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economia

Sabato 9 Aprile in piazza in tutta Italia contro il Precariato

Mentre la benzina vola verso i 1,6 Euro a litro, il Parlamento lavora giorno e notte attorno ai problemi giudiziari del Premier, la crisi libica e del mediterraneo diventano un mero problema di gestione “alla meglio” di flussi migratori, non esiste  alcuna azione di politica economica ed industriale in corso e, nel contempo, gran parte delle ultime due generazioni di italiani vivono in assenza assoluta di certezze…

…domani, 9 Aprile, è proprio il caso che scendiamo in piazza in tutta Italia contro il Precariato.

Massimo Preziuso

E adesso l’Italia agli ingegneri!

 di Massimo Preziuso (pubblicato su Lo Spazio della Politica)

Da giovane ingegnere mi è tornata alla mente una cosa che penso da tempo. Ovvero che, da quando in questo Paese il ruolo degli ingegneri è diventato sempre più marginale nelle imprese pubbliche e private, ma più in generale nella società, il Paese è pian piano diventato incapace di programmare ed attuare progetti ed investimenti di medio – lungo periodo. In questo senso, il caso della repentina e brusca approvazione da parte del governo del Decreto Rinnovabili è di scuola.

Qui si è visto all’opera l’approccio di una classe dirigente culturalmente indifferente alla programmazione, che non capisce che lo sviluppo di un Paese è semplicemente frutto del completamento di un insieme variegato di progetti e programmi possibilmente basati su tecnologie innovative, e che la realizzazione di questi richiede fondamentalmente il poter operare in scenari regolamentari il più possibile certi. Con la approvazione di un Decreto che vuole sostanzialmente annientare l’unica industria in crescita, in maniera anti ciclica, nel nostro paese – quella delle rinnovabili – risulta così ancora di più evidente l’assenza di un approccio manageriale – sistemico (proprio della cultura ingegneristica) allo sviluppo del Paese. Ed è per questo che l’Italia dei talenti imprenditoriali degli ingegneri Olivetti e Mattei è ormai un luogo lontano.

L’assenza dell’ingegnere dalla scena pubblica e privata comincia dalle Università. Basti guardare l’andamento delle iscrizioni negli ultimi venti anni: i giovani – assecondando i messaggi di una società che diceva loro che quel che conta davvero sono le cosiddette “soft skills” e non quelle “hard” – hanno pian piano abbandonato gli studi ingegneristici e si sono diretti verso le facoltà umanistiche (o al massimo ad Economia e Commercio).

Continua nel mondo delle imprese, oggi governate principalmente da professionisti con profili giuridici – economici, che portano con sé nella gestione societaria una logica manageriale di tipo amministrativo e burocratico, proprio oggi che una società complessa, sempre più basata su paradigmi tecnologici di breve durata e rapidissima intensità di crescita, dovrebbe svilupparsi attorno alle competenze tecniche e alla “cultura di progetto”, che un ingegnere più di tutti detiene, per formazione e forma-mentis.

Infine è presente nella politica. Mentre in Cina il potere politico è gestito da ingegneri (tra gli altri, Premier e Vice Premier lo sono) – e forse anche grazie a ciò quell’enorme e complesso Paese è riuscito a pianificare con un programma pluridecennale la crescita di quella che a breve diventerà la prima potenza economica del pianeta – in Italia esso è principalmente gestito da personalità di formazione giuridico – umanistica (il Premier è laureato in legge, il nostro Ministro dell’economia è un commercialista, il Ministro dello Sviluppo Economico ha la licenza liceale).

E’ per tutto questo che auspico a noi tutti che “l’Italia torni agli ingegneri e presto”, pena la fine di questo Paese.

Nota: L’articolo è chiaramente provocatorio, ma vuole mettere in risalto un fatto concreto: l’assenza dalla scena di quelle professionalità di formazione scientifica – che l’ingegnere rappresenta – che potrebbero invece far decollare il Sistema Italia.

L’alfabeto critico – Si comincia a parlare di uscita dalla crisi mondiale. Come ne usciamo?

crisi

di Enzo Tripaldi

“V”, “W”, “L”, “U” non sono semplici lettere maiuscole.

Per economisti e soci sono anche il modo sintetico e facilmente intellegibile per rappresentare quell’uscita dalla crisi che in molti ritengono vicina, già a partire dal primo semestre del 2010.

La “V” prefigura una uscita rapida e sostanzialmente indolore, ad una fase discendente segue una risalita di pari entità; la “U” è una sua variante, laddove la ripresa è preceduta da una fase di stanca (la gobba della lettera) per poi risalire. La “L” rappresenta l’evento come un crollo verticale che poi si arresta a livelli notevolmente inferiori a quelli di partenza, mentre la “W” descrive una ripresa effimera seguita da una nuova rapida caduta e successiva ripresa.

E’ evidente che questi scenari sono una semplificazione estrema, in quanto non rendono appieno il senso delle macerie e delle cicatrici che la recessione lascia alle sue spalle, così come la risalita, sia essa in termini di PIL, di ordinativi, di produzioni industriale prima di esplicare tutti i suoi benefici sull’occupazione abbisogna di molto tempo. Se tuttavia i numeri possono dare una prova del miglioramento delle condizioni macro – economiche, questi non sempre raccontano di quali zavorre e quali problemi ci si troverà ad affrontare e a gestire, seppure in una fase di crescita.

Senza contare che l’Italia, in genere, sperimenta gli effetti, siano essi negativi o positivi, con non meno di tre / sei mesi di ritardo dal contesto mondiale.

Sul fatto che questa crisi non sia a forma di “V” concordano quasi tutti. L’idea e la speranza di un immediato ritorno alle condizioni pre – crisi non sembra essere nelle realtà delle cose.

I più ottimisti prefigurano un possibile modello a “U” ovverosia a loro giudizio stiamo entrando in una fase di crescita bassa (o di stasi) cui (dicono nel 2010) dovrebbe seguire la ripresa.

Non sono però pochi a temere la “W”, che ha due picchi negativi fra una ripresa.

Nel mondo infatti, in primis negli USA, molto meno da noi, è stata scaraventata una montagna di liquidità. I “regolatori” fra non molto dovranno decidere se alzare i tassi di interesse (ora ai minimi termini) o gestire spinte inflazionistiche in altro modo. E qui qualcuno immagina una contrazione seppure non dell’entità della prima.

La lettera “L” è quella più temuta dagli addetti ai lavori e, per alcuni, possibile in qualche Paese o area geo – economica: in questo caso non vi sarebbe alcuna ripresa, ma una pericolosa stabilità, una stagnazione ad una livello assai inferiore a quello di partenza.

Sin qui siamo all’accademia o quasi, la quasi accademia se gli analisti questa volta ci prendono, nel concreto le sfumature sono molteplici ed in alcuni casi apparentemente sorprendenti.

I numeri migliorano ma la disoccupazione sale. Normale, assolutamente normale.

In piena buriana c’è chi chiude e chi no.

Chi chiude lascia sul lastrico i lavoratori che al più potranno in Italia essere “coperti” dal sistema degli ammortizzatori, prevalentemente in deroga. I cosiddetti precari dovranno arrangiarsi.

Chi tiene, chi resiste riesce a farlo anche stipulando un patto con i dipendenti (straordinario, differenti turnazioni, ecc.), riducendo i costi operativi (internalizzando alcune attività) e, in generale, aumentando la produttività (più prodotti in meno tempo o a costi inferiori). Le loro risorse umane non aumentano, salvo eccezioni.

All’uscita della crisi le imprese che hanno tenuto, in teoria potrebbero riassorbire parte della forza lavoro inoccupata, ma è ragionevole che non lo facciano a breve.

Avendo gestito la crisi con un miglioramento delle performance, con la riduzione dei costi, hanno acquisito un forte vantaggio competitivo che difficilmente saranno disposte a rivedere.

La situazione migliora quindi ma la forza lavoro espulsa sarà ancora fuori dal circuito produttivo.

Ecco che, al di là dei numeri, degli indici di borsa sarà estremamente delicato gestire oltre che l’uscita (e in merito alla cosiddetta “exit – strategy” assistiamo al solito coro polifonico delle “mille ricette”) altresì la fase della crescita.

Solo recentemente pare si stiano definendo delle azioni incisive a livello planetario, nel frattempo si è cercato di parare i colpi, che saranno regolarmente scontati più avanti (leggi colossale indebitamento pubblico, soprattutto americano), mediante politiche puramente espansive o con proposte populiste del tipo il tetto ai supermanager, visto che il problema (al di là di un aspetto etico) non parte da lì.

Lo dice un Nobel, Joseph Stiglitz: “…..in America….non abbiamo varato le regole necessarie per garantire una maggiore protezione del denaro dei risparmiatori degli investitori” ed ancora “……Siamo in una situazione di maggior pericolo rispetto all’autunno 2008, perché il crollo di una delle banche troppo banche per fallire innescherebbe un terremoto di maggiori dimensioni”. (da La Stampa on line del 14.09.2009).

Il fatto che il Nobel parli degli USA non deve rassicurarci più di tanto, va altresì detto che tale dichiarazione ha preceduto il vertice G20 a Pittsburgh.

L’Italia dal canto suo, ma non è la sola, non ha messo in campo una sola misura strutturale (le chiamano riforme) che servono a rendere meno ingessato il sistema ed a creare le condizioni perché un Paese non debba svenarsi in caso di difficoltà. E dire che l’alto livello di pubblico indebitamento (e Marchionne intanto chiede di allungare i termini per la fine degli incentivi) avrebbe dovuto indurre il legislatore a pigiare sul tasto delle riforme, dato che risorse fresche ve ne sono pochine (si attendono quelle del discusso scudo fiscale) e questo spiega una certa ritrosia di via Venti Settembre nel concedere danari, anche laddove questi erano già destinati a qualcuno (vedi FAS).

Salvo repentini cambi di rotta, non ci pare che le regole globali siano state sensibilmente modificate, qualche sforbiciatina qua e là, qualche dichiarazione solenne, ma in concreto…..?

Quanti bilioni di dollari in sub – prime sono ancora in giro?

E gli ultimi aspetti non sono marginali, gli eventi di crisi non dovrebbero cogliere impreparati il sistema economico – finanziario ed i governi nazionali, se il primo non cambia (e d’altra parte dovrebbe auto – riformarsi) il cambiamento dovrebbe passare dai governi.
Invece, oltre a evitare un collasso strutturale con misure tampone, ci sembra si sia atteso che la febbre passasse da sola, affidandosi magari alla crescita tumultuosa di quelle economie emergenti Cina, India, Brasile ed altre, che si dolgono quando il PIL cresce meno del 5% (!), fornendo tuttavia la prova che non esiste una globalizzazione buona o cattiva, ci sono aspetti critici da gestire ma anche opportunità e vantaggi che forse l’occidente coglie senza grandi meriti.

Senza contare che i dati consuntivi sono negativi, gli ottimisti si basano su dati di previsione che, in quanto previsionali, potranno o meno essere confermati dai fatti, visto che analisti ed economisti, dicono alcuni, non ne capiscono granché.

Parentesi.

Tremonti di recente ha ingaggiato un corpo a corpo con gli istituti di credito ed allora così, quasi per gioco, siamo andati a curiosare sul sito della Banca d’Italia.

Ci ha colpito quanto scritto alla voce “vigilanza”.

Qualche perplessità tuttavia sorge quando il cittadino verifica che il capitale della stessa pari ad € 156.000 (solo?) è detenuto da banche ed assicurazioni. Uniche eccezioni INAIL ed INPS che assieme hanno diritto a 42 voti su 539, pesano quindi per l’8% circa.

Ed il Tesoro, visto che trattasi di un Istituto di diritto pubblico? Mah….forse siamo noi a non capire, ma non c’è il rischio di sovrapposizione fra vigilante e vigilato? Tutto normale? E se invece di lanciare strali erga omnes si cominciasse ad “entrare” nella banca delle banche (e non d’Italia)?

Chiusa parentesi.

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