (strutture fisiche, macchinari, risorse naturali…).
Oggi, la competitività delle imprese si gioca sulla qualità del prodotto e del processo, sulla riduzione dei tempi di decisione, di produzione e di lancio di nuovi prodotti, sull’adozione di innovazioni nei processi produttivi di tipo tecnologico ed organizzativo.
Per questo, fondamentale è lo sviluppo di competenze e di professionalità della forza lavoro, dei quadri e dei dirigenti. Non solo quindi investimenti fissi, capitale ma soprattutto know-how e competenze distintive. I lavoratori con capacità di analisi e soluzione dei problemi sono più produttivi rispetto agli altri in tutte le mansioni che implicano attività più complesse della semplice routine. Accrescono la loro produttività e quella degli altri perché insegnano ai colleghi meno capaci, imparano dai più abili e sono pronti ad operare con nuovi strumenti e processi produttivi, consentendone una rapida adozione.
Nel confronto con altri paesi dell’OCSE, l’Italia si caratterizza per bassi livelli di capitale umano sia nello stock che negli investimenti. Nel 2004, la quota dei laureati, fra i 25 e i 34 anni, è pari all’15%, contro il 25% della media dei paesi dell’OCSE.
Altri dati (Banca d’Italia) dicono che in Italia il tasso di abbandono delle università è pari a circa il 60%, il doppio rispetto che negli altri paesi industrializzati.
Medesimo discorso vale per le Università e i centri di ricerca pubblica. I primi 10 atenei, secondo una recente classifica mondiale, si trovano negli Usa e in Gran Bretagna. L’Italia? La prima università è al 100° (La Sapienza). All’interno delle università, i docenti universitari italiani sono 92 mila di cui il 40% a contratto (ovvero ricercati malpagati che insegnano). Il 35% dei ricercatori ha più di 50 anni e con molta probabilità non avrà mai una cattedra.
Questa difficoltà italiana di competere si acuisce ancora di più nel confronto con l’India, con le sue elevate performance sulle tecnologie dell’ICT, la Corea, la Cina, che stanno investendo pesantemente parte del proprio PIL in Ricerca e Sviluppo. Una serie di evidenze davvero sconfortanti per noi giovani. Non solo numeri, ma lo specchio di quello a cui quotidianamente assistiamo nelle nostre università, nei centri di ricerca, nei posti di lavoro.
Il capitale umano, cosi importante, deve essere incentivato e selezionato su base ESCLUSIVAMENTE MERITOCRATICA, perché se è vero che c’è bisogno di menti preparate e formate, queste menti devono essere promosse ed aiutate, non certo mortificate da contratti precari, da sorpassi in ambito lavorativo e concorsualistico da parte di figli di papà o del politico di turno. E se il governo precedente non sembra aver brillato, anche l’attuale, dopo aver messo nel suo programma l’Università fra le principali priorità, si sta comportando come quelli precedenti: la legge non aiuta le nuove leve e il ricambio generazionale è troppo lento. La proposta di un semestre Erasmus obbligatorio, per laurearsi, sembra un’ idea coraggiosa, ma senza un programma organico e senza concreti finanziamenti, destinate a cadere nel vuoto.
Bisognerebbe valorizzare adeguatamente il merito, insieme ad una adeguata remunerazione degli investimenti in istruzione, speriamo che questo governo riesca a dare una svolta.
CONVEGNO DI VISION E INNOVATORI EUROPEI
VISION – the Italian Think Tank, con la collaborazione di INNOVATORI EUROPEI
PRESENTANO
Energy and Democracy, the future is……now. Options for Europe
18th May 2007, 15:00 pm Rome – Italian Parliament, Camera dei Deputati, Sala del Refettorio
PER PARTECIPARE ALL’ INCONTRO, scrivi a v.sirabella@vision-forum.org
FIRMA APPELLO PD AREA SAPERE
Adesione all’appello per il Partito Democratico dell’Area Sapere
Innovatori Europei aderisce, convinta della necessità di fare del Sapere il cuore del Partito Democratico
Se ti va, compila il modulo (lo trovi in formato Word sul Google Group) e invialo a sapere@dsonline.it
L’APPELLO
La politica che vogliamo
Crediamo e vogliamo un partito capace di far passare il sapere da priorità predicata a priorità praticata, che promuova lo sviluppo delle conoscenze, non più come pura affermazione propagandistica ma attraverso misure effettive, reali, frutto di scelte anche difficili, dolorose, ma non rinviabili. A livello di “predica” le cose sono chiarissime. I differenziali nei livelli di sapere, di educazione, di ricerca, di cultura, di diffusione delle nuove tecnologie della informazione e della comunicazione, sono quelli che spiegano più di ogni altro indicatore i livelli di produttività e di competitività delle nazioni, dei territori, delle imprese.
Il sapere che c’è nella testa delle donne e degli uomini che in un Paese vivono e lavorano è la maggior risorsa che il Paese ha a disposizione per la propria crescita.
Una straordinaria occasione per la politica riformatrice.
Non c’è vera libertà senza sapere
Nella economia e nella società della conoscenza, gli investimenti e gli strumenti atti a incrementare la produttività del Paese sono gli stessi che sono essenziali per far crescere la qualità del vivere civile, per preservare il proprio patrimonio culturale e ambientale, per promuovere le capacità delle persone, per l’inclusione dei più deboli e svantaggiati, per rimettere in moto la mobilità sociale, per affrontare le sfide del mondo globale, che permea oggi il nostro vivere quotidiano. Sapere è libertà, è facoltà reale e non formale di scegliere la propria vita e le proprie vocazioni.
La conoscenza come priorità per il Paese
Proprio sul terreno della conoscenza l’Italia misura la sua più grande distanza dai Paesi più sviluppati e innovativi: una inadeguata qualificazione del capitale umano – il minor numero di diplomati, di laureati, di ricercatori, il più alto tasso di analfabetismo di ritorno – e insieme la scarsa capacità di utilizzarlo al meglio. Le persone lavorano al di sotto delle loro capacità e l’intelligenza dei giovani viene sprecata nelle sacche del precariato.
Innalzare la qualità del nostro sistema produttivo e dei servizi, incrementare in quantità ed efficacia gli investimenti in educazione e ricerca costituiscono la assoluta priorità per il nostro Paese.
Politiche nazionali, territori, Europa
Occorrerà guardare all’Europa e ai territori. All’Europa, perché solo a quel livello è possibile affrontare le grandi scelte necessarie a colmare il ritardo sulle frontiere più avanzate della ricerca e dello sviluppo tecnologico; ai territori, perché la diversità e la ricchezza culturale del nostro Paese sono la marcia in più a nostra disposizione per affrontare le sfide della economia e della società della conoscenza.
Le politiche nazionali saranno efficaci se sapranno collocarsi su questa frontiera; essere parte attiva nella costruzione dello spazio europeo della ricerca e dell’educazione; aprire nuove opportunità di sviluppo ai territori, alle mille città d’Italia, perché è lì che la sfida della qualità può essere vinta.
Scuole, università e centri di ricerca
Le scuole, le università, i centri di ricerca sono lo snodo decisivo tra il globale e il locale, tra il sapere del mondo e il sapere dei territori. Per questo è necessario valorizzarne l’autonomia e la responsabilità. Dell’autonomia è elemento essenziale la valutazione, così come il riconoscimento sociale ed economico del valore professionale di chi, nei tanti luoghi del sapere, con queste sfide si confronta.
Sono questi i luoghi dove si formano le eccellenze necessarie a interagire con le frontiere più avanzate della ricerca e dello sviluppo, e quel sapere diffuso, quell’innalzamento generale dei livelli di sapere della popolazione, che sono la condizione imprescindibile perché i risultati della ricerca diventino prodotto, servizio, vita delle persone.
Nuovo umanesimo
Va promosso il sapere scientifico e tecnologico, insieme alla educazione alla cittadinanza, alla libertà e alla responsabilità necessari per interpretare il proprio futuro e il futuro del mondo, aperto a nuove straordinarie opportunità e anche a nuovi temibili rischi. Nella prospettiva di un nuovo umanesimo in cui i diversi saperi convergono nella formazione integrale della persona. Sarà sempre più questa la condizione della partecipazione democratica, la strada maestra per evitare che la complessità e l’incertezza del tempo presente generino derive populiste. E’ per questo che è decisivo promuovere la partecipazione e il nuovo protagonismo degli studenti, delle famiglie, dei cittadini.
Il Partito Nuovo
Il Partito Democratico è per noi un partito che costruisce a tutti i livelli – al Governo e nei territori – un agire politico conseguente a questi obiettivi, a queste finalità, a questa idea del futuro.
Nuovo, perché sa superare una visione puramente economicista dello sviluppo, la quale fa delle variazioni del PIL l’alfa e l’omega per valutare l’efficacia delle proprie politiche.
Nuovo, perché va oltre una visione dello Stato sociale puramente redistributiva, risarcitoria, tesa a contenere e rendere accettabili le disuguaglianze indotte dell’economia di mercato, piuttosto che ampliare le opportunità, promuovere i talenti, avere cura delle persone in difficoltà.
Nuovo, perché sa mettere al primo posto l’interesse generale e un’idea condivisa del futuro rispetto ai corporativismi e ai particolarismi, di cui la frammentazione della politica è troppo spesso riflesso e amplificazione.
Nuovo, perché al proprio interno promuove e dà valore a chi costruisce, piuttosto che a chi oppone veti.
Nuovo, perché sa superare quei limiti che la prima fase della nostra azione di governo ha rivelato essere presenti, al di là delle difficoltà di bilancio, all’interno del nostro stesso schieramento.
Ma nuovo soprattutto perché sa chiamare a raccolta le persone. Quelle che non si sono rassegnate ai ritardi della politica, che nelle scuole, nelle università, nei centri di ricerca, nelle tante fabbriche del sapere, con le novità del presente si sono cimentate, consapevoli che ridare dignità e futuro al proprio lavoro era decisivo per ridare dignità e futuro al proprio Paese.
Dobbiamo a loro, alla loro capacità di pensare insieme, fare rete, di praticare la cultura della sussidarietà, se il nostro Paese ha ancora un futuro davanti a sé.
Al loro sapere e al loro impegno partecipativo il nuovo partito deve attingere. Le loro teste, prima che voti, sono sede di pensieri, idee, emozioni, necessari a ridefinire un nuovo profilo dell’agire politico.
Ne abbiamo più che mai bisogno quando governiamo. Superando una pratica vecchia della politica, che chiama alla partecipazione per battere l’avversario, e si schiaccia sul governo quando l’avversario è battuto, e prepara così la strada alla sua rivincita.
Per farcela occorre allargare i confini, non restringerli. Semplificare la politica, non complicarla. Alleggerire i vincoli identitari, perché le persone possano trovare nuovi spazi di protagonismo, a partire dalla loro esperienza di lavoro e di vita. L’unità tra i Democratici di Sinistra e Margherita, e quanti dei socialisti, degli ambientalisti, dei repubblicani, dei liberali e di quanti altri saranno con noi, è la precondizione, non l’esito del processo. E’ un atto di umiltà, non d’arroganza; è la presa di coscienza dei limiti delle culture politiche esistenti per interpretare e governare il cambiamento.
Un percorso da realizzare insieme
Questo documento è un primo contributo alla costruzione di un partito che sappia imboccare questa strada.
Sarà importante non solo che sia sottoscritto dai tanti che lo condividono – iscritti o non iscritti ai partiti – ma soprattutto se saprà suscitare critiche, miglioramenti, proposte.
Se aprirà un processo di riflessione che accompagni la fase costituente.
Se darà vita nei territori a comitati che ne discutano e ne promuovano le finalità.
Se accompagnerà passo passo la nascita del Partito Democratico, orientandone le priorità programmatiche e gli esiti.
Alla fine sarà, col vostro contributo, un documento nuovo, come Nuovo deve essere il Partito che costruiamo.
Andrea Ranieri, Antonio Rusconi, Giuseppe Fioroni, Luigi Nicolais, Luigi Berlinguer, Giancarlo Lombardi, Mariangela Bastico, Giampaolo D’Andrea, Luciano Modica, Nando Dalla Chiesa, Mario Ceruti, Italo Fiorin, Susanna Mantovani, Marco Rossi Doria, Walter Tocci, Domenico Volpini, Fausto Raciti, Pina Picierno, Paolino Madotto, Paolo Zocchi, Gianni Pittella
Massimo Preziuso
UNA NUOVA VISIONE POLITICA
di Luca Lauro
Il progetto per la costruzione del Partito Democratico sta generando un effetto di portata epocale assolutamente poco percepito working in progress.
E’ in atto una riflessione di massa su cosa è democratico.
Si cercano modelli nella storia e nella geografia, si ragiona e si discute e ci si accorge con stupore che l’aggettivo democratico si presta a numerose interpretazioni da quella propria.
Adesso però viene la parte più importante, la parte costruttiva del progetto, e non possiamo fare a meno di una traccia che guidi e dia la giusta direzione a tutti gli sforzi.
Dove si trova questa traccia?
Sicuramente se il Partito Democratico fosse solo una operazione di consenso si rivelerebbe un boomerang soprattutto per i partiti fondatori.
Sarebbero i primi a pagare il prezzo della disillusione o della mancata illusione di vedere fare una politica nuova magari anche da parte di soggetti non altrettanto nuovi.
Ecco perchè la traccia da seguire nel cantiere non può solo essere un esclusivo riferimento a regole su come creare strutture che decidono, controllano, eseguono, rappresentano come si sta facendo all’interno dei partiti e dei comitati promotori.
Non possiamo rimandare il confronto e la discussione sui contenuti politici ad un momento successivo alla creazione di un soggetto strutturato, perchè la sua forma deve anche essere funzionale agli obbiettivi del Partito Democratico, quindi è anche di questo e oggi di cui si deve necessariamente parlare.
Ciascuno per la sua parte ha oggi l’opportunità e il compito, se crede in questo progetto, di proporre e contribuire alla formazione di obiettivi, ideali, principi che oltre a ispirare l’azione del futuro Partito ne modellino da subito la forma più congeniale in cui riconoscersi nel suo operare sulla scena politica, ed è chiaro che l’esperienza dei partiti fondatori è il riferimento certo, che abbiamo a disposizione, ma non esclusivo di questa immensa operazione, anzi .
Il Partito Democratico può solo proporre una visione politica nuova rispetto a tutte le altre proposte politiche esistenti e del passato: una visione innovativa.
Innovativa perché, a mio avviso, è l’unica possibile, quella che per la prima volta si emancipa da un novecentesco atteggiamento di fare politica in cui pochi ormai si riconoscono anche fra i promotori, e cioè quello di creare delle categorie politiche, partendo dalle categorie della società (gli imprenditori, gli immigrati, le donne, i dipendenti pubblici, i giovani, gli anziani, i disabili, i manager, i professionisti, il pubblico, il privato, i giudici, i meridionali ecc…) e fare politica e leggi ricollegando effetti giuridici non ai comportamenti in quanto tali ma alle caratteristiche personali riferite alle ‘categorie d’appartenenza’.
Abbiamo passato, così, decenni a vivere conflitti inutili e talvolta imprevedibili, come quello ultimo fra famiglie e famiglie (di fatto ma sempre famiglie sono) sottraendo energie preziose alla cooperazione e all’amore per lo spirito di fare e di essere insieme ed un insieme.
Dunque, quando bisogna distribuire risorse non si distingue più fra le categorie ‘politiche’ imprese e famiglie contrapponendole come ancora sta avvenendo con la vicenda del cosiddetto ‘tesoretto’:
si distingue fra le imprese che pagano le tasse e investono nell’innovazione e quelle che invece evadono e si mangiano i ricavi (ottenuti in nero);
si distingue fra le famiglie numerose e con un solo stipendio, che rischiano di gravare poi doppiamente su tutti i servizi assistenziali, da quelle che possono permettersi appartamenti e macchine di lusso;
non si deve distinguere più tra italiani e immigrati, ma fra persone che, una volta ne sia accertata l’identità il domicilio e la residenza, si comportano onestamente contribuendo al benessere proprio e della collettività secondo le regole che valgono per tutti, e coloro che difettono in tal senso, anche se italiani.
Gli esempi potrebbero andare avanti e a lungo, ma il concetto di fondo è unico e semplice:
il Partito Democratico può solo proporre una nuova visione politica che superi la logica delle contrapposizioni di categorie ‘politiche’ di tipo corporativo (quelle ereditate nella storia) e sociale (quelle che si sono affermate più recentemente) e la traccia da seguire consiste nell’identificare oggi e tutti insieme i contenuti che permettano all’impresa e al sindacato, o in un altro tavolo di discussione, al giovane precario e ai datori di lavoro, e così via, di addivenire a contenuti che definiscano in maniera chiara, condivisibile e infine condivisa il bene e l’interesse comune di tutti gli attori in gioco (non di tutte le categorie in cui essi sono ricompresi in base a sesso, attività svolta di lavoro, provenienza geografica ecc.).
Il Partito Democratico ha il compito epocale di individuare, con questa modalità, e non con altre a mio avviso, il bene e l’interesse comune e di introdurre l’innovazione politica più seria, urgente e desiderata: l’unità.
LE LIBERTA’
Democrazia dell’informazione, ovvero la libertà di stampa
di Luigi Restaino
La libertà è senza ombra di dubbio un Valore indiscutibile. E senza ombra di dubbio dare maggiore libertà ai cittadini, al popolo, ad ogni singolo individuo è una ambizione di progresso civile. Mi spiego meglio: una persona più libera è secondo me una persona migliore. In ultima analisi credo che maggiore libertà corrisponda ad una maggiore possibilità di gestire la propria vita, indipendentemente da condizionamenti esterni, orientandola verso le proprie aspirazioni e rendendola più soddisfacente. Ma su questo vorrei lanciare una raccolta di proposte ed idee nuove per definire come si articoli in pratica questo concetto, e come lo si possa misurare (senza misure non è possibile darne una valutazione oggettiva). Cosa è dunque la Libertà, come la definiamo e come la misuriamo?
Vorrei iniziare subito con la Libertà di espressione e di Stampa, sulla limitazione della quale alacremente i nostri politici dipendenti lavorano in Parlamento. Tale libertà è sancita dalla nostra Costituzione ed è un concetto cardine di tutte le democrazie. Una misura indipendente del grado di libertà di stampa, e quindi di espressione in un Paese ci è fornita dalla House of Fredom (Casa della Libertà, ironia della sorte) www.freedomhouse.com, una organizzazione indipendente e non-governativa americana fondata da Eleonore Roosvelt, che supporta lo sviluppo della libertà di stampa nel mondo. In Europa Occidentale esiste un unico Paese dove la Stampa è valutata “Partly free”: L’Italia! (vedi http://www.freedomhouse.org/template.cfm?page=271&year=2006) Il nostro amato Paese è in compagnia del Botswana al 79° posto precedeuto persino dalla Mongolia, dalla Bulgaria, dalla Bolivia! Non starò qui ad analizzare le motivazione di questa valutazione (che largamente condivido, come fanno daltronde tante altre organizzazione nazionali ed internazionali). Il punto è che che se vogliamo fare qualcosa di veramente nuovo e positivo dobbiamo avere persone che lavorino perchè ci sia più Libertà e più Libertà di Stampa (come valutata indipendentemente da organizzazioni nazionali ed internazionali, e non dai nostri politici interessati), e non mi sembra che le operazioni in corso vadano in questa direzione. Mi piacerebbe vivere in un Paese dove la Stampa fosse libera come in Finlandia (non so voi?), ma di qeusto passo temo che l’anno prossimo ci ritroveremo dietro il Burkina Faso.
IL FUTURO DELL’EUROPA
di LAURA TUSSI
“Quanto scommetteresti sull’Europa di Prodi?” è stato l’argomento dell’incontro in programma presso la Casa della Cultura di Milano. L’evento è stato organizzato in occasione della presentazione ufficiale di IDEURA, associazione politico-culturale milanese che, attraverso testimonianze come questo incontro, intende avvicinare i giovani al dibattito civile e politico. I relatori dell’incontro, che hanno dato vita ad un dibattito con il pubblico in sala, sono stati Massimo Cacciari, Preside della Facoltà di Filosofia dell’Università S. Raffaele e Sindaco di Venezia, e Lapo Pistelli, parlamentare e responsabile del dipartimento esteri di DL-La Margherita. La tavola rotonda è stata moderata da Alessandro Alfieri, coordinatore dell’Osservatorio sull’Internazionalizzazione della Pa presso l’Ispi. Sono stati oggetto di discussione della serata i temi del Patto di stabilità e del progetto di Costituzione europea visti nell’ambito del manifesto di Romano Prodi, “Europa: il sogno, le scelte”.
L’appuntamento rappresenta la prima tappa di un ciclo di incontri programmato da Ideura in cui si tratterà di temi attuali, con particolare riferimento alla realtà economica e sociale europea senza perdere però di vista la dimensione locale dell’associazione, che opera nell’area metropolitana milanese.
L’opinione pubblica e la Convenzione
Un disastro si misura su cosa è disastrato: occorrerebbe riprendere la riflessione relativa a cos’era la Convenzione in Europa, quali erano gli effettivi contenuti e il suo obiettivo valore, al di là delle posizioni e delle pretese delle forze politiche in campo, dei vari governi. Se ci fosse stato un grande movimento di opinione pubblica, come vi era stato in Italia, quando l’Ulivo partì con l’obiettivo principale della moneta unica, se vi fosse stata un’effettiva adesione dell’opinione pubblica europea, convinta e partecipata ai contenuti della Convenzione, avrebbero fatto molta più fatica a farla fallire.
Non c’è stato alcun movimento di opinione pubblica europea per questo fallimento, che abbia compreso l’importanza di questa scadenza, di questo appuntamento. Perché? Tale circostanza ha a che fare con il contenuto della convenzione. L’Europa attualmente si presenta profondamente divisa su questioni politiche generali ed essenziali di grande spessore geopolitico. L’accordo non è stato trovato sul sistema elettorale, perché tutti i diversi paesi non hanno alcuna unità strategica sul futuro dell’Europa. Le divisioni, dunque, sono politiche, non relative al sistema elettorale, ma riguardanti le questioni culturali e strategiche e quindi politiche, per cui si può essere d’accordo perfettamente. Il problema consiste nel fatto che i paesi non sono concordi per niente sulle grandi questioni strategiche. I paesi europei non sono divisi sul sistema elettorale, ma sul cosa è o su cosa dovrà essere l’Europa, circa l’identità europea, cose di cui non si discute e di cui non vi era la minima traccia del testo della convenzione.
Culturalmente la questione dell’identità e delle radici cristiane è nient’altro che un sintomo, una spia della volontà dei “padri” costituenti di non affrontare la questione delle questioni, ossia l’identità europea. Non l’identità intesa come la storia e il passato, ma la progettualità futura. L’Europa non sa ancora cosa essere nei confronti di una cultura politica sempre più evidente ed esplicitamente filoamericana che va molto oltre anche rispetto all’attuale amministrazione che intende “globalizzazione” nel senso di una omologazione universale e planetaria, dominata dal pensiero unico e dalla new economy, nei confronti della sfida potente della cultura politica americana, ad ogni visione geopolitica intesa in senso policentrico e poliarchico. L’Europa non sa come collocarsi di fronte a questa posizione, o meglio, l’Europa di fronte a tale posizione si collocherà in modo drammaticamente contradditorio.
Quei paesi mediterranei che tradizionalmente avevano assunto sempre una posizione atlantica, consapevoli del proprio ruolo nei confronti dei problemi mediorientali, quindi in una posizione atlantica estremamente dialettica (Andreotti e Craxi) proprio questi paesi sono stati i più filoatlantici in modo assolutamente passivo e suddito, cioè con un ribaltamento di quelli che erano gli equilibri e le dinamiche politiche europee. Per non parlare delle contraddizioni drammatiche in seno ai paesi europei per quanto riguarda quella che forse è la riforma più urgente, se vogliamo pensare ad un mondo veramente policentrico e a superare ineguaglianze ormai denunciate da tutti come intollerabili, se si prolungano ancora nel futuro, e cioè la riforma dell’organizzazione mondiale del commercio. Anche rispetto a questo si notano le posizioni neoprofessionistiche, peggiori di quelle americane che condannano di nuovo l’Europa a rimanere una provincia atlantica e altre posizioni invece che spingono per un ruolo attivo e positivo europeo verso la riforma in senso policentrico e poliarchico dei grandi organismi sovranazionali: l’organizzazione mondiale del commercio, il fondo monetario, la banca mondiale ecc…
Queste drammatiche divisioni su un terreno strategico e vero, privo di ingegnerie istituzionali o massimalismi giuridici, evidenziano questa Europa, sia come un affare di giuristi, di costituzionalisti, di amministrativisti: l’Europa è un affare culturale e politico.
Berlusconi è stato la punta di diamante che ha diviso i paesi europei, per primo, sulla questione della guerra. La nuova destra americana, l’amministrazione Bush, la volontà che l’unità politica europea non venga attuata: tutto questo è nascosto, è la loro strategia. Non hanno una visione geopolitica in senso poliarchico e Berlusconi è l’uomo agente, all’interno dell’Europa, per questa strategia. Berlusconi è palesemente il loro agente in Europa: lo hanno dichiarato attraverso cerimonie pubbliche. Questo risultato è stato perfettamente ottenuto. Il semestre europeo italiano non è stato affatto un fallimento, o meglio, è stato un fallimento per l’Italia e gli italiani, ma non per l’azienda del cavaliere. La politica di Bush ha forse rimpianto la mancata occasione del voto per la costituzione europea? E’ il risultato di una sua strategia non essere giunto a quel punto. Allora ha senso e peso la nostra critica?
E’ vero la sua strategia ha trionfato perché è la sua tattica che non vuole l’unità politica europea. Soltanto che almeno Bush ha la serietà e la responsabilità di dichiararlo apertamente.
INTERCETTAZIONI: MASTELLA O NO?
di Fernando Cancedda
“Sarebbe davvero singolare se la prima legge promossa dal governo di centro sinistra riguardo all’informazione fosse una legge liberticida, come questa sulle intercettazioni telefoniche”. Paolo Serventi Longhi, segretario generale della FNSI, interviene senza peli sulla lingua al convegno su un tema delicato e attualissimo: segreto investigativo e diritto all’informazione. Un’ipotesi, quella di Serventi, nient’affatto remota. La legge che prende il nome dal ministro Mastella, approvata da larghissima maggioranza alla Camera e attesa nelle prossime settimane al Senato, è in dirittura d’arrivo.
“Se fate un po’ di baccano maggioranza e opposizione faranno a gara per non farla passare”, dice con apparente convinzione Francesco Cossiga, ospite d’eccezione nella sala “Tobagi”, affollata da giornalisti e politici illustri ma anche – buon segno – da decine di studenti delle scuole di giornalismo. I promotori della manifestazione, a cominciare dal presidente dell’Ordine regionale Bruno Tucci e dal segretario del Consiglio nazionale dell’Ordine Vittorio Roidi, non sembrano però condividere l’ottimismo dell’ex presidente della Repubblica. Alla Camera, dove pure i giornalisti sono numerosi, soltanto pochi deputati si sono astenuti. Uno di loro, Giuseppe Caldarola, ha accennato nel suo intervento all’insofferenza diffusa tra i politici per la pubblicazione di conversazioni intercorse nelle stanze del potere. E di “irritazione generale” nei confronti della stampa ha parlato anche un altro dei parlamentari astenuti presenti, il professor Roberto Zaccaria.
Giovanni Valentini (La Repubblica) e Antonio Padellaro (L’Unità) hanno ricordato che il nodo principale è il divieto di pubblicazione previsto fino al termine delle indagini preliminari, che in Italia durano mesi o addirittura anni. Senza le rivelazioni sui “furbetti del quartierino” e altri più o meno recenti scandali nazionali gli italiani sarebbero probabilmente all’oscuro di gravissimi episodi di corruzione. Una sanzione monetaria notevolmente aggravata (fino a centomila euro) creerebbe inoltre una discriminazione fra ricchi e poveri. E poi perché dovrebbero essere i giornalisti i primi (e i soli) a pagare? “Voi potete pubblicare tutto – ha assicurato Cossiga – e in Senato io non mi limiterò a votare contro. Proporrò un emendamento: nessuna sanzione ad un giornalista prima che sia pronunciata e passata in giudicato la sentenza a carico del magistrato o del funzionario o dell’ufficiale o del sottufficiale che gli ha passato la notizia”.
Eppure non tutti i giornalisti sono contrari alla legge. Secondo Paolo Gambescia, già direttore del “Messaggero” e oggi deputato, “non si tratta affatto di una legge liberticida ma di una legge civile”. E’ possibile, ha domandato, che l’indagato debba avere conoscenza delle prove che lo riguardano dalla lettura dei giornali?
Anche il sottosegretario alla Giustizia Li Gotti – che il moderatore Roberto Martinelli ha presentato come “il padre della legge” – ha denunciato una scarsa conoscenza della nuova normativa, la quale secondo lui innoverebbe pochissimo rispetto a quella in vigore. Fino dalla riforma del codice di procedura penale del 1989 – ha detto – il divieto di pubblicazione è attribuito alla necessità che il giudice delle indagini preliminari apprenda il contenuto delle prove solo ed esclusivamente dalle parti in giudizio. E non prima, dalla lettura dei giornali. E’ in gioco la sua “terzietà”.
“Ma l’intercettazione è una prova come un’altra – ha osservato subito dopo il professor Franco Coppi – Un testimone non ha l’obbligo del segreto. Perché l’intercettazione dovrebbe essere trattata diversamente dalle dichiarazioni di un testimone alla stampa?” Diverso, ha proseguito l’avvocato Coppi (difensore, lo ricordiamo, delle persone implicate nei presunti episodi di pedofilia di Rignano Flaminio) è il caso di intercettazioni che non riguardano il processo e che non dovrebbero neppure essere messe agli atti.
“Le intercettazioni telefoniche non sono prove come le altre – ha obbiettato l’onorevole avvocato Gaetano Pecorella – appunto perché sono reti in cui entrano pesci che non hanno niente a che fare con l’oggetto del procedimento”. Che ci sia stato a volte un uso disinvolto delle intercettazioni hanno ammesso anche Bodo dell’agenzia ANSA e prima di lui il segretario dell’Ordine nazionale Roidi, il quale ha tuttavia ricordato l’indifferenza della politica e delle istituzioni alle tante proposte di riforma dell’ordinamento professionale dei giornalisti anche in tema di deontologia.
Proprio a questo riguardo vorrei aggiungere alla cronaca una mia riflessione. Di questa annunciata sciagura che pone un limite pericoloso alla libertà di stampa e soprattutto al diritto dei cittadini di avere un’informazione completa e imparziale, saranno in molti ad avere la responsabilità. In primo luogo i parlamentari e i politici che l’hanno proposta e approvata, quelli in mala fede, alla continua ricerca di alibi per sfuggire al controllo dell’opinione pubblica, e quelli in buona fede, che hanno creduto di trovare un (pur necessario) rimedio alle violazioni della privacy e al disinvolto coinvolgimento di fatti e persone che non hanno interesse pubblico. Senza accorgersi che in questo caso la toppa era peggiore del buco.
Ma proprio perché si tratta di una sciagura annunciata, parte della responsabilità – se e quando la legge Mastella sarà definitivamente approvata – andrà attribuita a noi giornalisti, sia a quelli “distratti” che hanno sempre considerato l’etica professionale un “optional” poco remunerativo, sia a quelli che avrebbero dovuto denunciarli, fermarli e adeguatamente sanzionarli. Sempre e non solo occasionalmente. Per dovere nei confronti del pubblico, per tutelare l’interesse di tutti all’autoregolamentazione e per non offrire alibi all’ipocrisia di chi non la vuole e si rifiuta di cambiare una legge professionale antiquata. Nei rapporti interni alla nostra categoria è spesso più facile trovare omertà che solidarietà. Anche per questo l’autoregolamentazione non ha funzionato.
“La verità è che soffia un vento illiberale non solo in Italia, ma anche in altri paesi d’Europa”, ha detto, concludendo il convegno, il presidente della FNSI Siddi. E il Presidente del Sindacato Cronisti Columba ha annunciato la necessità e l’urgenza di una forte mobilitazione della categoria in coincidenza con il dibattito decisivo al Senato. Il Presidente Marini li riceverà il 24 maggio.
ELEZIONI FRANCESI E PD
di Francesco Grillo
Sarkozy e le note della marsigliese intonate a Place de la Concorde; il sorriso meraviglioso, la determinazione di Ségolène nel dibattito televisivo come momento più bello della campagna elettorale; ma prima di loro la Merkele, Zapatero, Blair (anche se ad un passo dall’addio). Non c’è più ormai un solo Paese europeo che non abbia profondamente rinnovato la propria classe dirigente politica. Ed il fantasma del cambiamento, di una modernizzazione che supera le categorie della Sinistra e della Destra si aggira potente per l’Europa.
Con una eccezione però. Quella del Paese più bello del mondo che si ritrova come prigioniero di un incantesimo. Come nella “Bella addormentata nel Bosco”, dove non solo la principessa ma l’intero villaggio si è come pietrificato e dopo dieci anni tutte le persone e i personaggi sembrano essere rimasti uguali a se stessi. Immobili nello stesso posto, intenti nella stessa azione. Persino le rughe nel paese addormentato sembrano meno feroci che altrove.
Ma qualcosa sa cambiando. C’è il rischio che sia la solita trovata pubblicitaria che dura lo spazio di un paio di mesi. O forse per sopravvivenza e disperazione, il villaggio si sta veramente rassegnando all’idea che per svegliarsi non può aspettare un principe azzurro che all’orizzonte non si riesce proprio a vedere.
La nascita del Partito Democratico (o dovremmo forse dire la cerimonia di chiusura dei Partiti dei Democratici di Sinistra e della Margherita) è stata, finora, l’evento politico meglio riuscito dell’anno. E non solo dal punto di vista della comunicazione.
In particolar modo il congresso dei Democratici di Sinistra segna un abbandono vero. Il distacco da una tradizione, da una consuetudine organizzativa e da un gruppo di valori che non poteva non essere difficile e che è stato visibilmente vissuto con sofferenza sincera.
Hanno rinunciato sia i DS che la Margherita a punti di riferimento che ne hanno definito –anche se sotto nomi che sono cambiati numerose volte – l’identità per decenni. È un rischio vero quello che entrambi i gruppi dirigenti hanno deciso di correre. Una innovazione autentica anche se i suoi contorni devono ancora essere definiti.
Si capiscono i motivi della svolta: la totale crisi della politica, la domanda di chiarezza e di novità da parte degli elettori. Del tutto incerti però sono – come è stato notato – gli approdi e le rotte della nave che ha preso il largo.
E tuttavia, proprio per questi motivi, sono convinto che la nascita del Partito Democratico apra una opportunità importante. Bisognerà, infatti, definirne gli obiettivi, le agende, probabilmente i valori. Forse persino una ideologia, o perlomeno, una visione del mondo che accomuni quella parte della società che in questo partito si riconoscono.
Di fronte a questa sfida non basterà fondere le due visioni, quella di derivazione cattolica e quella socialista, marxista. E ciò perché quelle due visioni fondibili, riducibili l’una all’altra non sono. Teoricamente, allora, quattro appaiono le possibilità: far prevalere l’agenda di sinistra ma così si perderebbe nel tempo l’elettorato moderato andando dritti verso il fallimento del viaggio; far vincere quella moderata e però in questa maniera si otterrebbe il risultato opposto e lo stesso esito finale; far finta che siano sufficienti ipotesi programmatiche come quella proposta dall’Unione alle ultime elezioni, dimenticandosi però che quella appunto era la piattaforma programmatica di una coalizione e non il manifesto di un partito che necessariamente deve poter contare su un senso di appartenenza di livello molto più alto; infine, riconoscere l’inadeguatezza delle famiglie politiche, delle categorie del passato e cominciare ad elaborare una interpretazione del mondo, a costruire strumenti di governo del tutto nuovi. Partendo dall’ammissione che sia davvero una discontinuità (tecnologica, economica) radicale quella che la politica del futuro deve capire e affrontare.
Mai come in questo caso sembrerebbero coincidere le necessità del consenso, della sopravvivenza di un certo sistema di potere, con le ragioni della riflessione strategica finalizzata a proporre soluzioni a problemi complessi. E ciò apre opportunità per iniziative indipendenti, coraggiose, serie come Vision. Se un pezzo così rilevante della politica italiana decide di lasciare il proprio porto per avventurarsi in un percorso mai tentato prima, significa che al cambiamento non c’è più quasi davvero alternativa.
DONNE IN EUROPA
di LAURA TUSSI
Riconoscere la soggettività della donna corrisponde a riconoscere anche la differenza: la pari dignità non viene stabilita sulla base di una omogeneizzazione dei due sessi, ma sulla identificazione della differenza come valore. Non per elogio del pensiero della differenza sessuale (che è comunque un momento alto della partecipazione femminile all’elaborazione culturale), ma sottolineare ancora una volta che la rilevazione della differenza sessuale come positività attribuisce diritto di cittadinanza culturale a tutte le altre differenze (etnica, culturale appunto, ma anche di età, di salute, di stato sociale ecc.). Ciò sembra importante soprattutto in un momento in cui le differenze etniche-culturali stanno spaccando nazioni, anche da lungo tempo costruite sull’unione di etnie diverse, in tanti piccoli satelliti.
Rimane certamente un problema quello delle varie forme di discriminazione e di violenza sulle donne e sulle bambine. Una questione grave è il precariato sul lavoro, il cosiddetto mobbing e la precedenza data al licenziamento, o alla messa in cassa integrazione, delle donne nelle situazioni di chiusura totale o di de-localizzazione delle aziende. Legati al fenomeno dell’immigrazione ci sono i problemi dello sfruttamento e del traffico di donne. Di crescente rilievo sociale, giuridico e morale è la piaga culturale che riguarda quelle donne immigrate le quali, lavorando in particolare quali badanti o infermiere nelle nostre case e nei nostri ospedali, fanno partecipi le nostre famiglie dello stato di disagio in cui si trovano le loro stesse famiglie rimaste nei paesi di provenienza: prive di madri, figlie, sorelle… La sfida del ricongiungimento del nucleo familiare ci coinvolge nel nostro più intimo vissuto quotidiano.
Partire dai diritti umani delle donne e delle bambine porta a considerare con mente nuova la pratica della socialità, della politica, dell’economia, dell’educare e del formare per un avvenire globale completo. Alla fine non può non scattare una più avvertita consapevolezza del valore della centralità della famiglia, del rilievo e della irrinunciabilità degli essenziali servizi sociali, della necessità di politiche pubbliche sostanziate di adeguate risorse.
E’ stato grande l’apporto femminile nella crescita globale dell’attenzione e responsabilizzazione verso i soggetti più deboli (bambini, anziani, handicappati) che, essendo un tempo gestiti individualmente dalle donne nell’ambito familiare, poi non venivano presi in responsabilità dal sistema sociale. Altrettanto grande è stato il contributo femminile alla sensibilizzazione verso le tematiche ecologiche, alla tutela e preservazione dell’ambiente, legata anche all’antica consuetudine, come donne, della gestione del quotidiano. Al femminile è la presa di coscienza dei grandi temi della pace, del ripudio della guerra, delle denunce alla violazione dei diritti umani in ogni realtà. Non vi è dubbio che per portare avanti un impegno in prima istanza individuale, una presa di coscienza, e poi collettiva, le donne devono innanzitutto conoscere e riconoscere se stesse per poter chiedere all’alterità un corrispondente riconoscimento. In questo senso le donne devono compiere ancora lunghi percorsi di emancipazione. In alcuni casi debbono creare e ricreare immagini di sé che non hanno avuto, non limitandosi ad un inventario dell’esistente, della realtà di fatto, del contingente.
Le culture si sono sviluppate sui tentativi successivi degli umani di superare le diversità, di colmare lo scarto, di rendere realizzabile l’utopico. La rivelazione della differenza sessuale come positività, attribuisce diritto di cittadinanza culturale a tutte le altre differenze, etniche, culturali, ma anche di età, intergenerazionali, di salute, di stato sociale. Questo è importante soprattutto in un momento in cui le differenze etnico-culturali sgretolano nazioni, anche da lungo tempo costruite sull’unione di etnie diverse, in tanti piccoli satelliti. La differenza di sesso è forse attualmente quella che subisce i maggiori attacchi. Anche le scienze dimostrano che riconoscersi in un sesso è un processo culturale oltre che fisiologico e psichico. Le elaborazioni del neofemminismo hanno dimostrato che la partecipazione delle donne ai processi culturali è stata di notevole spessore, anche se sotterranea, tacita, priva di protagonismi, quasi ignorata dalle donne stesse.
Proprio nella quotidianità e non nelle orchestrazioni metafisiche si gioca il senso più rilevante della nostra esistenza, anche come donne. In questo senso Hannah Arendt scriveva con evidente lucidità: “E’ vano cercare un senso nella politica o un significato nella storia quando tutto ciò che non sia comportamento quotidiano o tendenza automatica è stato scartato come irrilevante”.
Abbiamo come donne forza, tenacia, creatività, capacità di resistenza anche in situazioni di tensione. Abbiamo anche una certa “innocenza” che deriva dal fatto di essere state lontane dai luoghi di potere.
Abbiamo dimestichezza con le origini della vita e della morte: “sappiamo” per retaggio atavico. Eros e Tanatos trovano ricomposizione nella nostra stessa esistenza.
Dobbiamo innanzitutto riuscire ad utilizzare le forze positive che si liberano nell’inevitabile conflitto tra i “diversi”, per sesso, per età, per cultura, come stimoli a cambiare, a crescere, neutralizzando la parte negativa del conflitto che si esprime in prevaricazione, ricerca di possesso dell’altro, tentativo di omologazione dell’altrui diversità ad un modello costruito a nostra immagine e somiglianza o per nostro tornaconto.
Il conflitto sessuale non è a se stante, ma partecipa di una conflittualità che permea tutto il reale, perché è un atto creazionale, proiettato nell’avvenire.