Innovatori Europei

Significativamente Oltre

E’ nato il progetto di Area Vasta Smart dell’Ente Provincia di Frosinone – Presidente Giuseppina Bonaviri

Il progetto di Area Vasta Smart dell’Ente Provincia di Frosinone -Tavolo provinciale Patto di solidarietà sociale- nasce con l’intento di pianificare sviluppo ed innovazione per  il miglioramento di un processo di coesione sociale aperto ai nostri territori.

La costruzione di una Reale Rete integrata nella direzione della sostenibilità complessiva delle funzioni di Area Vasta  sovracomunale nata con protocolli di intesa attivati tra amministrazioni comunali e soggetti interessati alla cooperazione interterritoriale avvia un processo unitario di Linee Guida condivise quale accesso sinergico  intra-istituzionale e promuove sperimentazione congiunta con approcci equi tra centro e periferia  sia nel campo della Smart Region and City che della Smart Nation e Smart Specialisation, per il miglioramento della governance locale.

In sintonia con il mandato europeo sosteniamo da tempo che le diversità non sono un deterrente ma aiutano lo sviluppo delle menti e delle idee. Ecco allora che la Campagna di sensibilizzazione “ Diamoci la mano” che ci vede impegnate-i già dal  2014 nel territorio ciociaro quest’anno porterà avanti, nella macro area regionale ed oltre, un percorso di innovazione e modernizzazione grazie al coinvolgimento degli amministratori, delle scuole, della cittadinanza tutta. In occasione della giornata della donna o meglio del mese dedicato alle donne, la Campagna diviene l’occasione centrale per ribadire quali gli obiettivi che Governo ed Enti locali devono svolgere per la prevenzione della violenza, la protezione delle vittime e della violenza fisica-sessuale-psicologica, di vittimizzazione nell’infanzia, di molestie sessuali e stalking, di abusi subiti via internet, per la promozione delle pari opportunità e come la partecipazione attiva ne determini il cambiamento.

Gli obiettivi enunciati nella Convenzione di Istanbul e nelle conferenze intra governative europee trovano riscontro nella sostanza solo se a partire dalle periferie italiane: ciò sta avvenendo nel nostro entroterra grazie al ferreo impegno promulgato in questo anno dalle-gli innumerevoli interpreti che hanno garantito alla nostra iniziativa provinciale di qualificarsi quale promotrice di buona pratica sopra i personalismi di progettualità anacronistiche.

Il mese di marzo sarà, per tutte-i noi, ricco di iniziative. La Campagna 2015 decollerà il 4 marzo presso l’atrio dell’Ente Provincia con una apertura artistica simbolica e, con scadenze periodiche, ci porterà a toccare le tante amministrazioni comunali ciociare che hanno aderito al Protocollo di intesa in sintonia con un percorso condiviso con le scuole primarie e secondarie. Prenderà il via, così, una maratona ricca di riflessioni a più voci e mirata alle criticità anche in materia di parità di genere. Si toccheranno temi quali l’uguaglianza nel lavoro, l’esigenza di conciliare lavoro, salari e famiglia e ancora dalla presenza delle donne nelle posizioni decisionali, della salute e dei diritti riproduttivi delle stesse nonché dalla carenza attuale di strutture scientifiche adeguate ad accogliere le enormi sfaccettature del mondo femminile e, innanzitutto, delle famiglie.

Dunque, attivando la costruzione di una reale “Rete delle Reti Integrata” tra società civile, amministrazioni ed istituzioni, movimenti e realtà coinvolte oltre il livello intra territoriale abbiamo  segnato il passo di una evoluzione, meglio dire di quella svolta emancipativa del nostro entroterra che ricade con i suoi benefici sull’intera comunità.

Sarà l’occasione per riconfermare ancora una volta che la battaglia contro l’indifferenza e l’intolleranza riconsegna a tutto il genere umano diritti ed equità.

 

La rivoluzione della scuole in quattro mosse

di Francesco Grillo

La riforma sulla quale il Presidente del Consiglio ha deciso – dopo l’approvazione di quella del mercato del lavoro – di puntare sarà non solo “una riorganizzazione amministrativa” della Scuola, ma molto di più: la costruzione attraverso una riforma permanente e condivisa del nostro sistema educativo dell’idea “di cosa la Società italiana vuole essere tra trent’anni”. È’ un’intuizione da leader che scommette di poter durare per decenni quella che Matteo Renzi affida al Ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, che in settimana porterà al Consiglio dei Ministri un disegno di legge e un decreto legge che devono quadrare un cerchio fatto di emergenze immediate e visioni di medio termine. E degli interessi, spesso divergenti, di otto milioni di alunni e un milione di insegnanti.

Ma quali sono i nodi da sciogliere per poter dare sostanza – possibilmente non tra trent’anni ma entro l’inizio del prossimo anno scolastico – ad un progetto così ambizioso?  Sono quattro le questioni sulle quali occorre una scelta: quella della risorse, della percentuale ottimale di prodotto interno lordo che un Paese deve oggi spendere in educazione; il ruolo che la Scuola pubblica deve avere in un progetto di ricostruzione di una comunità nazionale; l’autonomia, i meccanismi di valutazione e le conseguenze – non ovvie – che esse dovrebbero avere sulle carriere degli individui e la ridistribuzione delle risorse tra gli istituti; e, infine, siccome la realizzazione delle intuizioni passa attraverso la gestione faticosa delle emergenze, non ci si può non preparare all’impatto sul disegno complessivo, dell’ipotesi di dover aumentare in un solo colpo di un terzo gli organici per fare posto a circa duecentomila precari.

Sulla questione prettamente economica i numeri non lasciano dubbi. Un’analisi dell’OECD arriva a stimare gli effetti di una riforma della scuola che raggiunga l’obiettivo di migliorare (anche solo del cinque per cento) i risultati raggiunti dagli studenti quindicenni nei test che ne misurano le competenze: in un Paese come l’Italia il PIL – a riforma e ricambi generazionali completati – si collocherebbe in maniera stabile su una curva più elevata del 3 per cento rispetto ad uno scenario inerziale. Investire in educazione è uno degli investimenti a maggiore ritorno e lo stesso Ministro dell’Economia (che conosce bene le analisi dell’OECD per esserne stato il vice segretario generale)  non dovrebbe aver dubbi ad avviare un processo di revisione della spesa che, in maniera finalmente intelligente, sposti risorse da utilizzazioni tecnicamente improduttive (attualmente l’Italia spende in pensioni quasi quattro volte di più di quanto investe dagli asili alle università) ad altre che aumentino il tasso di crescita potenziale. Peraltro, l’investimento pubblico può e deve – attraverso la creazione di aspettative – attrarre investimenti privati: in termini di adozione di strutture scolastiche in difficoltà (come potrebbero i contribuenti destinandovi il cinque per mille), ma anche di tempo da parte di chi (succede negli Stati Uniti su larga scala con il programma TFA replicato in molti Paesi del mondo) mette a disposizione mesi della propria vita per tornare – dopo uno specifico addestramento – in classe da insegnante.

È minato, invece, da scontri ideologici antichi, il terreno della definizione del ruolo della Scuola pubblica e, in particolare, quello della possibilità che lo Stato finanzi – direttamente o attraverso voucher affidati alle famiglie – scuole private. È evidente che la visione – evocata dal Presidente del Consiglio – di fare della Scuola, la piattaforma che ridia all’Italia un’idea di se stessa, richiede una Scuola pubblica. Non è quella di Matteo Renzi una visione nuova e può, anzi, apparire singolare che essa venga dal leader più post ideologico in circolazione: la Scuola pubblica è stata la leva che – insieme e prima ancora della televisione e delle trincee della prima guerra mondiale – fece l’Italia ed è questo il ruolo che le fu affidato dai liberali della Destra storica all’inizio della storia unitaria e, poi, da Giovanni Gentile e dallo stesso Gramsci. Nel 2015 la Scuola pubblica, però, non è quella ottocentesca dello “Stato che educa”; può diventare, invece, una piattaforma che integra culture diverse, ragazzi normali con quelli in difficoltà. Se è così, va bene che ci siano voucher da spendere per attività che integrino il curriculum della scuola pubblica, ma è la scuola pubblica a rimanere collante dei pezzi nei quali le società si stanno disintegrando e la proposta del governo sembra collocarsi su un piano diverso da un modello anglosassone nel quale ad ogni tipologia di quartiere corrisponde una tipologia di scuola.

Se, però, la riforma non è solo questione amministrativa, di certo le visioni sopravvivono solo se c’è qualcuno che risolve anche i problemi organizzativi. Il Ministro Giannini è portatrice di un’idea meritocratica e che molto si affida alla valutazione e a carriere che siano condizionate dai risultati. In effetti – come già mi è capitato di notare – lo strumento valutativo già esiste e su di esso lo Stato già spende 8 milioni di euro all’anno (coinvolgendo nelle prove 3 milioni di studenti): ciò che continua a non essere accettabile agli studenti e alle famiglie che devono scegliere, è che non siano disponibili – come succede in Inghilterra – i risultati dell’INVALSI per singola scuola. La trasparenza dei dati e la scelta da parte del pubblico produrrebbe, da sola, una forte spinta verso la competizione e l’emulazione. Più complessa è, invece, la questione delle conseguenze dei risultati sulle carriere individuali e sulla distribuzione delle risorse tra scuole. Entrambi i punti rimandano a crescenti doti di autonomia dei dirigenti scolastici anche sul piano della mobilità degli insegnati. In un mondo in cui gli insegnanti sono tutti abilitati attraverso un concorso e i dirigenti ricevono un premio di produttività legato alla prestazione della propria scuola, una parte dello stipendio dei professori più bravi è legato ad un premio che il preside assegna per tenersi i migliori e gli insegnanti meno capaci sono incoraggiati a migliorare dal fatto che ricevono meno richieste. La sfida vera sarebbe, però, ancora un’altra: creare i sistemi in grado di trasferire i modelli organizzativi e le competenze gestionali da parte delle scuole che ottengono i risultati migliori alle altre.

E, tuttavia, l’intero progetto è chiamato a rispondere ad un’emergenza creata da decenni di cattiva gestione (da parte di Ministri troppo impegnati a fare riforme mai portate a compimento) e da sentenze della Corte di Giustizia europea. Un processo di cambiamento destinato a durare trent’anni deve, subito, fare i conti con la promessa di assumere duecentomila precari (quelli presenti in graduatorie definite – con autoironia – “ad esaurimento” ed altri) che aumenterebbe l’organico della più grande azienda italiana di un terzo. Come posso conciliare ciò con l’esigenza di assumere in maniera qualificata, progressiva e solo dove serve?

La Scuola italiana del futuro è una scuola che, come diceva Don Milani, non seleziona perché se lo facesse “priverebbe il povero della possibilità di appropriarsi delle parole e i ricchi di quella di conoscere la realtà”, rendendo tutti più vulnerabili. Tornare a questa visione che è, insieme, classica e moderna comporta, però, scelte drastiche, leadership e un lavoro che coinvolge milioni di persone. Del resto, il problema con l’innovazione è che, come sempre, essa è fatta per il 10% di visione e il 90% della fatica necessaria per poterla far crescere.

 

 

 

Rai, la sinistra, un progetto per non farci maledire

di Michele Mezza

Tanto tuonò che piovve. Finalmente. L’approvazione ,rassegnata, di un esangue consiglio di amministrazione, del  tremulo piano Gubitosi, insieme ai tramestii attorno alle torri di RAI Way, finalmente pongono il sistema radiotelevisivo, e il suo comparto pubblico, al centro della scena economica, e fuori dal rottamato teatrino delle proprietà politiche.

Il sistema audiovisivo di un paese è parte essenziale dei suoi asset di sovranità e di scambio internazionale. Rispetto a questo orizzonte il capo redattore esteri di uno dei Tg che rischia di sciogliersi al sole della semplificazione non esiste. Come non esiste quella consunta e inquinata bandiera del pluralismo che non ha mai assicurato la libertà in RAI.

Ora, come per tutte le grandi infrastrutture, il primo  nodo da sciogliere è capire cosa vuole fare il governo. Qual è la strategia di Renzi per gli apparati pubblici di sovranità?

Questo è il vero buco nero su cui mi concentrerei invece della pallida questione dell’informazione di rete, che a malapena può interessare qualche caporedattore trombato che andrà a fare il vice aiuto capo struttura.

Allora cosa pensa Renzi del sistema radiotelevisivo pubblico? Forse lo stesso  di quello che pensa per le banche Popolari o per le grandi aziende nazionali come ENEL,ENI, E Finmeccanica: carne da cannone, ossia risorse per far lavorare il mercato, meglio se estero, ottimale se angloamericano.

Da quanto è stato fatto fino ad ora, capisco che i principali interlocutori finanziari del governo, come il circuito delle banche d’affari londinesi, premono per una radicale semplificazione del mercato infrastrutturale italiano, leggi una massiccia alienazioni di asset.

La Rai è parte di questa semplificazione. Come sempre quando qualcuno parla di cultura e qualità, si nasconde lo spettro del ridimensionamento e della marginalizzazione. Ed infatti per la Rai si parla a quattro palmenti di cultura e qualità.

Il secondo punto riguarda la mission che dovrebbe svolgere l’apparato pubblico dell’informazione, come si configurerebbe dal piano Gubitosi. Incredibilmente in questi mesi nessuno si è peritato di chiedere al DG come concepisca la nuova mission della nuova RAI NEWS: quale presidio del mercato, quale primato da conquistare, quale strategia globale, quale politica tecnologica? Insomma perché tutto questo casino, solo per risparmiare 100 milioni? Senza una chiara mission non è possibile capire la natura e l’esito del piano. E spero che il piano che verrà presentato dall’USIGRAI su questo punto sia chiarissimo. Tanto più che  nel nuovo contesto digitale mission significa anche contenuto: quali soluzioni tecnologiche? Quali alleati? Quali algoritmi? Quali sistemi utente? Quali linguaggi? Quali community? Insomma come ci tuffiamo nella rete? Questo punto non ha mai appassionato il ragionier Gubitosi ne i suoi capo cantieri ( a proposito che fine hanno fatto quelle rutilanti promesse di think tank annunciate alla Dear due anni fa con tanto di effetti speciali? Quanto costò quel giochetto?) ed infatti è buio pesto. Anche su questo spero che il piano alternativo RAI Più sia  esaustivo.

Terzo punto: dopo strategia del governo e mission aziendale, il nodo centrale è il progetto professionale. Dico subito che rispetto al pantano attuale meglio qualsiasi cosa, persino il Piano Gubitosi, che è esattamente lo spirito per cui l’esangue Consiglio di Amministrazione ha dato il via libera. Meglio qualsiasi movimento rispetto all’arroccamento. Ma perché non osare l’impossibile e cercare di dare anche un senso al movimento. Certo ci sono sempre i 100 milioni da risparmiare (vorrei vederli comunque quei conti sulle mediazioni finali per tacitare ogni califfato che sarà insidiato dalla semplificazione), ma magari riuscire ad agganciare l’attualità non sarebbe male. Infatti il Piano Gubitosi è pressappoco  la velina del Piano Celli 1999.Non a caso le mani che si sono prodigate sono quasi le stesse, in alcuni casi esattamente le stesse. Stiamo parlando di un tentativo, poi abortito, come è noto, di riorganizzazione dell’intera impalcatura aziendale di oltre 15 anni fa. Paleontologia industriale. La filosofia, allora come oggi, era tutta, e allora era giustificata dai tempi, analogica, e condizionata dalla distribuzione, ossia i canali. Il Piano Gubitosi mantiene una logica analoga, tutta legata all’out put, e l’input, ossia le modalità di acquisizione e trattamento delle informazioni, il vero valore aggiunto di un motore di news, è affidato all’immaginario che scatena l’espressione 2 new room. Ritorno alla mission: la riorganizzazione, nel 2015, di una filiera produttiva dell’informazione deve scontare due scelte di cui non vedo nemmeno l’ombra della più flebile consapevolezza. Il primo  elemento riguarda la potenza di ricerca, il secondo la filosofia di relazione. Per Potenza di ricerca  schematicamente intendo  il modello di SEO (Search Engine organization) ossia quale sistema digitale, quale tipologia di algoritmo, adottare per dare autonomia e potenza alla redazione della news room? Andiamo al mercato e, come è stato fatto fino ad ora, deleghiamo a Google o AVID, la definizione dei valori semantici della nostra ricerca nell’abbondanza di informazioni? Questa è la premessa della liquidazione sul mercato di un servizio pubblico.se non è presidio all’autonomia e sovranità delle selezioni semantiche e delle tipologie degli algoritmi di ricerca di una comunità un servizio pubblico è solo un costo, come credo pensi il governo. Allora su questo mi concentrerei, articolando la distinzione fra ricerca nazionale, e soprattutto territoriale, dove non possiamo non avere un primato, e ricerca globale dove praticare forme associative e alleanze. Autonome e non subalterne. Il secondo buco nero del piano è la filosofia relazionale. Come costruiamo le news room del servizio pubblico di una paese che vanta, inconsapevolmente, un primato nelle pratiche social della rete? Tutto con una geometria verticale, riproducendo una logica da broadcasting o invece elaboriamo una strategia originale di allestimento di community in rete dove cementare pratiche professionale e relazioni sociali con i territori , i saperi e gli utenti? Lavoriamo su Facebook o su spazi diversi per incontrare i flussi di informazioni sociali? Costruiamo architetture cloud nel territorio, legati a data base tematici (università, distretti produttivi, associazionismo, finanza,sport) e le integriamo con i server redazionali e attorno a queste pratiche costruiamo software automatici di storage ed editing o invece continuiamo a giocare all’artigianato giornalistico?

Da queste scelte ne discende il peso che il servizio pubblico potrà avere nella negoziazione globale del sistema Italia sul mercato tecnologico, e di conseguenza la rilevanza e l’autonomia che la RAI potrà conquistarsi. In caso contrario i 100 milioni al mese verranno spesi in incentivi per esodi che riducano ruolo e immagine della Rai. E Gubitosi dovrà riflettere sul fatidico detto di un grande intellettuale della comunicazione italiana Franco Fortini che spiegava agli innovatori  che bisogna osare senza mai dare ragioni ai nostri figli per maledirci.

Come cambia il mondo – Conferenza PD, 14 Febbraio, Roma

Un evento, organizzato dal Dipartimento PD per la politica estera e europea e dal Dipartimento formazione, in collaborazione con il nostro Gruppo alla Camera, che si propone come momento di riflessione, approfondimento e formazione sui diversi scenari globali e sulla proiezione internazionale del nostro Paese

Comecambiailmondo

Bring Politics Back to the European Mainstream

Fringe parties are flourishing because centrists on both the right and left have abdicated their responsibility to vigorously oppose each other.

Watching events unfold on the Continent and beyond, it might at first appear that politics isn’t being kind to the European Union. Greek voters recently handed power to a radical party that pledged to repudiate the economic agreements Athens previously negotiated with its European peers. The rise of the left-wing Podemos movement in Spain seems to send the same message, as does the rise of anti-EU parties in France and the U.K. Yet these populist movements on both the left and right weren’t born in a vacuum. They were also unwittingly fostered by Europe’s mainstream parties.

To address the most important political challenges of the day, mainstream political parties in the past few years have adopted a collusive rather than competitive approach. Many European countries are now governed by “grand coalitions” between traditional left- and right-wing parties.

In Germany, Chancellor                    Angela Merkel                ’s cabinet includes ministers from both her right-leaning Christian Democratic Union and the left-leaning Social Democratic Party. In Italy, Prime Minister         Matteo Renzi       ’s ostensibly left-wing government depends on parliamentary support from the center-right. In Austria, the Netherlands and Sweden, far-right political parties are only kept out of power by broad agreements between most of the other mainstream forces.

Even when there isn’t a grand coalition, voters sense that their mainstream parties are failing to vigorously compete against each other. In France,         François Hollande       ’s 2012 presidential victory was based on his call against austerity and for a more expansive fiscal policy. But the lack of results from that economic platform has since left Mr. Hollande’s supporters disenchanted. This frustration has spurred on Marine Le Pen’s far-right National Front.

                   Nigel Farage of the UK Independence Party.
Nigel Farage of the UK Independence Party.                     Photo:                      GC Images
                   Alexis Tsipras of Greece’s Syriza.
Alexis Tsipras of Greece’s Syriza.                     Photo:                      AFP/Getty Images
                   Marine Le Pen of France’s National Front.
Marine Le Pen of France’s National Front.                     Photo:                      Getty Images

Something similar could happen in Italy. Mr. Renzi secured a strong position of power through his calls for a more dynamic economic policy and greater involvement of citizens in the political decision-making process. This has effectively deprived the populist Five Star movement of its prime issue. However, Mr. Renzi’s government has yet to produce any significant changes both in terms of economic policy and democratic representation.

The lesson here is that political conflict and competition in democratic institutions can’t be avoided without paying a price. The most visible consequence is that the mantle of political opposition is increasingly being taken up by unconventional populist movements seeking to move beyond the traditional left-right divide. Greece’s far-left Syriza party preferred to form an alliance with the far-right Independent Greeks party rather than the center-left Potami—which had also offered its support to Prime Minister         Alexis Tsipras       —suggesting that a new axis of opposition, driven by populism, is emerging against the cartelized mainstream.

Mainstream parties on the left are viewed, rightly or wrongly, as the worst offenders in this dereliction of political duty. To enter into grand coalitions with their traditional opponents, they are perceived as having renounced any significant alternative to the stiff austerity agenda the center-right proposed as a response to the economic crisis.

Greece’s socialist party, Pasok, is a case in point. Once a frequent party of government in its own right, after the economic crisis it formed a coalition with the right-leaning New Democracy party and agreed to implement an unpopular program of fiscal tightening and reform. Voters who would have preferred a more vigorous opposition from this ostensible opposition party punished it in 2012, allowing Syriza to become the official opposition.

Similarly, deepening and expanding the forms of democratic representation has traditionally been at the heart of the European left’s political project. Political agreement with their former opponents reinforced the perception that mainstream political parties are only interested in power-sharing deals that will keep them in office without having to address widespread demands for political reform. This too has allowed populists to rise and present themselves as viable alternatives.

All of which suggests that the best way to counter the ascendance of populist extremist parties is decidedly not for mainstream parties to unite against the upstarts. Europeans prefer that their mainstream parties stay at odds with each other on the economic, social and foreign-policy issues—and on democratic representation within the EU itself—that used to divide the mainstream right and left. Voters are demanding competitive politics and a vigorous debate that reflect the seriousness of the challenges facing Europe. If mainstream parties aren’t prepared to deliver, voters will look elsewhere.

Messrs. Accetti and Ronchi are lecturers in political science at the Institut d’Etudes Politiques de Paris.

La seconda fase dello sviluppo cinese offre nuove opportunità per l’Italia (nella Sanità)

 

 La sanità, ultimo treno per l’Italia verso la Cina

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 08 febbraio 2014

È ormai un luogo comune parlare con preoccupazione del rallentamento della crescita cinese. Anche qui a Pechino si scrive con un certo allarmismo che l’aumento dello scorso anno è stato il più basso dal 1990 e che peggiorerà ancora nell’anno in corso. Quando tuttavia analizziamo a fondo i dati statistici, vediamo che la crescita è stata nel 2014 del 7,4% e che, nell’anno in corso si manterrà al di sopra del 7%, anche secondo le più pessimistiche previsioni. Per un paese che ha raggiunto un livello di reddito abbastanza elevato questi dati valgono più della crescita a due cifre che ha accompagnato la prima fase dello sviluppo cinese.

Le preoccupazioni non possono perciò nascere dal tasso di crescita del PIL che, nonostante il suo rallentamento, fa invidia a tutti, ma dalle decisioni politiche che il paese deve affrontare nel prossimo futuro per proseguire a correre a ritmo sostenuto e completare quindi il processo di modernizzazione iniziato quasi quarant’anni fa.

Il governo cinese si è recentemente imposto il compito di cambiare quello che noi definiamo un “modello di sviluppo” fondato sugli investimenti e sulle esportazioni, per passare ad una crescita più equilibrata, con un aumento dei consumi e del ruolo del mercato interno.

L’inizio di questa nuova strategia ha comportato una politica monetaria più prudente e un controllo di una “bolla immobiliare” che rischiava di fare salire al cielo il tasso di inflazione. Il governo ha perciò dovuto mettere mano al freno.

Il crollo del prezzo del petrolio e delle materie prime, delle quali la Cina è il massimo importatore, ha reso più facile questo riequilibrio dell’economia e, nello stesso tempo, ha provocato un progressivo rallentamento dell’aumento dei prezzi. L’inflazione è oggi al livello minimo da molti anni, per cui sono oggi possibili gli stimoli all’economia che fino a poche settimane fa rischiavano di innestare un processo inflazionistico.

Anche se può sembrare strano, un ulteriore elemento ha influito sulla minore crescita degli ultimi mesi: la lotta contro la corruzione, iniziata in grande stile dal presidente Xi. Una lotta che ha portato ad una diminuzione degli acquisti di un’ampia gamma di beni di lusso che costituivano uno dei rifugi più praticati dei proventi della corruzione.

Una lotta contro la corruzione che non solo esercita i suoi effetti nelle boutique dei beni di pregio ma che è l’oggetto principale delle conversazioni di Pechino, perché ha già portato veri e propri sconvolgimenti nelle cariche dello stato, nell’alta burocrazia e nel potente ambiente dei dirigenti delle imprese pubbliche. Una guerra fondata sulla convinzione che la corruzione era così diffusa da divenire un impedimento per lo stesso sviluppo economico della Cina. Una guerra, tuttavia, che può essere definitivamente vinta solo attraverso una maggiore indipendenza della magistratura dal potere politico. Un obiettivo solennemente annunciato dal Presidente Xi ma che si presenta ancora di difficile attuazione.

Dato per condiviso il fatto che la nuova fase di crescita non può consolidarsi senza un aumento dei consumi interni, è anche diventata dottrina comune che, senza un miglioramento della protezione pensionistica e sanitaria, i cittadini cinesi saranno ancora obbligati a risparmiare e non a spendere.

Si aprono quindi, almeno in teoria, nuove forme di possibili collaborazioni con noi europei, dato che il sistema sanitario americano, che fino ad ora è stato ed è ancora il principale se non esclusivo punto di riferimento dei cinesi, è intollerabilmente costoso, pur non offrendo una copertura universale, che è invece il fondamento dei migliori sistemi sanitari europei.

Se vogliamo fare un confronto che tocca direttamente il nostro paese dobbiamo ancora una volta ricordare che, nonostante tutti i rilievi che si possono compiere, il costo della sanità italiana è tra i più bassi d’Europa (spendiamo infatti tra il 7 e l’8% del nostro PIL) e noi italiani viviamo in media quasi quattro anni di più degli americani che spendono invece intorno al 17-18%.

Ebbene in questi giorni è in visita ufficiale a Pechino il primo ministro francese Valls e leggiamo che, nel contorno di questa visita, si è intensamente parlato di una strategia di cooperazione fra il sistema sanitario francese e quello cinese.

In Cina, per la debolezza delle nostre strutture, abbiamo lasciato agli altri ( cominciando dai nostri amici francesi) l’organizzazione delle moderne catene distributive. Non siamo ovviamente presenti nelle strutture alberghiere dove americani, asiatici e altri europei fanno da padroni e siamo quasi assenti dalle organizzazioni professionali e di consulenza che raggiungono ormai fatturati astronomici. Mentre cioè le nuove realtà, a partire da quella cinese, fondano la seconda fase del loro sviluppo sui servizi, noi praticamente non esistiamo, anche se i più alti profitti si realizzano soprattutto nel settore terziario. Non vedo tuttavia perché l’Italia non cerchi di recuperare parte del terreno perduto almeno nei campi, come quello sanitario, nei quali vi è ancora spazio per una nostra presenza. Non si tratta solo di prestigio (anche se il settore sanitario contribuisce tanto all’immagine di un paese) ma di una realtà che mobilita enormi ricadute economiche.

Certo tutte le nostre regioni (che hanno la competenza in materia sanitaria) hanno una dimensione nettamente inferiore a quella di una qualsiasi metropoli cinese, ma si dovrà pure trovare il modo di essere presenti con l’intero pese nei settori nei quali si può entrare solo se si opera in modo efficiente, integrato e capace di dialogare in modo paritario con le strutture pubbliche cinesi.

Operando in modo disperso e senza un sistema distributivo alle spalle abbiamo fino ad ora perso anche la gara del mercato del vino. La nostra insufficiente presenza in Cina è soprattutto affidata ad alcune medie imprese specializzate nella loro nicchia di mercato. Pur nei limiti della loro dimensione queste imprese stanno facendo grandi cose. È tuttavia ora di affrontare anche le sfide nelle quali si deve impegnare l’intero paese. La sanità, pur con infinite difficoltà, è ancora una sfida alla nostra portata.

La Troika va superata – Intervista di Milano Finanza a Gianni Pittella

Gianni Pittella

intervista di Francesco Ninfole – “Milano Finanza” a Gianni Pittella – 10 febbraio 2015

Domani i ministri delle Finanze dell’Eurozona si confronteranno sul piano greco e sulle richieste del premier Alexis Tsipras. Gianni Pittella, presidente dei socialisti e democratici europei, si schiera a favore di possibili concessioni ad Atene e chiede di superare la Troika.

Domanda. Presidente Pittella, Tsipras non vuole cambiare il programma elettorale e la Germania non vuole fare troppe concessioni ad Atene. Che cosa si aspetta dal prossimo Eurogruppo?

Risposta. Dobbiamo sforzarci di trovare un accordo con Atene. Noto con piacere che il governo Tsipras sembra avere rinunciato all’idea di un taglio del valore nominale del debito. Noi siamo sempre stati chiari: gli obblighi assunti vanno rispettati. Poi possiamo ragionare sul come. Certo, alcune dichiarazioni di certi ministri greci non aiutano affatto. Bisogna gettare acqua sul fuoco.

D. Quale soluzione crede sarà raggiunta alla fine sulla Grecia? Che cosa potrà ottenere Tsipras e a che cosa invece dovrebbe rinunciare?

R. L’urgenza ora è quella di trovare le risorse per far andare avanti la Grecia e coprire i vuoti di bilancio per i prossimi mesi. Nel lungo periodo credo si debba lavorare lungo due strade: un riscadenzamento e una riduzione ulteriore degli interessi. Si può inoltre pensare ad un periodo di moratorio per quanto riguarda il rimborso del debito.

D. Che cosa pensa della mossa Bce di non accettare più i titoli greci come collaterale per i rifinanziamenti alla banca centrale?

R. Di certo non mi convince chi cerca di tirare Draghi per la giacchetta: alcuni ritengono che sia troppo morbido con la Grecia, altri troppo duro. La Bce non è un’istituzione politica e quindi le sue mosse non vanno interpretate in maniera abusiva. Il sistema bancario greco ha bisogno di liquidità ed è fondamentale che la Bce continui a sostenerlo. Ora lo fa soltanto attraverso la liquidità di emergenza. Mi auguro che in futuro la Bce accetti nuovamente i titoli di Stato greci come collaterale. Sarebbe un gesto utile per l’economia greca.

 D. Vede un rischio di uscita dall’euro della Grecia?

R. La penso come Draghi: l’euro è irreversibile; una volta che si aderisce, non si può più tornare indietro. Innanzitutto perché non converrebbe ai greci tornare alla dracma. La Grecia è e resterà nell’euro. Non esistono piani B.

D. Fa bene Tsipras a chiedere meno austerità? I leader socialisti Ue, tra cui Renzi, si sono mostrati comprensivi ma anche attenti a non avvicinarsi troppo alle posizioni del leader greco. 

R. Siamo stati i primi a chiedere con forza il superamento dell’austerità. Per anni abbiamo combattuto contro le politiche di rigore cieco. Finalmente ora iniziamo a vedere i frutti, per esempio con la nuova intonazione della politica monetaria della Bce e con il piano d’investimenti da 315 miliardi di euro. Un piano da migliorare ma che costituisce un importante passo in avanti.

D. Quale ruolo dovrà avere la Troika (Fmi-Bce-Ue) nelle trattative con la Grecia e in futuro?

R. La Troika va superata. La sua cura ha fallito in Grecia anche perché lo strumento della Troika non funziona. Non è abbastanza democratico e trasparente. Tra le condizioni del nostro sostegno alla Commissione Juncker c’era anche quella di superare la troika con un nuovo meccanismo incentrato sul Consiglio, la Commissione e sotto il controllo del Parlamento. È ora di mettere in pratica questo nuovo meccanismo. La trattativa tra Atene e Bruxelles deve essere condotta dalle istituzioni europee, Commissione e Parlamento in primis.

D. È soddisfatto delle nuove linee guida Ue sulla flessibilità in materia di deficit strutturale?

R. Le linee guida sulla flessibilità rendono il Patto di stabilità meno stupido. Per la prima volta si introduce una clausola delle riforme strutturali che permetterà ai Paesi che fanno riforme di avere più margine di manovra di bilancio. Abbiamo inoltre ottenuto una nuova clausola degli investimenti, grazie alla quale i Paesi come l’Italia che hanno un deficit sotto al 3% potranno scomputare dal Patto di stabilità il cofinanziamento dei fondi strutturali e di coesione. Solo per l’Italia questo potrebbe liberare 5 miliardi aggiuntivi di risorse per gli investimenti. Per la prima volta si riesce ad infrangere il tabù dell’inviolabilità del Patto di stabilità. È un punto di svolta.

D. Lei è stato a Washington nei giorni scorsi per il Tttip, l’accordo di libero scambio in negoziazione tra Ue e Usa. Quali sono i nodi? È vero che ci sono divergenze di opinione, con Renzi e il Pd che spingerebbero in maniera più decisa per un’intesa rispetto a quanto vorrebbero i socialisti europei?

R. La nostra posizione sul Ttip è costruttiva, come quella del governo italiano. Un accordo ambizioso sul Ttip potrebbe portare a enormi e reciproci benefici per le pmi, non solo per le multinazionali, e per lavoratori e consumatori. È chiaro però che ci sono ancora nodi da sciogliere, su cui manterremo l’attenzione, perché non basta avere un accordo, serve un buon accordo che promuova e innalzi gli standard dei lavoratori, ambientali e della sicurezza alimentare. Sintetizzando con uno slogan potremmo dire: no agli Ogm o carni agli ormoni, preferiamo tenerci la nostra dieta mediterranea.

D. All’interno del Ttip qual è la sua posizione sull’Isds, il meccanismo di risoluzione delle controversie tra multinazionali e Stati attraverso arbitri scelti dalle parti?

R. Sull’Isds ribadiamo le perplessità rispetto ad uno strumento che, così com’è pensato oggi, non ci convince sul piano della trasparenza e dell’efficacia. Due grandi aree politico-economiche avanzate come gli Usa e l’Unione europea hanno sistemi giuridici adeguati per far fronte alle possibili dispute. La protezione degli investitori potrebbe essere garantita attraverso i sistemi nazionali o meccanismi State-to-State. È necessario quindi trovare soluzioni diverse che garantiscano più trasparenza perché si possa trovare un compromesso.

(foto ¬© European Union 2015 EP)

Lavoro, Bonaviri: crisi durissima, urgono politiche sociali mirate

Lavoro, Bonaviri: crisi durissima, urgono politiche sociali mirate    
Su L’inchiesta   

FROSINONE – “E’ urgente elaborare politiche sociali semplificate e più mirate, integrate da un’assistenza all’infanzia e da un’istruzione di qualità sostenibile (dalla prevenzione dell’abbandono scolastico alla formazione e o­rien- tamento professionale, dall’assistenza abitativa al sistema sanitario accessibile) considerato che è stata proprio la crisi economica che ha messo in luce la difficoltà dei giovani nei mercati del lavoro quali soggetti deboli e con maggiori probabilità di non riuscire ad occupare che posizioni marginali, precarie e temporanee”: l’appallo – lanciato anche dalle pagine de L’inchiesta-quotidiano nei giorni scorsi – è di Giuseppina Bonaviri della rete “La Fenice” di Frosinone. “L’esperienza della disoccupazione ed inattività è preoccupante perché ha effetti permanenti che riducono le prospettive future di occupazione e di reddito (effetto cicatrice) – aggiunge Bonaviri -. A causa di questo meccanismo e degli effetti negativi di una crisi prolungata sull’occupazione giovanile si rischia un radicamento dei problemi strutturali difficilmente aggredibili e che “le giovani generazioni si trasformino in una generazione perduta che non potrà competere con le sfide del futuro”. Sul piano individuale i giovani rischiano di rimanere intrappolati nella inattività e nella disoccupazione/sottooccupazione con una elevata probabilità di esclusione sociale, senza tutele e livelli alti di povertà. Sul piano collettivo questo si traduce in uno spreco di risorse umane potenzialmente produttive che porta inevitabilmente a un indebolimento della crescita economica e all’ampliarsi della fascia delle diseguaglianze con conseguenti elevati costi per il bilancio pubblico, la salute e l’aumento della criminalità”.

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Alexis Tsipras, l’ingegnere che porta di fatto l’Europa nel Mediterraneo

tsipras 

di Massimo Preziuso

Alexis Tsipras – ingegnere della scuola ateniese di NTUA – vince nettamente le elezioni politiche in Grecia, e alla fine degli spogli elettorali porterà Syriza al governo del Paese da sola o con i socialisti di Pasok.
E’ una bellissima notizia per me e per tutti gli Innovatori Europei .
Perché è tempo che diciamo che bisogna dare maggiore spazio agli ingegneri e alle professioni tecniche nella politica italiana. Ed è da un po’ che lavoriamo in tal senso, anche in collaborazione con le organizzazioni di categoria.
E chissà che sia arrivato il momento di ragionarci seriamente: su come la capacità di progettare sistemi complessi si traduce in nuove visioni per la politica.
E soprattutto perché  la vittoria di Tsipras dà il via pienamente ad una fase nuova in Europa, quella che guarda nettamente al suo futuro Mediterraneo, di cui il “nostro” Partito Democratico deve prendere subito la leadership.
Auguri da tutti noi all’ingegnere Alexis, al popolo greco e a tutti noi europei.

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