Significativamente Oltre

economia

2009 -> 2016 -> 2017: Un Ministero per lo Sviluppo Sostenibile e il PD diventi il Partito dei Progetti o non reggeremo la modernità

pd

di Massimo Preziuso

Si ha una strana sensazione quando si scopre di aver visto giusto negli anni ma di non essere stati ascoltati. E’ quello che ci capita in questi giorni in cui il nostro Belpaese soffre pesantemente, per ragioni di inefficacia ed inefficienza politica, l’adattamento ad un clima ormai drammaticamente e profondamente cambiato.

Ebbene, nel 2009 il nostro Comitato Green Economy and Society della Mozione Bersani presentò una proposta di istituzione del MISS – Ministero per lo Sviluppo Sostenibile che anticipasse e provasse a reagire ai forti problemi che il cambiamento climatico stava per portare ai nostri territori e al nostro sistema economico. Nessuno ci ascoltò e il Paese perse una occasione enorme di porsi da leader in un continente protagonista sul tema su questi temi di frontiera culturale, tecnologica ed economica.

Nel 2016 tornammo a scrivere al Partito Democratico e al Governo Renzi chiedendo una riflessione attenta sul tema ambientale e di sviluppo sostenibile del Paese (con la istituzione del solito MISS, per fusione tra Ministero dello Sviluppo Economico e quello dell’Ambiente) e sulla necessità di una nuova Forma Partito (di cui discutemmo nella apposita Commissione nazionale) che si incentrasse sui “Progetti per il Paese” (con la istituzione di un “Dipartimento Progetti” e della “Filiera Progettuale” proposta da Fabrizio Barca) per provare a riavvicinare la periferia del Paese al suo centro tramite idee e iniziative concrete. Ed evitare un ulteriore distacco elettorale a pochi mesi dalle amministrative che poi, come ipotizzato, si tradussero in una sconfitta netta.

E’ passato un altro anno da allora, in cui il PD ha pure perso il Referendum Costituzionale (a mio avviso anche per ragioni di organizzazione) e le ultime amministrative di quest’anno.

E, soprattutto, il Paese ha dimostrato a tutto il Mondo la propria fragilità geografica fino alla severa siccità delle ultime settimane, che andrà sicuramente a peggiorare ad Agosto.

E allora lo chiediamo per la terza volta:

si abbia il coraggio di porre il tema dello Sviluppo Sostenibile di un Paese così delicato al centro delle riforme governative. Il presidente Gentiloni dia il via al MISS – Ministero per lo Sviluppo Sostenibile, mettendo insieme  Sviluppo Economico e Ambiente per costruire il futuro del Paese . 

E il PD abbia la voglia di diventare finalmente il “Partito dei Progetti” utilizzando la naturale matrice delle competenze composta dai nuovi Dipartimenti (verticali) e la Segreteria (orizzontale) nazionali per sviluppare iniziative di cambiamento con il supporto di un forte luogo di elaborazione di proposte innovative diffuse nei territori. Il neonato gruppo “Italia 2020” (composto da Maria Elena Boschi, Sergio Chiamparino, Graziano Delrio, Michele Emiliano, Tommaso Nannicini, Andrea Orlando) che organizzerà la Conferenza Programmatica di Ottobre dovrebbe operare in questa direzione.

Speriamo che qualcosa accada presto o il Paese e il Partito Democratico non riusciranno a gestire la complessità di questa modernità che ci accelera contro.

 

Convegno 10 luglio, Talent Garden, Milano : Quale politica economica per l’Europa?

Europa XXI secolo e Tortuga sono liete di invitarvi all’incontro:

Quale politica economica per l’Europa?
10 luglio 2017 – 18:30-20* Talent Garden Calabiana Via Arcivescovo Calabiana 6, Milano

Programma
Presentazione di “Europe’s Political Spring: Fixing the Eurozone and Beyond” (a cura di Agnès Bénassy-Quéré e Francesco Giavazzi, con un capitolo di Guido Tabellini)

Introduzione a cura del Gruppo Tortuga

Ne discutono:  Francesco Giavazzi  Tommaso Nannicini  Guido Tabellini  Irene Tinagli

Modera:  Francesco Cancellato (Direttore Linkiesta)

* L’evento sarà l’occasione per presentare al pubblico l’associazione Europa XXI secolo. Trattandosi di una associazione non solo europeista ma anche europea, la discussione inizierà alle 18:30 in punto come da invito. Seguirà rinfresco.

La fine dell’Italia. Messico e nuvole.

di Alberto Forchielli, Mandarin Capital Partners

È come dice la famosa canzone: “Messico e nuvole, / la faccia triste dell’America / e il vento suona la sua armonica / che voglia di piangere ho…”

Ma non bisogna cedere allo sconforto, anche se non ci sono alternative, come ho detto a “Piazza Pulita” dello scorso 23 maggio. Tanti amici sui social si sono lamentati che i cinque minuti di intervista con il bravo Corrado Formigli sono troppo pochi. Ma datemi retta, per la mia poca pazienza è meglio un faccia a faccia di cinque minuti tra me e lui che due ore seduto accanto a un manipolo di politici “cioccapiatti” che si urlano in faccia le loro opinioni farneticanti.

Ribadisco quello che ho detto a Formigli sugli effetti della globalizzazione per il nostro Paese. Inevitabilmente in Italia avremo un grosso settore economico del tutto informale dove ritroveremo le filande con duemila emigrati che lavoreranno con l’imprenditore straniero. Ossia, l’Italia come il modello Messico. Da qui la famosa canzone “Messico e nuvole”.

Mi spiego. Nell’Italia del futuro ci sarà un settore moderno, fatto di eccellenze, come l’oleodinamica a Modena, le macchine impacchettatrici a Bologna, i vini della Franciacorta, eccetera, eccetera. Poi avremo una grossa area di “nero”, con grandi aziende al suo interno e con le forze dell’ordine che chiuderanno gli occhi per far sì che la gente non vada a delinquere. Infine ci sarà il terzo settore che sarà a fortissima criminalità. E l’unica possibilità che abbiamo dinanzi a questo scenario futuro sarà quello di cercare di tenere bilanciate queste tre macro-realtà. Il Messico di oggi funziona così. E questa, purtroppo, è l’Italia di domani. E non chiedetemi di essere ottimista.

Anche se questo quadro è a tinte fosche ed è inevitabile non dobbiamo però piangerci addosso. Dobbiamo invece cavalcarlo e cercare di bilanciarlo.

L’inevitabilità è legata al fatto che ormai non ce la facciamo più a tornare nel mondo che corre. Quello, per intenderci, dell’innovazione e dell’alto valore aggiunto. In questo ambito elitario si salva un pezzo di Germania. Si salvano i Paesi Scandinavi. Si salva l’Inghilterra perché è finanza. Si salvano in parte gli Stati Uniti d’America perché hanno questi grandi ecosistemi innovativi. Viene fuori l’Asia, anche sotto l’aspetto innovativo grazie a Singapore, Shenzhen e Pechino in Cina e al distretto indiano di Bangalore. La Francia non so se riuscirà a salvarsi ma il Sud Europa e i Balcani sono segnati perché non hanno più da tempo la capacità di innovare.

In sintesi, l’Europa è spaccata in due: il nord si salva e il sud affonda verso la Turchia. Con l’Italia che conterà qualche distretto d’eccellenza, isole felici, che però vivranno all’interno di parchi industriali controllati.

Mentre il governo fa quello che può, ma non può bastare, il problema Italia è più antropologico che politico. È come perdere una partita 7 a 0 e fare 2 gol a dieci minuti dalla fine. La partita è persa. Dobbiamo avere la consapevolezza che sopravvivremo soltanto se sapremo gestire questo enorme Paese a tre teste, tenendolo bilanciato. E l’ordine pubblico e la lotta alla criminalità grande e piccola, in tutto questo, avranno un ruolo fondamentale affinché l’Italia non venga travolta dalle diseguaglianze che la globalizzazione porterà sempre di più o divorata dalle mafie, perché la dittatura che veramente temo è quella del Capo Cosca. Il controllo del territorio è decisivo.

Quindi, in conclusione, dovremo tollerare e cavalcare un sistema informale dell’economia che diventerà sistemico e organizzato. Il mondo è disumano, gli interessi in ballo sono enormi, e noi siamo formiche. Insomma, Messico e nuvole. Con moltissime nuvole all’orizzonte.

Le mosse inevitabili del prossimo presidente USA

di Alberto Forchielli, Mandarin Capital Partners

I problemi degli Stati Uniti d’America sono noti e riassumibili con la frase chi vuole consumare non ha i soldi per farlo mentre chi è in cima alla piramide sociale non sa più cosa comprare. E la campagna elettorale, a colpi di slogan, ha lanciato soluzioni d’impatto, immaginando un’economia che funzioni per tutti – e non soltanto per l’1%della popolazione più ricca – e ipotizzando assistenza sanitaria universale, college e università pubblica gratis e che ricchi e corporation paghino la giusta parte di tasse. Per un Paese che ha un mercato del lavoro molto flessibile e che ormai ha perso definitivamente la sua celeberrima vocazione industriale.

Dopo il mio recente soggiorno a Washington, tra frequentazione del Congresso e di alcuni interessanti “think tank”, posso dire di non avere dubbi sul fatto che le questioni principali dell’agenda statunitense seguiranno l’orientamento populistico e isolazionistico che l’opinione pubblica americana auspica da qualche tempo e che indipendentemente da chi sarà il successore di Obama alla Casa Bianca, questo è ciò che non potrà non accadere.

Innanzitutto sgombriamo il campo da equivoci. Con il sistema bicamerale a stelle e strisce, la premessa da fare è che il vincitore non potrà cambiare radicalmente le leggi del Paese perché se anche il senato tornasse ad essere democratico, la camera rimarrà repubblicana e il nuovo presidente non potrà avere mano libera ma dovrà gestire comunque il consenso in modo bipartisan.

Detto ciò, un “must” in arrivo è la svalutazione del dollaro. Siccome aumentare le tariffe e costringere le aziende a ricollocare la produzione negli USA rappresentano, sia tecnicamente sia politicamente, soluzioni impraticabili, l’unica mossa che l’Amministrazione potrà fare per limitare il crescente aumento del deficit commerciale sarà svalutare la propria moneta. E poi, finalmente, si affronterà la questione delle infrastrutture, che dovranno essere ammodernate “per forza”. Esse difatti sono datate e il loro mancato ammodernamento costerà migliaia di miliardi di dollari all’economia statunitense in termini di calo della produzione. Per esempio, uno studio dell’American Society of Civil Engineers, rivela che il danno sul PIL sarà pari a 4mila miliardi di dollari fra il 2016 e il 2025 in termini di vendite e attività produttive perse. Per 2,5 milioni di posti di lavoro in meno. E secondo lo stesso rapporto, sarebbero necessari investimenti in infrastrutture per 3.320 miliardi di dollari. Così oggi la questione non è più rimandabile e ammodernare le infrastrutture, dopo averle trascurate per 50 anni, darà vigore all’economia USA, liberando investimenti e creando occupazione.

Per quanto concerne le questioni internazionali, si farà il “rammendo russo”. Nel senso che agli USA della crisi ucraina e del delicato rapporto tra Russia e Unione Europea interessa ben poco e quindi sarà più che plausibile un tentativo di riavviare da parte americana i rapporti economici con la Russia. Prevedo quindi una fine delle sanzioni abbastanza rapida.

Sempre sul fronte “esteri” vedo un paio di “disimpegni” in termini geo-politici-militari tanto importanti quanto inevitabili.

Il primo è verso l’Asia, con Washington che ha preso atto dell’esito fallimentare del progetto “Pivot to Asia” di Obama – frutto dell’egemonia americana dell’ultimo quarantennio come “poliziotto” del mondo – e perciò si rassegna a lasciare alla Cina il suo spazio vitale nel continente asiatico giocando solo di rimessa sostenendo Giappone, Filippine e Vietnam. Mentre, sul piano economico (precisamente su commercio e investimenti), con la Cina, al contrario di quanto speravano i Cinesi, non firmerà nessun accordo bilaterale sugli investimenti (al contrario di ciò che scioccamente si accinge a fare la EU) perché gli USA non intendono subire l’andata di investimento cinese cui è sottoposta l’Europa è certamente non daranno ai cinesi lo status di “economia di mercato” dopo che loro hanno disatteso tutte le regole del WTO (cosa che la Commissione EU pensava di fare prima di essere bocciata dall’euro-parlamento).

Il secondo “disimpegno” è nei confronti delle crisi mediorientali, che, semplicemente, lasceranno sbrigare alla UE. Gli Stati Uniti si sono resi conto che in Medio Oriente il problema è irrisolvibile. Con il risultato che noi europei ci troveremo sempre più soli e con meno appoggio militare. E la conseguenza? Riguarda proprio noi. Perché dovremo imparare a cavarcela da soli, anche e soprattutto militarmente. E non sarà facile.

Il voto 2.0 nell’era dei big data

 ANSA

Il buio androne della casa di Bruges del mercante fiammingo Van Der Burse, nella seconda metà del XV° secolo tenne a battesimo le prime contrattazioni finanziarie moderne e sopratutto cominciò a porsi la necessità di dare forma a una misura dei corsi finanziari. Qualche decennio dopo ad Anversa nacque la borsa moderna e fu elaborato il primo indice del trading.Ma la storia di un indicatore che desse una valutazione sintetica delle trattazioni economiche è molto più lunga. Per rimanere al mediterraneo ricordiamo il trapezita dell’antica Grecia e il curia mercatorum romano. Sempre all’origine di questi indici la necessità di misurare un nuovo linguaggio, un importante sistema di valori, che non aveva una propria codifica.

Il movimento del denaro, più della sua accumulazione, era il nuovo motore dell’economica. E bisognava dargli un sistema metrico. La stessa necessità emerge ogni volta che si afferma un sistema valoriale: il potere, il consenso, il calore, la velocità, la potenza, la luce, la gravità. E, ormai da vari anni, la creatività e la tecnologia. Il Nasdaq, il mercato dei titoli tecnologici, ha avuto la forza di staccarsi dall’Indice Dow Jonas di Wall Street proprio in virtù di una diversa natura qualitativa delle aziende che misura.

Ora si stanno mischiando le acque, e, a esempio, consenso, sapere, e comunicazione, convergendo, danno corpo a una nuova forma di relazione umana: la significanza di rete.

Si tratta di un indice che, a secondo di un diverso mix fra fattori e indicazioni di contatto e di attenzione in rete, mostra il peso, la rilevanza, l’influenza di un soggetto nella comunità on line proporzionalmente alla pervasività che la rete sta assumendo nella nostra vita, invadendone tutte le dimensioni- personali, economiche, famigliari, culturali, didattiche, politiche- i nostri click stanno diventando un alias della nostra identità.

Da tempo ormai a livello comunicazionale e commerciale, la pista che tracciamo con i nostri movimenti digitali, viene ripercorsa e scandagliata dai grandi sistemi di “profilazione”, che ci identificano, analizzano, e scompongono, in base alla metabolizzazione dei dati che è utile realizzare. Ma questo è solo un aspetto della nostra vita social. Sempre più la rete è quello che Stefano Rodotà, per rimanere in Italia, ha codificato come il nuovo spazio pubblico, come l’agorà dove la nostra vita sociale scorre e si manifesta. La rete è specchio delle nostre opinioni, dunque anche indice.

Forse il primo caso clamoroso dove la misurazione della presenza digitale dell’opinione pubblica coincise perfettamente con la manifestazione del consenso popolare furono le elezioni presidenziali americane del 2008, quelle che decretarono il trionfo dell’allora debuttante Barack Obama. Il grafico che vedete sotto, mostra il differenziale nelle presenze e significanze di rete fra i due contendenti- lo stesso Obama e il senatore repubblicano Mc Cain -il giorno prima del voto, 3 novembre. Il dato coincise impressionantemente con il voto popolare. Fu la certificazione che la rete è la vita.
Da allora molti voti sono passati nelle urne. E sempre più la forbice fra le due dimensioni -virtuale e reale- è oggi praticamente chiusa.

Se retroattivamente andiamo a misurare la significanza -ossia quel complesso indice che misura le dinamiche di rete in base a valori quali fiducia, prestigio, influenza, presenza e dinamismo -ci accorgiamo che praticamente nella sfera occidentale la rete registra e anticipa le urne, sempre. Nelle successive elezioni di medio termine americane e poi nelle presidenziali del 2012, e ancora in Europa in Francia e in Germania, i trend tendono ad assimilarsi.

Con la differenza che mentre sondaggi e risultati finali rimangono dati numerici assoluti ma non analitici, la rete si articola subito nelle diverse componenti dell’indice unitario, permettendo una comprensione del processo di formazione del dato.

L’Italia non fa eccezione. Tutt’altro. Da tempo seguo sulla comunità www.mediasenzamediatori.org le elaborazioni sulla significanza di rete che elabora Rocco Pellegrini sui principali personaggi politici italiani.

Ora dalla politica si passa ai fenomeni sociali: quanto contano i negozi di Roma? quanto pesano sul mercato globale i ristoranti di milano? le università italiane sono più o meno dinamiche di quelle spagnole? e i servizi di economy sharing tedeschi sono più usati di quelli inglesi?

Domande che determinano il nuovo valore aggiunto di un territorio, incrementando la così detta value placement di un brand geo referenziato.

Il big data ormai determina, costituisce e anticipa il trend socio economico di una città o di un intero paese. A questo punto la domanda è: può ancora rimanere una pratica esoterica da stregoni occulti? questi dati che ormai battono moneta possono ancora essere abbandonati alla discrezionalità di questo o quel software?

Veniamo alle prossime elezioni amministrative. I dati di rete sono impressionanti. A Roma Giacchetti non vale la metà della Meloni. A Napoli la Valente non riesce nemmeno a essere apprezzata dai sistemi digitali. A Milano la differenza fra Sala e Parisi è maggiore di quanto accreditato dai tradizionali sondaggi. Possiamo lasciare queste proiezioni a chi ci costruisce su proprie strategie professionali.
Il prestigioso istituto di rilevazioni Gallup, il padre di tutti i sondaggisti, da tempo ha chiuso la sua sezione delle rilevazioni statistiche, perchè ormai il mercato è invaso e superato dal big data.

È necessario che l’Authority delle comunicazioni si appropri di questa materia e la disciplini, rendendo intellegibili e trasparenti le elaborazioni e dando all’intero settore una rilevanza istituzionale. Il voto aumentato sta ormai contando non meno del voto reale. E la democrazia si deve organizzare.

La ripresa può partire dall’energia solare

Solar Energy
di Francesco Grillo su Il Corriere della Sera
Novantasei minuti. Il sole ci metterebbe poco più di un’ora e mezza per fornire al mondo tutta l’energia di cui ha bisogno in un anno, se solo avessimo inventato il modo per usarlo come fosse un’enorme batteria, accumulandone l’energia e utilizzandola quando serve.
Sfruttare, peraltro, anche solo una piccolissima frazione dell’energia della stella più vicina allontanerebbe, paradossalmente, i rischi del riscaldamento globale che l’accordo appena firmato a New York cerca di scongiurare.
Per quarant’anni, tuttavia, il sogno di accedere ad una fonte pulita, gratuita e presente dovunque, è rimasto un progetto del tutto marginale rispetto alla realtà di un apparato produttivo globale che continuava a divorare quantità crescenti di combustibile sottratto dalla pancia di una terra fragile.
Eppure, proprio mentre in Italia si litigava al referendum sulla durata di concessioni che potrebbero diventare presto inutili, sono stati pubblicati i più recenti rapporti dell’Agenzia Internazionale per l’Energia che certificano la svolta. L’energia solare ha superato un’adolescenza drogata dai sussidi ed è entrata in quella fase in cui una tecnologia compete alla pari con le proprie alternative sul mercato. Nel caso del fotovoltaico ciò può davvero trascinare il mondo in una nuova epoca rispetto a quella che fu dominata – sul piano economico e antropologico – dall’idea malthusiana di risorse finite e che, per due secoli, si sviluppò attorno al motore a scoppio. Ciò ha conseguenze assolutamente rivoluzionarie non solo sull’inquinamento e sulle politiche energetiche. Ma anche sugli equilibri di potere (tra Stati e tra classi) che commenteremo nei prossimi decenni; e può essere per l’Italia l’occasione sulla quale costruire un’idea di politica industriale che manca da vent’anni.
La ricerca del solare sta, in effetti, trovando i propri nuovi campioni nei Paesi di più recente sviluppo che sembrano aver capito che l’errore più grande che possono fare è quello di immaginare di industrializzarsi seguendo le stesse traiettorie che l’Occidente ha percorso dagli anni cinquanta. La Cina ne ha fatto priorità assoluta e, silenziosamente, ha conquistato il monopolio nella produzione dei pannelli; diversi paesi dell’Africa stanno saltando un intero pezzo
dello sviluppo tradizionale di fonti energetiche utilizzando quello che è un ovvio vantaggio naturale; mentre sono, paradossalmente nel Medio Oriente dei grandi produttori di petrolio, i Paesi (Israele ma anche la Giordania) che, per primi, potrebbero diventare liberi dai combustibili fossili.
A rendere possibile il miracolo sono tre fattori. La riduzione del costo dei pannelli determinato dall’accumularsi inesorabile di ricerche su nuovi materiali ed economie di scala che rendono la produzione fotovoltaica competitiva con quella delle centrali nucleari. Le griglie di distribuzione intelligente che assumono scale sempre più locali e consentono la trasmissione di energia in maniera bidirezionale e, in teoria, ad ogni famiglia di vendere l’energia in eccesso quando l’irradiazione supera il consumo. I progressi spettacolari delle batterie che possono superare il limite più grosso dell’energia solare che è quello di dover essere accumulata per distribuirne il consumo e che fanno dell’elettricità la prima fonte energetica davvero universale.
La Germania e l’Italia, divise su tanti fronti, hanno in comune il fatto che dopo aver investito prematuramente sulle rinnovabili, rischiano di perdere il treno proprio mentre sta partendo.
Paghiamo politiche che vanno riorientate dal sostegno dell’offerta attraverso incentivi, al cambiamento dei comportamenti individuali e alla riprogettazione di infrastrutture pensate per un mondo che sta scomparendo.
Le conseguenze della rivoluzione che il sole consente sono enormi: può invertire gli scenari che, secondo alcuni, ci porterebbero sott’acqua in pochi decenni; indebolire alcune delle dittature (dalla Russia all’Arabia Saudita) sulle quali si reggono equilibri precari; ma anche provocare l’obsolescenza di interi settori industriali con la perdita di milioni di posti di lavoro; e creare nuove dipendenze da materiali e risorse naturali assai rare.
Questa è una sfida anche di democrazia perché – come per Internet nella comunicazione – si va verso un modello nel quale ogni consumatore può diventare anche produttore di energia: ciò produce una riallocazione di potere che può produrre incidenti di percorso ed esiti non scontati.
È, però, solo reimparando ad anticipare il futuro che l’Europa può ricominciare ad avere senso e a crescere superando il deserto di idee nuove che nessuna iniezione di liquidità potrà mai rendere fertile.

Nella crisi la centralità dei piccoli comuni

roberto di Roberto Speranza su Europa Quotidiano

Servono crescita e utilizzo delle potenzialità di questi territori che consenta di superare una tendenza alla marginalità, un rischio vero di spopolamento e al tempo stesso assicuri un maggiore riequilibrio del territorio

«Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti». Lo scriveva più di mezzo secolo fa, un grande scrittore, un grande osservatore della realtà come fu Cesare Pavese. Lui stesso era nato in un piccolo borgo delle Langhe: ne conosceva virtù e grandezze, limiti e risorse. Da allora il mondo è cambiato.

Sono cambiate le dimensioni del vivere quotidiano, le possibilità di movimento e le dinamiche della produzione e della comunicazione. Ma il piccolo comune rimane una dimensione importante – direi fondante – del paese Italia, forse una delle principali caratteristiche della nostra struttura demografica e sociale. Italia: paese dei mille campanili, dei quasi 5700 comuni con meno di 5000 abitanti, dove vivono in totale oltre 10 milioni di persone.

È a loro che pensiamo quando diciamo che vogliamo “ristrutturare” il paese valorizzando le sue caratteristiche, potenziando territori e comunità per rispondere oggi alla crisi e domani ai cambiamenti che verranno.

Lo fa con intelligenza e coraggio la proposta di legge sulla valorizzazione dei piccoli comuni presentata dal Partito democratico, sotto la spinta promotrice del nostro deputato Ermete Realacci. È un’iniziativa condivisa con gli altri partiti della maggioranza e dell’opposizione perché aiutare territori e comunità non ha colore politico, è solo “buona politica”.

I piccoli centri rappresentano in moltissimi casi luoghi di eccellenza per la qualità dell’agroalimentare e della tecnologia moderna, accanto a realtà turistiche che il mondo ci invidia.

Per primi, i piccoli comuni hanno accolto la non più rinviabile necessità di ricorrere a fonti di energia rinnovabile e smaltimento intelligente dei rifiuti. Hanno fatto della creazione di prodotti eccellenti in tutti i settori un volano dell’export nazionale.

Per difendere la ricchezza – spesso nascosta – dei nostri borghi, dei nostri paesaggi, di gran parte del nostro paese, e allo stesso tempo rilanciare la qualità della vita delle comunità locali, occorre valorizzare il ruolo che anche le aree piccole e interne possono avere per immaginare un nuovo modello di sviluppo che contribuisca al superamento della crisi attuale.

Per ragionare su tutto questo, per dare respiro e carattere a una proposta di legge che vogliamo far crescere nel paese, abbiamo promosso un incontro con amministratori e esponenti dell’associazionismo e dell’economia che si terrà nella sala della Regina della camera dei deputati nella mattina di venerdì 10 ottobre.

Vogliamo una buona legge per aprire una nuova fase culturale, ma anche politica, di crescita e utilizzo delle potenzialità di questi territori che consenta di superare una tendenza alla marginalità, un rischio vero di spopolamento e al tempo stesso assicuri un maggiore riequilibrio del territorio. L’obiettivo è ambizioso: consentire a tutti, ovunque si viva, si lavori e si produca di concorrere alla modernizzazione dell’intero paese.

@robersperanza

Ecco perchè la patrimoniale è cosa giusta ed eticamente corretta

patrimonialedi Arnaldo De Porti 

Non è necessario far ricorso a teorie economiche keynesiane o a patti faustiani per capire ciò che dette teorie e patti non riescono a far capire ai comuni mortali,  anche perché queste ultime, anziché farci capire,  portano fuori strada: mi riferisco specificatamente alla  precaria situazione economico-finanziaria che l’Italia sta vivendo.

Partiamo subito dalla considerazione che, in quest’ultimo decennio, in Italia c’è stato uno sbilanciamento enorme della ricchezza a danno dei percettori di reddito fisso a tutto vantaggio di pochi che hanno approfittato delle prime contrattazioni con la nuova moneta, e cioè l’euro, praticando una parità doppia rispetto alle vecchie gloriose mille lire: 1 euro uguale 1000 lire, invece di 2000, cosa ormai nota, trita e ritrita di cui sono a conoscenza anche i sassi.

In questo breve volgere di tempo dalla venuta dell’Euro i commercianti, le industrie e quant’altro (senza voler fare di ogni erba un fascio, dato che i commercianti virtuosi hanno avuto solo la colpa di doversi adeguare per non fallire) hanno intascato il doppio rispetto a quanto valeva prima la lira, mentre i titolari di reddito fisso, sono stati costretti a comperare la metà dei prodotti a causa del dimezzamento illegittimo del potere di acquisto determinato da chi, in posizione di dominanza, ha potuto approfittarne, arricchendo indebitamente i loro portafogli.

Detto questo, non è necessario essere dei soloni della finanza, per capire che c’è stato uno spostamento della ricchezza a favore di pochi ed a danno di molti, circostanza che, in assenza, anzi in presenza di una politica oscena fatta da politici altrettanto osceni (ferme restando le eccezioni), ha determinato questo ingiusto sbilanciamento che sta sfociando, Monti o non Monti, Bersani o non Bersani) in una forte conflittualità civile che, a mio avviso, non tenderà a rallentare nemmeno durante l’inizio di azioni volte a concretizzare un avvio verso il risanamento, come si prefiggono i potenziali vincitori delle prossime elezioni politiche.

Detto questo, le colpe risultano evidenti. E, di conseguenza, chi è colpevole deve pagare. Anche perché oltre ad esserci dei colpevoli, ci sono anche dei disonesti profittatori che hanno portato all’estero, nei paradisi fiscali,  le ricchezze accumulate indebitamente. A danno delle fasce deboli.

Se non mi sono spiegato, ciò sta a significare che dobbiamo andare tutti a SQUOLA, con la q. Compresi certi economisti che abbiamo.

Economia sociale di mercato? A Bagnoli si potrebbe

                                                                                                                   

di Osvaldo Cammarota* per Repubblica Napoli – pubblicato il 12/12/2012 

Nella contraddizione tra fabbisogno abitativo -stimato a Napoli in almeno 100.000 unità-, aree da riqualificare e crisi del settore edilizio, vanno ricercate soluzioni innovative in grado di far ripartire l’economia, non solo del settore.

 La formula è l’economia sociale di mercato, indicata di recente anche da Mario Monti. Si è ormai compreso che i grandi investitori preferiscono speculare sui debiti degli Stati piuttosto che affrontare il rischio di intraprendere. Ma che ne sarà delle imprese, dei lavoratori e delle persone che hanno bisogno di beni e servizi? Come valorizzare queste energie sociali?

Nel corso del 2012, abbiamo assistito all’aggravarsi di una crisi che, nel settore immobiliare e delle costruzioni, sta producendo situazioni drammatiche. La stretta creditizia fa registrare un forte calo delle compravendite. Assistiamo, quotidianamente, alla chiusura o al fallimento di imprese di costruzioni soffocate dalla mancanza di appalti e dalla crisi della finanza pubblica. Sono segni evidenti che le strade tradizionali non sono percorribili. E’ una crisi di sistema, di non breve durata.

 Ma come si declina, nel concreto, la formula del’economia sociale di mercato?

Il 14 dicembre il movimento cooperativo presenterà una proposta che, seppur riferita alla complessa opportunità offerta con la vendita dei suoli ex Italsider di Bagnoli, costituisce una traccia di lavoro di più ampio significato e valenza. L’obiettivo è di corrispondere alla domanda di beni e servizi con un’offerta, sostenibile per la produzione e compatibile con i vincoli e le condizioni date.

Il progetto radica profondamente nei principi e nella cultura imprenditoriale cooperativa, ma fa i conti con il mercato, cioè con i costi, del suolo e della produzione, e le effettive capacità finanziarie di chi esprime il fabbisogno abitativo. Ci sembra un modo per dare senso e concretezza alla formula dell’economia sociale di mercato. 

I quesiti su cui sono stati invitati a confrontarsi istituzioni, parti sociali e cittadini, riguardano l’effettiva possibilità di praticare questa formula nel contesto locale. Le imprese sono in grado di produrre a prezzo di costo e di contenere in un giusto equilibrio il profitto monetario? I cittadini avranno la forza e il coraggio di investire per soddisfare i propri bisogni primari? Le Banche sosterranno questo sforzo? Le istituzioni di governo daranno le necessarie garanzie sull’affidabilità di tempi e procedure?

L’ottimismo della volontà porta a credere che siano possibili risposte positive. Ben si conoscono i motivi di un comprensibile pessimismo della ragione, ma quali potrebbero essere le alternative? Se ci sono abbiamo fiducia che si esprimano nel confronto. 

Continuiamo ostinatamente a ritenere che l’impresa sociale e di mercato sia possibile. L’ingrediente critico di successo è il bene immateriale della fiducia. Per questo, a moderare il confronto, è stato chiamato il Presidente della Banca Risorse Immateriali (Francesco Saverio Coppola).

Ci auguriamo che il dibattito registri alti livelli di consapevolezza e responsabilità.

 * Coordinatore della Banca Risorse Immateriali e Innovatori Europei Campania

 

 

R-innovamenti montiani a Ferragosto?

 di Massimo Preziuso su L’Unità

Mentre gli italiani hanno provato a godersi il 15 di Agosto più duro dal dopoguerra – alcuni sotto gli ombrelloni, molti tra le mura domestiche – tante cose accadono in questo caldo mese in Italia.

Sembrava che tutto dovesse implodere, attorno alle parole di Mario Draghi dopo il Board della BCE, invece qualche barlume di speranza inizia ad apparire alla nostra vista.

Un dato su tutti: i famosi e ormai noiosi “spread” viaggiano lentamente ma in discesa con il differenziale tra BTP e Bund decennali verso la soglia dei 400 (oggi a 420) punti base. Sembra dunque che la BCE stia intervenendo in nostro sostegno e che i nostri titoli di stato siano giudicati ora meno a rischio di qualche settimana fa.

Secondo molti analisti, con spread tra i 300 e 400 punti base il debito pubblico italiano (che ancora continua a crescere vero i 2000 miliardi di euro!) ritorna a vivere sonni leggermente più tranquilli (a quei valori ad esempio l’Italia potrebbe dire un secco no all’adesione “controllata” al cosiddetto scudo anti-spread) per qualche mese.

Probabile che a quella soglia ci arriveremo entro il mese di Agosto e allora al Governo Monti sarà offerta l’ultima chance per completare questa esperienza di Governo tecnico con un giudizio complessivo positivo.

L’occasione consisterà nella possibilità di affrontare (senza scuse) lo spinoso e finora (ad esso) sconosciuto tema della crescita economica (ovvero di come si possa fermare quello che sembra un inesorabile declino dell’economia italiana, tra de-industrializzazioni e perdita di competitività nei settori tradizionali, assenza di investimenti privati e finanziamenti bancari, licenziamenti di massa nel pubblico e nel privato, assoluta inesistenza di politiche per la ricerca e l’innovazione, drammi ambientali nella grande industria).

Proprio oggi – sarà un caso forse – Monti ha parlato della volontà di alleggerire le aliquote IRPEF entro ottobre. Sarà vero? Speriamo. Lo potrà fare con le risorse liberate da un minore pagamento di interessi? Lo vedremo.

E’ chiaro comunque che al punto in cui siamo arrivati – ”messa in sicurezza” la finanza pubblica attraverso tassazione sui ceti medio-bassi, avviato un percorso (si spera selettivo) di tagli alla spesa pubblica che rischia di dare una ulteriore spinta recessiva,  fatte alcune riforme sul tema del lavoro e delle pensioni che rischiano di aumentare ulteriormente la precarietà e la disoccupazione – solo con il riavvio dei consumi (attraverso de-tassazione e crescita economica) si può frenare questa tremenda emorragia (si parla ormai di una tendenza naturale verso un PIL 2012 al -3%, che va anche oltre le previsioni di inizio anno dei cosiddetti “pessimisti”).

Sembra anche chiaro che il tema delle dis-missioni (svendite) di patrimonio (immobiliare e mobiliare) pubblico, così come impostato dal Ministro Grilli, oggi non abbia alcun senso: si tratterebbe di alleggerire ulteriormente l’ossatura economica-patrimoniale-industriale del Paese.

Hanno senso semmai iniziative che facciano “leva” sul patrimonio pubblico per alleggerire lo stock di debito pubblico e liberare così risorse da destinare a “cantieri per la crescita”.

Si parla da più parti della costituzioni di fondi immobiliari pubblici quotati che possano poi emettere debito “di qualità” da utilizzare come sopra. Quella sarebbe una buona strada. Ancora migliore se a tali fondi (finanziari) si associasse una attività reale (economica) che potesse agire da volano per il rilancio dei consumi sui territori.

Come Innovatori Europei, nei primi mesi del Governo Monti, insieme al gruppo SOS Rinnovabili  – con la partecipazione di molti cittadini – scrivemmo un “Manifesto per le Rinnovabili“, che proponeva anche la nascita di tali fondi immobiliari (potenzialmente replicabili a livello regionale) che “efficentassero – valorizzassero immobili pubblici” attraverso la leva della “ristrutturazione energetica” (efficientamento energetico, produzione energetica da fonti rinnovabili) ma anche ”edilizia” per una loro successiva quotazione ed emissione di obbligazioni “pregiate”.

Questo per fare un esempio, ma già solo la riduzione delle aliquote IRPEF e la nascita di questi “fondi immobiliari – energetici” darebbe il segno del cambio di passo del governo dei Professori e porterebbe seri e tangibili segnali di ripresa nel breve periodo. E’ proprio di azioni come queste che il Paese aveva bisogno l’anno scorso per evitare questa recessione a “doppia V” e di cui oggi ha ancora bisogno per evitare una lunga “depressione economica”.

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