Significativamente Oltre

LA SINDROME DEL PLEBISCITO

di EDMONDO BERSELLI
Succede talvolta che la politica subisca un’accelerazione impensata. È stato sufficiente l’annuncio che l’elezione del leader del Partito democratico avverrà in modo diretto, attraverso la sovranità popolare, e tutto ciò che si diceva della nascita del Pd, che era un incontro di oligarchie, che si trattava di una fusione fredda, che era gestita esclusivamente dai corridoi di partito, è stato superato.
C’è voluto un atto di coraggio di Romano Prodi, o forse di rassegnazione: ma in ogni caso si è innescata una miccia che farà brillare l’ordigno sclerotizzato della politica italiana: si comincia a intravedere l’opportunità di un processo di democratizzazione radicale i cui risultati potrebbero risultare decisivi per un recupero di credibilità dell’intero sistema politico.
Ci sarà tempo per osservare gli effetti di questa decisione, un’onda d’urto che dovrebbe investire anche il centrodestra: perché non è pensabile il perdurare di un’asimmetria che veda da un lato un partito di mobilitazione, all’americana, e dall’altro un partito proprietario, gestito dal suo titolare. Ma nello stesso tempo occorre chiarire subito che il Big Bang del Partito democratico, perché di questo si tratta, non può e non deve essere neutralizzato da manovre preventive di composizione, di negoziato interno, di smussamento dei contrasti: l’elezione del leader è un’eccezionale occasione perché si manifestino, e si mescolino, appartenenze, idealità, valori, culture.
E quindi la ricchezza potenziale di questo confronto non può essere sprecato in vista di un plebiscito. Vanno guardate con preoccupazione, se non con sospetto, le esitazioni e i surplace che stanno accogliendo la svolta “democratica”: mentre si fanno più intense le pressioni perché Walter Veltroni si assuma la responsabilità politica e civile dell’ingresso in campo, al punto che gli sarà praticamente impossibile sottrarsi alla chiamata, cominciano invece a manifestarsi le perplessità dei suoi competitori. Ad esempio sembra che Francesco Rutelli sia intenzionato a sottrarsi al rischio di un confronto; e il suo esempio potrebbe indurre altri possibili protagonisti a uscire dall’arena.
Conviene ripeterlo. Un prodotto politico come il Partito democratico non può nascere in provetta. Non si può immaginare che due congressi di partito, lo scioglimento di Ds e Margherita e l’assemblea costituente del 14 ottobre conducano a un risultato preconfezionato e a una leadership predefinita. Anzi, in questo momento è urgente che le migliori personalità dell’area “democratica” entrino in campo e giochino la loro partita. Non per una questione di personalismo: ma perché intorno alle figure di Rutelli, di Bersani, della Finocchiaro, e di chiunque volesse giocarsi con la necessaria spregiudicatezza un futuro politico di primo piano, ruotano anche culture, sensibilità politiche, memorie e proiezioni verso un’idea di società desiderabile.
Tutto questo non può essere lasciato al patteggiamento fra correnti, partiti o leader. L’opinione pubblica apprezzerà un confronto leale sui temi in gioco. Molti hanno notato che la spiazzante mossa d’apertura di Dario Franceschini, che ha dichiarato con chiarezza il proprio voto per Veltroni, è stato una carta pesante giocata sul tavolo politico: che un leader della Margherita spinga la candidatura di un leader diessino rappresenta un modo spettacolare per fare respirare il confronto politico, fuori da condizionamenti e logiche di clan.
Una volta tanto, c’è spazio per il coraggio più che per le mediazioni. I leader del centrosinistra dovrebbero riflettere sul fatto che è possibile che la casella numero uno sia già stata assegnata, dall’umore popolare e dalle sensazioni che si respirano in politica. Ma in primo luogo questa eventualità non è una necessità deterministica. E secondariamente le primarie dei democratici non sono soltanto l’evento che fonda il partito; sono anche lo strumento per scremare la sua classe dirigente, definendo la forza relativa di ogni protagonista e la sua credibilità pubblica. È un gioco, per certi aspetti; ma richiede dai giocatori un impegno senza veli. Altrimenti, i cittadini, gli elettori, avrebbero ragione di pensare che chi si sottrae adesso, nel momento del gioco duro, chi fa calcoli troppo prudenti, chi valuta in modo troppo certosino il proprio interesse personale, non avrà titoli di merito per rientrare più avanti, quando il gioco sarà più facile.

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