Significativamente Oltre

matteo renzi

Messaggio del Presidente del Consiglio On. Matteo Renzi – Convegno 21 Giugno a Roma su “Logistica e Infrastrutture. Il ruolo del Mezzogiorno e il suo contributo all’economia del Paese”

renzi

Gentile Dottor Preziuso,

il Presidente Renzi La ringrazia per il cortese invito. Purtroppo, a causa di impegni già in agenda, non potrà essere presente; desidera comunque far giungere a tutti i partecipanti i migliori auguri di buon lavoro e di pieno successo del Convegno.

Con i saluti più cordiali

La Segreteria del Presidente del Consiglio dei Ministri

Innovatori europei: per il Sud una nuova fase da protagonista?

sud

Articolo pubblicato sul sito del Partito Democratico

L’associazione Innovatori europei ha organizzato per il 21 Giugno al Nazareno, presso la sala delle conferenze della sede nazionale PD a Roma un convegno fortemente caratterizzato fin dal titolo: “Logistica e Infrastrutture. Il ruolo del Mezzogiorno e il suo contributo all’economia del paese”, con uno sviluppo degli interventi che vuole dimostrare come la ripresa dell’Italia sia pura illusione se non si attribuisce, una volta per tutte, al Sud un nuovo ruolo: non più inerte beneficiario di provvidenze utili a consolidare rapporti clientelari ma parte orgogliosamente e consapevolmente integrata nel territorio nazionale, organica allo sviluppo dell’intero paese.

Certo, non è una tesi completamente nuova, ma è la prima volta – da quanto ci risulta – che il tema è trattato in maniera così approfondita.

La scaletta degli interventi è infatti estremamente ricca, tanto da costringere gli organizzatori a dividere l’evento in due sessioni, una più tecnica e politica al mattino e una al pomeriggio che si propone di mostrare come il mondo si muove così rapidamente da non lasciare scampo a chi non accetta le sfide del nuovo mondo globalizzato.

Ed è proprio qui che si tocca di nuovo con mano lo “spirito del cambiamento” in atto nel paese: come affermano gli Innovatori europei, appena è iniziata a circolare la voce che si stava organizzando al Nazareno un convegno su questo tema, sono arrivate da ogni parte d’Italia tantissime richieste per poter assistere o anche per dare il proprio contributo al successo della manifestazione.

È segno che sta per iniziare una nuova fase? O che forse è già iniziata?

Fonte, Europa Quotidiano

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Programma del convegno: Logistica e Infrastrutture. Il ruolo del Mezzogiorno e il suo contributo all’economia del Paese

Ora l’Italia torni ad avere la presidenza del Parlamento Ue

di Gianni Pittella

Asset.aspxIntervista con l’agenzia Ansa

E’ ora che l’Italia torni a ricoprire la più alta carica nel Parlamento europeo. Sarebbe un grande riconoscimento prima di tutto per il Paese ma anche per il nuovo Partito democratico di Matteo Renzi. L’obiettivo a portata di mano. Ci sono tutte le condizioni nazionali e comunitarie perchè il governo italiano porti a casa il risultato. La svolta si è avuta con l’adesione del Pd al Pse. Finalmente si è capito che per contare davvero in Europa occorre stare nelle istituzioni. E’ finito il tempo in cui Bruxelles era considerata una sorta di dopo lavoro per politici in pensione. Il Pd e l’Italia di Renzi si candidano a cambiare l’Unione europea che, oggettivamente, così com’ è rischia di affondare”. Lo dichiara all’Ansa Gianni Pittella, vice presidente vicario del Parlamento europeo e candidato per il Pd alle elezioni europee nella circoscrizione sud.

Ho investito tutta la mia vita politica per la costruzione degli Stati uniti d’Europa. Renzi ha avuto il grande merito di indicare candidati che credono e vogliono lavorare a tempo pieno in Europa. In quindici anni di attività da eurodeputato, ho messo tutte le mie energie per accrescere la stima e la considerazione dell’Italia nella casa del Parlamento europeo. Un lavoro credo apprezzato che mi ha portato per due volte consecutive ad essere eletto a scrutinio segreto primo vicepresidente”. “La situazione in Europa è complessa. La Francia di Hollande è in difficoltà. La Germania è prigioniera della Merkel, mentre la Gran Bretagna è imbrigliata da pulsioni isolazioniste. L’Italia di Renzi – sottolinea Pittella – l’unico tra i grandi Paesi che può autorevolmente imprimere una forte spinta riformatrice”.

Nascondersi non ha senso: le critiche che da più parti investono l’Ue sono in gran parte meritate. Non è possibile continuare ad avere una moneta senza una vera Banca centrale alle spalle, inaccettabile crocifiggere intere economie, interi Paesi, a vincoli arcaici e stupidi per una miope ed egoista visione dello stare insieme. L’Ue non può restare silente rispetto a crisi internazionali come quella ucraina e siriana, o limitarsi a dichiarazioni di principio di fronte a tragedie come quelle di Lampedusa. Non si è euroscettici a denunciare questi aspetti. Si è realisti. La differenza con i populisti alla Grillo, alla Salvini o alla Le Pen che loro vogliono distruggere tutto, fregandosene delle conseguenze per i cittadini, e tornare a rinchiudere il nostro futuro nelle piccole patrie.

“Io – aggiunge il vice presidente vicario dell’Europarlamento – dico che invece serve più Europa. Sono i governi a imporre veti incrociati sulla politica estera. Sono i singoli Stati ad impedire la nascita di una vera Bce. Sono ancora gli egoismi nazionali a rendere balbettante le risposte comunitarie a problemi drammatici come l’immigrazione. L’austerità non ce lo chiede l’Europa, ce lo impongono i governi”.

“Coscome fecero De Gasperi, Adenauer e Schuman – conclude – gli Stati abbiano il coraggio di fare un passo indietro. E permettano all’Unione europea di fare un passo decisivo in avanti verso il futuro”.

 

Fonte ANSA

Una poltrona, anche piccola. L’ultima lotta dei continuisti

di Sergio Rizzo per il “Corriere della Sera”

Qualcuno, in questi giorni di trattative frenetiche, ha coniato per loro un singolare neologismo: continuisti. Sono coloro che contrasterebbero i cosiddetti rottamatori, quelli che vorrebbero dare il benservito ai manager della vecchia guardia che hanno gia’ superato, in qualche caso pure ampiamente, il limite dei tre mandati.

Dal fronte renziano assicurano che le ultime resistenze sono ormai superate. Per capirci, quelle di chi sperava se non proprio in una riconferma, almeno nel passaggio dalla poltrona di amministratore delegato a quella di presidente. Per quanto, a giudicare dai nomi che girano, consistenti schegge di «continuismo» restano in circolazione.

Con precise paternità. C’è per esempio chi ha provato a candidare per qualche presidenza l’ambasciatore Giovanni Castellaneta, classe 1942: diplomatico di rango che è stato per anni consigliere diplomatico dell’ex premier Silvio Berlusconi. Oggi è già presidente di un’altra società pubblica, la Sace.

E c’è oggettivamente da chiedersi quale potrà essere il tasso di innovazione all’Eni se troveranno conferme le indiscrezioni che vogliono al posto di Paolo Scaroni l’attuale suo direttore generale Claudio Descalzi. Tanto più se alla presidenza si dovesse davvero materializzare Giampiero Massolo, altissimo funzionario della Farnesina dove ha fra l’altro ricoperto l’incarico di capo di gabinetto di Gianfranco Fini, attualmente capo del Dipartimento informazioni per la sicurezza: i servizi segreti di Palazzo Chigi.

Scelta che ha tutto il sapore di un compromesso bello e buono con gli apparati burocratici ai quali i renziani avevano lanciato il guanto di sfida. Del resto, non era stato lo stesso Renzi a dire in televisione qualche giorno fa che «L’Eni è un pezzo fondamentale dei nostri servizi segreti?». 

E l’attuale presidente della Finmeccanica Gianni De Gennaro, nominato lo scorso anno dal governo di Enrico Letta e a quanto pare l’unico destinato a restare al proprio posto, non è forse stato il predecessore di Massolo alla guida dell’intelligence della presidenza del Consiglio?

Ecco allora che il confronto fra continuisti e rottamatori è molto più dialettico di quanto non si possa pensare. O non si voglia far credere. Ed ecco perché la diatriba in qualche caso assume una veste inedita: fra chi vorrebbe optare per scelte interne (vedi Descalzi) e chi, invece, preferirebbe voltare pagina puntando su candidature esterne. Caso tipico, l’Enel. Certo l’amministratore delegato di Greenpower Francesco Starace non può essere considerato emblema della continuità con Fulvio Conti: ne è stato il principale oppositore interno. Eppure se la dovrà vedere al ballottaggio con il capo di Gdf Suez Italia, Aldo Chiarini.

Per chiudere la partita ci sono ancora quarantotto ore di tempo. Con una complicazione in più rispetto ai precedenti rituali: lo stipendio che il governo suggerirà alle assemblee dei soci di limitare a 400 mila euro annui. L’ultimo scoglio, a quanto pare, è la faccenda del genere. Si cercano donne di peso disponibili ad assumere gli incarichi di presidenza. Confidiamo che non sia questa la sola vera innovazione.

Per rinnovare il Paese, un nuovo management è urgente adesso

aziende pubblichedi Innovatori Europei

Nelle prossime settimane il governo Renzi nominerà i nuovi managers delle grandi aziende controllate dallo Stato.

Come sempre capita in questi casi, non vi è discussione pubblica a riguardo, nonostante l’importanza cruciale di queste scelte per provare a rimettere in campo il Paese – in ginocchio dopo un decennio pieno di crisi – disegnando nuove politiche industriali e nuove alleanze internazionali.

Evidente infatti quanto le grandi aziende italiane (ENI, Enel, Finmeccanica, Telecom e le altre) contribuiscono a definire quello che è il presente e quello che potrebbe essere il futuro del Paese.

In questo passaggio cruciale, il governo ha la possibilità di definirsi “innovatore”, nel rinnovare con nuove personalità e competenze di caratura internazionale i management di queste grandi aziende, per poter ragionare insieme ad essi sulle nuove sfide di natura industriale e politica, emerse nell’ultimo decennio, che possono essere affrontate e vinte dal nostro Paese.

E con un nuovo management dare il senso del cambiamento di prospettiva e di visione ad un intero Paese, con effetti positivi – politici e sociali – a cascata che sono immaginabili.

Per il momento, le attese suscitate dal Governo Renzi sono sicuramente positive e l’idea di cambiare la totalità dei top-manager attuali delle grandi imprese dopo molti anni di governo di quelle imprese e risultati a volte modesti (come documentato per la più grande società italiana, l’Eni, da un ottimo articolo di Milena Gabanelli sul Corriere della Sera) è presupposto fondamentale per continuare incisivamente la sua azione riformatrice.

A leggere la stampa delle ultime settimane, anche il Tesoro, con il competente neo ministro Padoan, sembra volere puntare dritto in questa direzione.

Come qui doverosamente già evidenziato alcuni giorni fa, l’unico elemento di perplessità in questa vicenda riguarda il lavoro di uno dei cacciatori di teste scelti a suo tempo dal precedente Governo proprio per collaborare proprio con il Tesoro alla selezione dei nomi per la guida delle grandi imprese partecipate. Ci riferiamo a Spencer & Stuart, i cui requisiti di indipendenza in questo caso rischiano di essere offuscati in quanto sembra essere consulente proprio delle grandi imprese il cui management dovrebbe contribuire a cambiare. E dalla presenza nel suo advisory board della figura politica di Gianni Letta, che fu evidentemente uno dei protagonisti principali delle nomine degli attuali vertici delle imprese di stato.

Tutte notizie che oggi risultano confermate anche da L’Espresso, con un articolo della sua importante firma Denise Pardo.

Viene allora da chiedersi: possibile che, anche per motivi di opportunità, non potesse essere individuato un altro cacciatore di teste al suo posto?

Verso le europee. Un PD più innovativo possibile. Adesso o mai più

Europee-2014di Massimo Preziuso su L’Unità

Per il Partito Democratico è tempo di spingere nel solco di quel cambiamento innovativo invocato da Matteo Renzi, per ora avviato nella comunicazione e nella forma.

Con il declino netto del Partito Socialista francese alle amministrative di ieri, a due mesi da elezioni europee  “costituenti”, fondamentali per il rilancio del Sud Europa, non si può davvero scherzare.

Soprattutto se si pensa che, dopo anni di tentennamenti, il PD a guida Renzi ha deciso di entrare nella famiglia socialista solo qualche settimana fa, dando vita ad una chiara contraddizione politica: quella del giovane premier rinnovatore, formatosi nella Margherita, che aderisce ad una famiglia politica piena di valori sedimentati nel tempo, in alcuni casi meno innovativi e attuali di qualche anno fa.

Una scelta rischiosa, dunque, come si è poi visto con i risultati di ieri. Che si sommano al precedente annuncio del mancato supporto dei laburisti inglesi al candidato socialista alla presidenza della Commissione Europea Schulz.

E allora per ovviare al rischio di una débâcle alle europee, il Partito Democratico ha una sola via possibile: quella di tradurre le speranze di rinnovamento e riformismo riposti nella carica comunicativa e di leadership di Matteo in cambiamenti concreti da qui a maggio.

Tre sono i livelli su cui operare:

– Riforme. Il PD sostenga Renzi a migliorare e approvare quella elettorale e avvii una sostanziosa spending review che dia forza ai consumi italiani, con un aumento dei salari netti degli italiani tutti (non solo i dipendenti!).

– Alleanze elettorali. La sensazione è che il PD non possa più permettersi le alleanze storiche. Fortunatamente, il “Centro Democratico” è andato ad avventurarsi nell’ALDE italiana. Ma è evidente che anche la alleanza con un “SEL” statico e pieno di contraddizioni non regge più. Essa è in forte contrasto con la visione che gli italiani e gli elettori democratici hanno di questo nuovo PD.

– Persone e competenze. Il Partito di Renzi ha finalmente la forza di aprire la porta ai  Talenti italiani presenti nel mondo, che oggi han voglia di “ricostruire” il Paese, disegnando con il governo nuove politiche industriali competitive. Lo può fare a partire dalle nomine delle aziende quotate di cui si discute in questo periodo.  Può non  farlo, riconfermando il molte volte vetusto management attuale, o imponendo figure politiche senza riguardo al merito, dando in quel caso il via ad una slavina. Evidentemente lo stesso ragionamento è applicabile nella scelta dei candidati alle europee.

In conclusione: il PD diventi più “innovativo” possibile. Faccia sua, con fatti netti e svelti, la voglia di cambiamento politico e progettuale presente nel Paese. Attui le prime soluzioni anticrisi. Altrimenti, rimanendo in una sorta di limbo tra visioni socialiste e rinnovamenti annunciati, i suoi risultati elettorali alle europee saranno sicuramente deludenti. Con effetti sulla stabilità del governo, e del Partito, immaginabili.

 

Renzi e i rinnovamenti necessari

renzidi Massimo Preziuso su L’Unità

Matteo Renzi ha deciso di accelerare e scalare il Paese, senza passare per le urne.

Forte di un consenso pressoché unanime (!?) nel Partito Democratico e in tanti stakeholders del Paese, dopo aver chiesto e ottenuto in maniera discutibile le dimissioni di Enrico Letta, presidente del consiglio del suo stesso partito, egli si propone come premier alla stessa compagine governativa (?).

Una operazione così rapida e ambiziosa è chiaramente rischiosa: lo si vedrà nelle prossime ore, fino alla richiesta di fiducia alle camere, e nei prossimi mesi, con tensioni nelle istituzioni parlamentari, dentro il Partito Democratico e nell’elettorato del centrosinistra.

Per attenuare questi rischi, Renzi allora eviti di proporre un governo di legislatura, fissando un termine per completare, migliorandole, le riforme istituzionali programmate nelle scorse settimane ed avviarne nuove sui gravosi temi del lavoro e dell’economia.

E soprattutto – per costruire un solido consenso in un Paese che sembra lentamente uscire (almeno formalmente, con un +0,1% di PIL nello scorso trimestre) da una dura recessione a “doppia V”, con una classe politica “rottamata” da dentro e da fuori – Matteo attui rapidamente una serie di ”rinnovamenti” (dal titolo di questa rubrica), ovvero cambiamenti di qualità (più che di quantità).

E allora Renzi diventi “rinnovatore” in Italia (a partire dalla composizione del governo che va a proporre a breve, per proseguire con le nomine di primavera nelle grandi aziende pubbliche) e in Europa (nel semestre europeo a guida italiana si faccia portatore delle istanze dei Paesi del Sud Europa, richiedendo a Brussels l’avvio di quei cantieri europei di crescita sostenuti dalla leva pubblica).

Contestualmente apra il governo e il Partito Democratico al contributo di variegate energie esterne presenti nel mondo dell’associazionismo e della piccola e media impresa. Lì risiede gran parte dell’energia vitale del Paese, soffocata in questi anni di austerità e di centralismo decisionale, che va adesso messa al centro della ripresa economica e sociale italiana.

Insomma, verificate nei prossimi giorni le condizioni politiche per un governo di riforme, si utilizzi questo forse irripetibile momento per “cambiare rotta” sul serio al Paese.

Se riuscirà nel 2014 su questi temi, Renzi potrà tornare alle urne da “costruttore” per vincere la vera “missione impossibile” italiana: quella di portare il centrosinistra al governo pieno del Paese, attraverso i voti degli elettori, e non ad accordi di “larghe o medie intese”.

 

Il ritorno di un principe

 di Rocco Pellegrini

Parlo di principe in questo contesto nell’intenzione con cui ne parlava Machiavelli. Il principe è un progetto di potere per governare, sviluppare e dirigere un popolo e chiedo al mio lettore di non lasciarsi forviare dall’aspetto aristocratico della parola stessa che, anche Gramsci, per stare a sinistra, considerava il progetto di fondazione del PCI come il principe della sua epoca.

Dunque oggi Matteo Renzi si gioca la carta del principe.

L’ultimo altro grande progetto analogo, pur nelle profonde differenze programmatiche e di idea stessa di civiltà e di stato, è stato fatto da Silvio Berlusconi che non ha caso è stato il politico di riferimento dell’ultimo ventennio sia nei fatti che nell’immaginario collettivo del paese.

Mi raccomando, piaccia o meno è del tutto secondario.

Per capire quel che succede bisogna, almeno per qualche minuto meglio per qualche ora, sollevare la testa dal chiacchiericcio che ci avvolge e ci condiziona e provare a pensare in grande. In fondo la politica svolge un ruolo così importante nella vita sociale perché organizza la nostra vita stessa come specie e, dunque, è bene ogni tanto ricordarsi di ciò, di questa sua funzione centrale piuttosto che pensarla, come purtroppo troppo spesso essa è, soltanto imbroglio, mercato delle vacche, corruzione e disgusto.

Insomma cerchiamo di volare alto per quanto possibile per ognuno di noi.

 

Renzi ha scalato il partito democratico, rinnovandone completamente la classe di prima fila. Non descrivo come che tutti lo ricorderanno ma ricordo che nessuno credeva possibile quel che lui si era ripromesso di fare.

Il PD, per quanto sfasciato e ridotto male dall’incuria e la debolezza culturale del gruppo dirigente che lo  ha governato negli ultimi 20 anni, resta ancora l’unica forza democratica che c’è in Italia.

Tutti gli altri, nessuno escluso, sono partiti padronali, cordate di potere pure, insomma strapuntino per la mangiatoia.

Dunque Renzi ha scalato l’unico partito che c’è in Italia degno di questo nome, dove esistono sezioni, federazioni, gruppi regionali, circoli culturali, insomma un insediamento popolare e diffuso.

Ha vinto nettamente congresso e primarie superando la primitiva debolezza del rottamatore, che pure era stata importante per scassare le vecchie  fragili certezze, ed oggi che il PD è saldamente nelle sue mani ha preso l’iniziativa a tutto campo sparigliando completamente i suoi avversari e cambiando drasticamente il quadro politico italiano.

La prima mossa è stata il cambiamento delle istituzioni coinvolgendo le opposizioni.

La seconda mossa, proprio in queste ore, la proposta di un governo di legislatura.

Sul primo punto non parlerò perché, alla luce del secondo, è solo una mossa preliminare.

Quanto al secondo, invece, spendo volentieri qualche parola di riflessione.

 

C’è una crisi delle istituzioni e del rapporto tra la politica ed i cittadini.

E’ sotto gli occhi di tutti e basta ricordarla.

Questa crisi di consenso è fortemente aggravata dalla crisi della società che vuol dire mancanza di lavoro, difficoltà di funzionamento della macchina pubblica, stagnazione della vita nelle città… Insomma quella tragedia che viviamo tutti i giorni e che ormai ci terrorizza tutti perché non si vede via d’uscita e perchè la risposta delle istituzioni che sono abilitate a farlo, soprattutto il governo, è senz’altro debolissima.

 

Chi mi segue sa che io spesso chiamo Enrico Letta, Barzel Letta.

Sia chiaro Letta è un uomo serio, stimabile, efficiente ma starebbe bene nel dipartimento di stato americano a rappresentare corazzate spaventose e poteri sublimi.

Qui in questo traballante fortino esposto a tutti i venti, in questo mare in tempesta che è la repubblica italiana sotto l’attacco continuo dei mercati finanziari e della competitività darwiniana della nostra epoca, il governo di Letta è rassicurante quanto sapere che l’esercito che ci difende è sotto il comando della principessa sul pisello.

Letta è del tutto inadeguato a fronteggiare questi marosi mentre, probabilmente, sarebbe un ottimo manager per qualcosa di forte e di compiuto.

Renzi è un ruspante, è più italiano, in tutti i sensi, meno zen e più bulimico, insomma uno di noi e soprattutto è uno che non vuole rassegnarsi a sorridere sulle macerie, a spiegare i suoi compitini mentre la crisi strozza le famiglie e distrugge la ricchezza della nazione.

Qui non ci si può rassegnare a questo andazzo, non si può più vedere una classe dirigente che sorride sulle macerie e che si fa buddhista, col tutto il rispetto che merita quella grande regione, trovando il Nirvana lei ma lasciando noi negli inferni.

Qui ci vuole qualcuno che provi a buttarsi nella mischia, nella tragedia della vita quotidiana di tanti per portar sollievo, con norme concrete, con fatti e non col pareggio di bilancio del cavolo che fa star tranquilla la burocrazia di stato ma fa suicidare gli imprenditori veneti e siciliani e dannare i vecchi minacciati da Equitalia.

E’ chiaro che Renzi stesso, e tutti quelli tra di noi me compreso che sono lineari, avrebbero preferito che il PD si sottoponesse al giudizio elettorale per arrivare al potere ma il tempo per questo processo adesso non c’è.

Nessuno lo può negare se è ragionevole. La crisi è troppo forte per il rispetto delle forme.

E quando dico forme, lo dico sul serio, perché per il governo ci vuole innanzitutto la legittimità.

Le istituzioni repubblicane sono state rinnovate circa un anno fa e dunque quelle che ci sono oggi sono del tutto legittime.

Non v’è, dunque, alcuna forzatura nell’evitare l’ennesima conta elettorale perché questo è un regime parlamentare e non esiste alcun governo eletto dal popolo nella costituzione italiana.

Queste sono menzogne berlusconiane, ne abbiamo già parlato e per me, su questo punto, finisce qui.

Si può parlare, certamente, di maggiore opportunità in una nuova tornata elettorale, questo si.

Ma dopo il giochetto della corte costituzionale e la risposta Renzi Berlusconi questo paese dovrebbe stare ancora per 8-10 mesi a bagno Maria, in mezzo al guado dell’inazione e del barzellettismo leninismo.

A Renzi sembra non giovare fare quello che fa ma lo fa.

Oggi mi ricredo: ha ragione lui. Meglio l’impegno diretto che l’inerzia.

Non c’è il tempo per tanta filosofia e tanta carineria istituzionale.

Il PD ha già la forza ed i numeri coi suoi alleati per cambiare verso e cambiare politica e mettere le mani nella merda che ce ne è davvero tanta.

Riuscirà a farlo?

E’ difficile lo so ma è l’unica cosa possibile e ragionevole.

E ci vuole un coraggio grande come una casa.

Ed è per questo motivo che io gli auguro ogni successo.

Perché l’Italia non innova più

di Leonardo Maugeri (su Il Sole 24 Ore)

In questi ultimi mesi mi sto occupando di trovare finanziamenti negli Stati Uniti per alcune start-up molto innovative in settori in cui le loro invenzioni avrebbero un’immediata e dirompente applicabilità – se di successo. La relativa facilità sia del contesto, sia di trovare interlocutori pronti a rischiare il loro denaro, mi ha spinto a un amaro parallelo con quanto avviene in Italia.

Mentre l’America continua a rigenerarsi e a uscire da ogni crisi grazie a moti periodici di innovazione, l’Italia non inventa più da troppi anni. E questa è una causa del suo declino economico.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, il miracolo economico italiano fu sostenuto dalla straordinaria inventiva di un popolo che non aveva grandi capitali: eppure, dalla chimica all’industria dei trasporti, dagli elettrodomestici alla meccanica di precisione, il nostro era un Paese che inventava, brevettava e trasformava in industria il risultato delle sue scoperte. Ricercatori innovativi trovavano capitani d’industria (allora era giusto chiamarli così) culturalmente pronti a sposare l’innovazione, a investirci sopra, a scommettere su nuovi prodotti che avrebbero cambiato il mercato e consentito di generare ricchezza e lavoro. Questo connubio naturale tra ricerca e industria, peraltro, rendeva la prima più concentrata sui bisogni e le aspettative della seconda, evitando così di disperdere risorse su filoni che non avevano prospettive commerciali. Di quel terreno fertile, è rimasto poco o niente. I ricercatori italiani sono di ottimo livello internazionale, nonostante siano pagati malissimo e siano dimenticati da tutti. Anche per questo, il numero dei brevetti italiani si è più che dimezzato rispetto agli anni Sessanta, e i brevetti di oggi spesso rappresentano solo migliorie all’esistente, non innovazioni tali da introdurre discontinuità di mercato. Molte università non hanno nemmeno un ufficio brevetti e – se lo hanno – non hanno alcuna idea di come valorizzare un brevetto. Nella mia esperienza industriale ho avuto esempi deprimenti di questa mancanza, su cui è meglio stendere un velo pietoso. Allo stesso tempo, i capitani d’industria dell’Italia post-bellica hanno lasciato il campo a grigi manager capaci di tarare le loro azioni solo sull’esistente e per un orizzonte temporale non superiore a tre anni, quello che – per il codice civile – esaurisce il loro mandato.
Per tutti loro, la ricerca è fondamentale solo a parole, in termini di comunicazione e immagine. Eppure, senza la capacità di generare nuove attività economiche basate sull’innovazione, le possibilità di crescita di un Paese sono nulle, e l’unica via è quella di competere sul costo del lavoro. Scelta che ci porterebbe verso il terzo mondo. E’ possibile cambiare questo stato di cose? Forse.
Ma occorre agire all’unisono su almeno sette fronti.
Primo: occorre liberare dalle tante vessazioni che li opprimono e dare un ruolo preminente a fondi di investimenti privato, private equity, venture capital etc. disponibili a investire nelle piccole società innovative. Nelle aree più produttive di idee degli Stati Uniti, come la Silicon Valley o Boston, ne esistono a centinaia, spesso migliaia. In Italia, secondo i dati di “Start Up Italia”, esistono solo 1.127 start up innovative, di cui solo 113 finanziate, per un misero totale di poco più di 110 milioni investiti nel 2013. Niente, rispetto agli oltre 10 miliardi di dollari che – nel 2013 – i soli venture capital statunitensi hanno trainato su start-up americane. Nel complesso, esistono (dati Aifi – Associazione Italiana Private Equity e Venture Capital) non più di 13 venture capital (contro i quasi 2.000 degli Stati Uniti o gli 800 della Germania). Ugualmente misero è il numero delle società di private equity. Con questi numeri non si va da nessuna parte. Un’ampia presenza di fondi privati e venture capital, invece, è fondamentale in quanto da noi manca una grande industria le cui articolazioni possano svolgere il ruolo di “pillar companies” – società pilastro, in grado esse stesse di finanziarie e aiutare le start-up nel loro percorso di crescita. Tuttavia, i pochi investitori nell’innovazione sono sottoposti (in quanto raccolgono capitali privati) a un sistema di vigilanza spesso vessatorio, che andrebbe drasticamente ridimensionato.
Secondo: i fondi privati dovrebbero godere di tassazioni agevolate, in particolare sugli investimenti in conto capitale. Per la fase iniziale della loro vita, si potrebbe addirittura pensare a annullare o rendere minimi tutte quegli esborsi (oneri di costituzione e registrazione, etc.) in modo da rendere attraente anche per fondi stranieri l’ingresso nel nostro Paese. Si tenga presente l’investimento in piccole società innovative è a altissimo rischio, in quanto la percentuale di start-up che muoiono prima di arrivare alla commercializzazione di un prodotto supera di gran lunga quella di quante hanno successo. Secondo un recente studio di Harvard, per esempio, solo il 25 percento delle start-up americane ha successo, nel senso che produce innovazioni vere e reddito per chi ci ha investito: ma è proprio quel 25 percento che rappresenta l’onda di continuo rinnovamento dell’economia americana. In un sistema perfetto, nessun problema: il tipico investitore si attende che i profitti realizzati su due delle dieci start-up su cui ha messo soldi eccedano di gran lunga gli investimenti complessivi. Ma in un sistema che deve decollare, come quello italiano, senza forti incentivi (e con le tante vessazioni di cui ho parlato) è difficile pensare che il capitale di rischio si muova agevolmente.
Terzo: bisogna smettere di pensare che tutta la ricerca sia utile, e quindi degna di finanziamento. In assoluto può essere anche vero, ma in pratica – per un Paese che deve ripartire – è un’idea velleitaria e dannosa. Occorre puntare su quei filoni che, in questo decennio, possono avere una grande potenzialità di mercato e in cui le barriere d’ingresso e i vantaggi accumulati dai concorrenti non siano già insormontabili. Queste caratteristiche, per esempio, escludono l’energia nucleare, ma non l’energia solare, le biotecnologie, la remediation ambientale, la chimica verde, il riutilizzo dell’acqua, i nuovi materiali a basso impatto energetico e ambientale, e molto altro ancora.
Quarto: la ricerca deve essere collegata al mercato e confrontarsi con esso. In realtà, questo aspetto è un corollario del precedente. Il ricercatore deve capire di che cosa ha bisogno il mondo che gli sta intorno e cercare di trovare delle risposte. Allo stesso tempo, deve essere in grado di presentare un business plan articolato a potenziali investitori. Pochissimi sono preparati su quest’ultimo aspetto: le università che fanno ricerca dovrebbero introdurre dei corsi specifici sull’argomento.
Quinto: tra università e l’universo di fondi e società che finanziano piccole società innovative deve esistere una sorta di simbiosi. Non a caso, grandi società, venture capital, private equity assediano letteralmente i campus del MIT o di Harvard. Da noi, come ho già osservato, gran parte delle università ha perfino difficoltà a dare valore alla proprietà intellettuale che produce, e non prepara i propri ricercatori a mettersi sul mercato. Tra i parametri di finanziamento della ricerca nelle università italiane, pertanto, dovrebbe entrare un meccanismo che consenta di misurare quel valore. Questo renderebbe più agevole e auspicabile l’erogazione di fondi di ricerca all’università – sia pubblici sia privati – e consentirebbe alle stesse università di creare fondi per finanziare spin-off e start-up da cui trarre royalty con cui finanziare altra ricerca (come fanno le grandi università americane), o per vendere le loro quote nel momento più propizio, anche attraverso periodiche esposizioni aperte agli investitori (vere e proprie mostre) delle ricerche più interessanti in atto, come fanno Harvard e MIT.
Sesto: lo stato dovrebbe limitarsi a finanziare la ricerca di base, una volta individuati i filoni di ricerca che meritano finanziamento. Chi riceve il finanziamento dovrebbe comunque presentare dei piani in cui siano presenti le tappe fondamentali che si vogliono conseguire con la ricerca, i tempi previsti per ciascuna tappa, l’originalità e la potenziale competitività di ciò su cui si lavora. Periodicamente, tutti questi aspetti dovrebbero essere rendicontati per evitare che si continuino a gettare soldi al vento per anni senza alcun controllo. Potrebbe partecipare anche al capitale di rischio dei fondi creati da università o soggetti privati.
Settimo: la proprietà intellettuale va difesa. In Italia lo si fa pochissimo, cosicché la possibilità di “scippi” di idee innovative è sempre in agguato. Il problema investe la scarsa specializzazione di studi legali e di altre organizzazioni professionali specializzate in materia. Visto che il mercato da solo non può dare in brevi tempi una risposta a questo problema, forse sarebbe più utile che lo stato o le regioni creasse questo tipo di organizzazioni sul territorio.

 

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