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L’ITALIA E I TALENTI SPRECATI

di Andrea Benedetto

Tempo fa, ho letto sul Sole24ore, un articolo, che mi ha destato estremo interesse, sull’economia della conoscenza, “L’Italia, un capitale di talenti sprecati”.
Il concetto di “Economia della Conoscenza”, introdotto negli anni ‘60 da Eritz Machlup e ripreso da Dominique Foray, indica una nuova fase di sviluppo in cui l’istruzione, la conoscenza scientifica, le risorse umane rappresentano fattori di crescita essenziali, ancor di più del capitale tangibile (strutture fisiche, macchinari, risorse naturali…).
Oggi, la competitività delle imprese si gioca sulla qualità del prodotto e del processo, sulla riduzione dei tempi di decisione, di produzione e di lancio di nuovi prodotti, sull’adozione di innovazioni nei processi produttivi di tipo tecnologico ed organizzativo.
Per questo, fondamentale è lo sviluppo di competenze e di professionalità della forza lavoro, dei quadri e dei dirigenti. Non solo quindi investimenti fissi, capitale ma soprattutto know-how e competenze distintive. I lavoratori con capacità di analisi e soluzione dei problemi sono più produttivi rispetto agli altri in tutte le mansioni che implicano attività più complesse della semplice routine. Accrescono la loro produttività e quella degli altri perché insegnano ai colleghi meno capaci, imparano dai più abili e sono pronti ad operare con nuovi strumenti e processi produttivi, consentendone una rapida adozione.
Nel confronto con altri paesi dell’OCSE, l’Italia si caratterizza per bassi livelli di capitale umano sia nello stock che negli investimenti. Nel 2004, la quota dei laureati, fra i 25 e i 34 anni, è pari all’15%, contro il 25% della media dei paesi dell’OCSE.
Altri dati (Banca d’Italia) dicono che in Italia il tasso di abbandono delle università è pari a circa il 60%, il doppio rispetto che negli altri paesi industrializzati.
Medesimo discorso vale per le Università e i centri di ricerca pubblica. I primi 10 atenei, secondo una recente classifica mondiale, si trovano negli Usa e in Gran Bretagna. L’Italia? La prima università è al 100° (La Sapienza). All’interno delle università, i docenti universitari italiani sono 92 mila di cui il 40% a contratto (ovvero ricercati malpagati che insegnano). Il 35% dei ricercatori ha più di 50 anni e con molta probabilità non avrà mai una cattedra.
Questa difficoltà italiana di competere si acuisce ancora di più nel confronto con l’India, con le sue elevate performance sulle tecnologie dell’ICT, la Corea, la Cina, che stanno investendo pesantemente parte del proprio PIL in Ricerca e Sviluppo. Una serie di evidenze davvero sconfortanti per noi giovani. Non solo numeri, ma lo specchio di quello a cui quotidianamente assistiamo nelle nostre università, nei centri di ricerca, nei posti di lavoro.
Il capitale umano, cosi importante, deve essere incentivato e selezionato su base ESCLUSIVAMENTE MERITOCRATICA, perché se è vero che c’è bisogno di menti preparate e formate, queste menti devono essere promosse ed aiutate, non certo mortificate da contratti precari, da sorpassi in ambito lavorativo e concorsualistico da parte di figli di papà o del politico di turno. E se il governo precedente non sembra aver brillato, anche l’attuale, dopo aver messo nel suo programma l’Università fra le principali priorità, si sta comportando come quelli precedenti: la legge non aiuta le nuove leve e il ricambio generazionale è troppo lento. La proposta di un semestre Erasmus obbligatorio, per laurearsi, sembra un’ idea coraggiosa, ma senza un programma organico e senza concreti finanziamenti, destinate a cadere nel vuoto.
Bisognerebbe valorizzare adeguatamente il merito, insieme ad una adeguata remunerazione degli investimenti in istruzione, speriamo che questo governo riesca a dare una svolta.

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