Significativamente Oltre

Europa e Mediterraneo

Seconda lettera al sindaco di Frosinone

Verso una democrazia partecipativa

La Rete Indipendente “ Nuove Idee nei territori” ritiene urgente ed auspicabile, all’interno della Amministrazione comunale di Frosinone, proporre l’istituzione a costo zero di un tavolo di lavoro per l’organizzazione di un modello di democrazia, quello del governo partecipato, responsabile e condiviso e di un Garante ai “Beni Comuni e alla Partecipazione”.

Si propone contemporaneamente una riflessione che, rispondendo ai principi di trasparenza e integrità, previsti dalla normativa vigente per tutte le pubbliche amministrazioni istituisca referendum abrogativi e propositivi senza quorum soprattutto per le opere di interesse pubblico e dai costi sociali particolarmente rilevanti quale risposta ad un percorso di consultazione nel pubblico dibattito.

Proponiamo altresì l’adozione dello schema operativo di Agenda 21 locale che può diventare un modo di operare strategico a medio e lungo termine essendo modello partecipativo, democratico, antidogmatico e consapevole responsabilizzante tutti i soggetti partecipanti al dibattito sulla cosa pubblica. Inoltre, attenendosi al principio di legalità nella gestione delle amministrazioni, appare determinante che nei contratti pubblici sia abolito il criterio del “massimo ribasso” e venga istituita una commissione comunale, sempre a costo zero, per l’attuazione di un sistema tale da controllare in automatico eventuali infiltrazioni malavitose mediante verifiche incrociate dei dati su appalti, licenze, redditi, anagrafe. Sarà fondamentale, per evitare sprechi, implementate sia la formazione che l’aggiornamento dei dipendenti comunali così da ridurre al minimo le consulenze esterne.

 

Certi di trovare adeguata risposta alla suddetta proposta la Rete si rende disponibile ad una collaborazione, su un concetto chiave di gratuità assoluta, perché il percorso individuato sia fattibile ed in linea con una idea di innovazione dei Governi locali.

Giuseppina Bonaviri

Rete Indipendente “Nuove Idee nei territori”

Pd/ Un intreccio complicato di tesoreria, affari, e di discutibile senso di responsabilità

di Pierluigi Sorti

Mentre scriviamo, come radio e televisioni informano, sono contemporaneamente in corso la deposizione formale ai magistrati inquirenti, dell’ ex senatore Luigi Lusi,  e le allocuzioni, in due differenti convegni, di due presumibili contendenti alle primarie del centro sinistra, se ci saranno, che dovranno determinare il candidato premier del centro sinistra : Pier Luigi Bersani, a Roma,  e Matteo Renzi, a Firenze.

Non risulta che i due esponenti del Pd abbiano ritenuto di far cenno al concomitante evento dell’ avvio formale di una azione giudiziaria che mette in discussione la legittimità di gran parte dei gruppi dirigenti del Pd di cui,  specificamente Bersani ( ex Ds ) , come segretario, e Rosi Bindi ( come presidente del partito ), dovrebbero essere, ma non sono,  in massimo grado consapevoli.

Eppure dovrebbe essere evidente il declino del loro credito politico serpeggiante nelle fila degli iscritti al Pd  e, ancor più,  degli elettori del centro sinistra, in rapporto ai loro comportamenti nel caso Lusi e di quello altrettanto non commendevole del consigliere regionale Penati.

Nel quadro della acclarata gravità del caso Lusi e del caso Penati, emerge  chiarissima la profonda insensibilità politica che sta alla base della legge istitutiva degli oltremodo cospicui rimborsi, solidalmente con  tutti i partiti, e la violenza ( non solo lessicale, on. Rosi Bindi ) con cui è stato fatto strame del referendum abrogativo di ogni forma di finanziamento pubblico, approvato da quasi trenta milioni  di elettori.

E’ doveroso dare eticamente credito alla parola di Bersani , non dichiaratosi informato delle super disinvolte operazioni amministrative del capo della sua segreteria politica, Penati, nella sua veste di presidente della Provincia di Milano,

Ma è altresì doveroso sottolineare che, proprio sotto tale rispetto, egli abbia evidenziato, una profonda incapacità di conoscenza psicologica e di sagacia selettiva degli uomini di cui aveva scelto di avvalersi.

Vi è una responsabilità “in vigilando” che, per un uomo politico, deve ritenersi altrettanto importante della su stessa onestà personale.

Chi non ricorda le dimissioni immediate del presidente tedesco Willy Brandt appena reso edotto che uno degli uomini della sua segreteria era indagato come sospettabile di spionaggio ?

R-innovamenti BRICS: intervista a Sandro Gozi

R-innovamenti BRICS: intervista a Sandro Gozi

 di Massimo Preziuso (su L’Unità)

Intervista a Sandro Gozi, responsabile politiche europee del Partito Democratico e del comitato parlamentare Italia – India

Ciao Sandro.

All’interno del progetto Innovatori Europei BRICS, abbiamo voluto intervistarti perchè sei la persona più adatta con cui parlare di politiche innovative per lo sviluppo delle relazioni del nostro Paese con questi luoghi dotati di straordinaria rapidità di cambiamento e opportunità.

1)      Partiamo dalla fine: Non credi che il nostro Paese debba rovesciare il (falso) problema della delocalizzazione delle nostre fabbriche e lo spostamento di investimenti verso i paese emergenti e soprattutto BRICS, aiutando – soprattutto i giovani – a comprendere le enormi opportunità che risiedono in tali luoghi? Non è il momento di una ondata di “emigrazione” di cervelli italiani in Paesi come l’India, che possano poi diventare i nostri ponti per la creazione di relazioni di ogni tipo (come avviene in Germania o Inghilterra tramite le istituzioni universitarie)?

Quello della delocalizzazione delle nostre imprese all’estero è solo in parte un falso problema. Se infatti si considera che il nostro paese continua a perdere posizioni nella classifica degli “attrattori” di investimenti diretti esteri, la delocalizzazione delle imprese italiane all’estero si traduce in un perdita di capitali, di occupazione e di prelievo fiscale, in molti casi. In secondo luogo se è vero che i BRICS sono ormai paesi non più emergenti ma “emersi” pur tuttavia non sono l’eldorado. Grandi possibilità, certo, ma anche grandi difficoltà sia per i lacci e laccioli della burocrazia (India), sia per le difficoltà della crisi economica (Cina) e delle sue conseguenza, il ritorno del protezionismo in particolare. Non dimentichiamo che se è vero che siamo ancora in una fase di piena globalizzazione, nondimeno il fenomeno della deglobalizzazione, cioè il ritorno delle imprese nei paesi di origine, si sta facendo consistente.

Sulla questione dell’emigrazione guidata, non sono d’accordo. Per una serie di ragioni. Innanzitutto la parola “emigrazione” sa di fame e povertà. In secondo luogo mi ricorda due fasi della storia italiana – quella post unitaria e quella del dopoguerra – quando per risolvere l’instabilità del sud e la disoccupazione si favorì l’emigrazione. Per assurdo, è chiaro che facendo emigrare tutti i disoccupati, si risolverebbe il problema in un lampo, ma questa scorciatoia non può essere l’obiettivo di una politica seria e responsabili per il bene del Paese. Questo non significa certo chiudere i confini del paese, ma fare in modo che la decisione dei giovani di andare all’estero, o nei BRICS, nasca da una libera scelta più che da una stringente necessità. Per questo sarei favorevole a sprovincializzare il Paese, ad avviare campagna di informazione su questo grande fenomeno che è l’emersione dalle nuove potenze e ad aprire canali che possono facilitare coloro che hanno deciso di cogliere le nuove opportunità presenti in questi mercati. Ma non mi spingerei oltre.

2)      Andando all’India, quali i settori di maggiore cooperazione? Secondo noi si dovrebbe cominciare dallo sfruttare sull’ enorme apertura del loro settore retail e puntare poi su Cultura, Moda, Tecnologie, Energia, Ingegneria e Meccanica – Manifattura, dove l’Italia detiene un enorme vantaggio competitivo. Che ne pensi?

I paesi europei, nel complesso, hanno rappresentato il 19%  delle importazioni indiane; fra questi il 3,6% proveniva dalla Germania e il 2,1% dal Belgio; Francia e  Italia detenevano una quota pari a 1,5% e 1,3%, rispettivamente (Anno fiscale 2009-2010). Nello stesso arco temporale le esportazioni indiane verso l’italiana rappresentano il 1,9% delle esportazioni complessive del paese (Olanda, 3,6; Regno Unito, 3,5; Germania 3%; Francia, 2,1)

“Sulla base dei dati Istat, nel primo semestre del 2010 le importazioni dall’India sono ammontate a 1,8 miliardi di euro, salendo del 19,4% rispetto al medesimo periodo del 2009, a fronte di una crescita del 18% registrata da quelle complessive; cfr. Tavola 5; la quota di mercato delle merci indiane nel nostro paese è pertanto salita leggermente all’1,03 per cento a quelle cinesi era invece riconducibile il 6,8%. Le importazioni dall’India si compongono in primo luogo di prodotti dell’industria tessile e dell’abbigliamento, con un’incidenza del 29%, seguiti dai mezzi di trasporto 13% e dai prodotti di base e metallo e quelli chimici rispettivamente 10,7% e 10,3%. Sempre sotto il profilo merceologico, i mezzi di trasporto sono fra i prodotti per cui si registra il più sensibile aumento nell’incidenza complessiva sulle nostre importazioni dall’India” (Fonte Ice MAE)

“La maggiore dinamicità delle economie emergenti si è riflessa nell’evoluzione ancora sostenuta delle esportazioni italiane verso questi paesi. Quelle verso l’India, pari a 1,51 miliardi di euro, hanno segnato un aumento del 23,3%, quasi doppio di quello registrato dalle nostre esportazioni complessive 12,6%, e in linea con la dinamica segnata nei confronti della Cina 23%. Fra i prodotti italiani più esportati in India, figurano in primo luogo i macchinari e gli apparecchi elettrici e meccanici con una quota del 43,1%, seguiti dai prodotti di base in metallo 12,1%, le sostanze e i prodotti chimici 9,3% e i mezzi di trasporto 6,7%” (Fonte Ice Mae).

C’è però una riflessione da fare sul caso indiano. La struttura dell’economia indiana è infatti assolutamente sui generis: se infatti un parte del paese è ormai proiettata nella fase post-industriale (servizi e prodotti ad alta intensità di capitali e di conoscenza), un’altra parte del paese (senza una precisa demarcazione territoriale) è ancora in una fare pre-industriale. L’India oggi per risolvere una parte dei problemi che l’affliggono ha pertanto bisogno di una fase industriale, fatta di attività labour-intensive. Io credo che qui, in un’ottica di cooperazione mutualmente vantaggiosa per l’Italia e per l’India, le nostre imprese possono giocare un ruolo significativo.

3)      Quali i primi passi compiuti e quali i passi da compiere in Italia per creare concrete collaborazioni con l’India?

Credo sia unanimemente riconosciuto che il viaggio di Romano Prodi abbia rappresentato un punto di svolta nelle relazioni tra i due paesi. Sulla scia di quell’esperienza si è inserito il rilancio dell’Associazione Italia-India che ha organizzato varie iniziative a riguardo.

4)      Facilitare i Visti di professionals e studenti BRICS aiutandoli all’inserimento professionale ex – ante e all’inserimento sociale in itinere in Italia. Una idea realizzabile?

5)      Non è limitante l’approccio usato dall’inziativa targata Partito Democratico denominata “Controesodo” che facilita il rientro degli Italiani residenti all’estero attraverso una Tax facility? Non dovrebbe semmai essere applicata al contrario, per i talenti BRICS che vengono in Italia?

Rispondo a queste due domande congiuntamente. A proposito di un percorso preferenziale per i visti professionals e per gli studenti, lo ritengo non solo un’ottima idea, ma anche un fronte sul quale l’Associazione sta già lavorando. L’approdo di nuove intelligenze e di nuovi talenti non può che far bene alla cultura e all’economica dell’Italia, il che poi significa anche creare quell’intreccio di legami umani che sono la vera forza nelle relazioni bilaterali tra i paesi. Per questo sono assolutamente favorevole all’ipotesi di una Tax facility per i talenti dei BRICS. Tuttavia credo che non basti, insieme alle misure di facilitazione fiscale, servono anche delle politiche “umane”: politiche di accoglienza, politiche abitative, iniziative che favoriscano l’inserimento scolastico, per i figli di coloro che hanno deciso di venire a lavorare in Italia ed infine affrontare la questione della cittadinanza per le seconde generazioni. A tale proposito mi sia permesso citare Max Frish, l’intellettuale elvetico, che riflettendo sugli errori della politica migratoria svizzera così si espresse “Volevamo braccia, sono arrivati uomini”. La scelta di lasciare il proprio paese è, per il migrante, una scelta di vita, che tocca ogni aspetto della propria esistenza. E’ per questo che se si vogliono attuare delle politiche migratorie che favoriscano l’approdo in Italia di alcuni gruppi o categorie, bisogna pensare ad interventi che coprano la globalità dell’esperienza umana, per non commettere ancora una volta l’errore di voler “parcellizzare” l’immigrato, “prendendo” solo ciò che ci pare più utile e dimenticando che dietro ogni talento, dietro ogni professionista, c’è un uomo che ha in testa un proprio progetto di vita, per sé, per la sua famiglia e per i suoi figli.

Grazie per la disponibilità.

Massimo Preziuso

www.innovatorieuropei.com

 

Elezione Hollande in Francia interessa l’Italia e la UE

di Gianni Pittella (su www.trentamag.com )

 

Il nostro paese deve guardare con grande attenzione al primo turno delle elezioni presidenziali che si terranno domani in Francia. Lo dico non per un interesse politico di parte, ma perche’ la Francia, l’Europa e l’Italia hanno bisogno che il socialista Francois Hollande sia eletto il prossimo 6 maggio Presidente della Repubblica francese.

E’ un sentimento che so essere condiviso anche da molti esponenti italiani di centrodestra e il motivo è chiaro: la Presidenza Sarkozy ha contribuito ad indebolire i valori europei in nome di una visione fragile e confusa dell’Europa. Troppo spesso ha seguito passivamente le indicazioni di Angela Merkel, costringendo l’Europa ad un’austerita’ forzata che deprime l’economia. L’Europa di Sarkozy e’ l’Europa della crisi senza fine, della disoccupazione di massa, dell’impotenza della politica di fronte alle forze finanziarie. Con Francois Hollande e’ possibile voltare pagina e ridare fiato all’Europa della crescita, dell’occupazione e dello sviluppo.

Per sostenere la crescita di lungo periodo e’ fondamentale riprendere lo spirito della lettera che 12 governi, tra cui l’Italia, hanno inviato in febbraio a Barroso e Van Rompuy: bisogna completare il mercato interno per sostenere la crescita di lungo periodo superando le strozzature che oggi esistono nel mercato unico. Il completamento del mercato interno consentira’ non solo una maggiore crescita ma permettera’ anche di superare quelle asimmetrie macroeconomiche che oggi minano la zona euro. Mi riferisco all’esistenza di un dualismo economico tra un blocco germanico economicamente centrale e prospero e una periferia mediterranea, fragile e deindustrializzata.

E’ necessario andare oltre l’austerita’ imposta dal Fiscal Compact, come sostengono i socialisti francesi, il nostro gruppo S&D al Parlamento di Strasburgo e tutti i partiti nazionali aderenti alla grande famiglia del Partito socialista europeo.

Il capo-economista del Fmi, Olivier Blanchard, ha giustamente parlato di una schizofrenia dei mercati finanziari: non si puo’ infatti chiedere allo stesso tempo una maggiore austerita’ assieme a una maggiore crescita, come certi operatori finanziari stanno facendo. Con l’austerita’ fine a se stessa infatti non si crea crescita, ma recessione. I conti pubblici vanno certamente risanati, ma solo nuovi investimenti destinati a sollecitare la crescita dell’economia garantiranno la sostenibilita’ delle nostre finanze pubbliche. Per questo vincolare la nostra capacita’ espansiva introducendo il pareggio di bilancio addirittura nella Costituzione e ratificare il Fiscal Compact senza modifiche e’ un errore. Migliorarlo non e’ solo una scelta giusta ma e’ anche un atto di realismo politico legato ai futuri, probabili, equilibri politici europei. Se davvero Francois Hollande sara’ eletto presidente della Repubblica in Francia, la Francia chiederà un miglioramento di questo patto in modo da ricalibrarlo in senso piu’ favorevole alla crescita. Il Fiscal Compact sara’ quindi ridiscusso e l’Italia deve riposizionarsi su questi temi sin da ora”.

Nel breve periodo, di fronte al disordine dei mercati, dobbiamo ottenere che la Bce giochi appieno il suo ruolo, utilizzando efficacemente gli strumenti di politica monetaria. Deve essere riattivato il Securities Markets Programme per dare ossigeno alle finanze pubbliche dei paesi in difficolta’, continuare ad attuare politiche monetarie non convenzionali, per fornire liquidita’ al sistema bancario e produttivo. I tassi di interesse di riferimento vanno ridotti per sostenere gli investimenti e contrastare la stagnazione economica.

Innovatori Europei al “EU-RUSSIA Civil Society Forum”

All’interno del nostro nuovo ambito di interesse per i paesi BRICS , in questi due giorni abbiamo partecipato al gruppo Energia e Ambiente dell’ “EU Russia Civil Society Forum“.
 
Durante i lavori, abbiamo proposto idee concrete di partnership quali “co-investimenti green in Russia e il lancio di programmi di educazione ambientale per le scuole di entrambe le aree”.
 
Nelle prossime settimane entreremo nella fase operativa, con l’avvio dei primi progetti.
 
PS: per il progetto BRICS siamo alla ricerca di collaboratori – editorialisti dal Brasile e dalla Cina

“Prima Persona” presenta “European Common Goods” al Parlamento Europeo

Domani, 23 Novembre al Parlamento Europeo di Brussels l’associazione promossa dal Vice Presidente Gianni Pittella – Prima Persona – presenterà  il manifesto “European Common Goods“.

Innovatori Europei Brussels partecipa all’iniziativa e porta con sè la Bozza del Manifesto “Ricostruiamo l’Italia con le Rinnovabili”, promosso insieme a SOS Rinnovabili, per nuovi suggerimenti e proposte migliorative.

Vi aspettiamo.

 Per chi volesse contattarci: infoinnovatorieuropei@gmail.com

Le lezioni su La7 di Romano Prodi: istruzioni per l’uso

Pubblichiamo con piacere questo ottimo articolo di Alessandro che ci spiega perchè il Professore – che è stato nei fatti il motore della nascita di Innovatori Europei nel 2006/7  – ha tanto da dare e da dire nel 2011 ad un’Italia carente di visione politica (e credibilità) internazionale.
 
 

prodi

E’ giunto il momento di aggiornare, brevemente, la parte dello Spazio della Politica dedicata alla “prodologia”, la disciplina che si occupa dello studio di Romano Prodi. Ne abbiamo parlato già a fine 2009, in un articolo in cui notavamo il suo attivismo nei rapporti internazionali e in particolare con la Cina, e a fine 2010 ne “L’eterno ritorno di Romano Prodi”, abbiamo esposto un punto di vista volutamente provocatorio sulla forza della sua leadership rispetto al resto del panorama politico-economico del Paese. Proprio in questi giorni, alla notizia della presenza televisiva di Prodi si è affiancata quella dell’uscita di un nuovo libretto, dal titolo “Futuro cercasi”. La dignità scientifica della prodologia può essere messa in discussione: perché Prodi? Perché ancora lui? Non è vecchio? Perché dobbiamo essere governati da Prodi e non da tanti Massimo Zedda?

A partire da questi presupposti, è interessante chiederci di che cosa parlerà Prodi nelle sue già celebrate lezioni su La7 e, soprattutto, perché è importante occuparcene, mantenendo un’attenzione sui temi, ancor più che sulla sua “campagna” per la presidenza della Repubblica. Ecco quindi un piccolo riassunto apocrifo dei suoi corsi.

1. Il mondo visto dalla Cina. Gli scritti sul Messaggero e  le conferenze degli ultimi anni (in gran parte consultabili qui) testimoniano un fatto: Prodi si è rimesso a studiare. I suoi studi si concentrano proprio su quella idea ambiziosa di “formazione globale” di cui tante volte su Lo Spazio della Politica abbiamo cercato di seguire le tracce. Perciò Prodi cercherà di raccontare ai suoi ascoltatori-studenti i cambiamenti e le contraddizioni del mondo, dalle opportunità e i rischi per l’Africa alla Cina, su cui come sappiamo Prodi ha accumulato un notevole capitale di conoscenza e di relazioni. Prodi cercherà di raccontare la Cina agli italiani attraverso piccole immagini efficaci per i cittadini e per le imprese, come questa di Wenzhou. Spiegherà che non dobbiamo avere paura di una “spartizione cinese dell’Europa”, ma dobbiamo pensare piuttosto a un “rinascimento cinese”, riprendendo la visione del suo collega alla CEIBS David Gosset, direttore dell’Academia Sinica Europea, nell’ultimo volume del rapporto Nomos & Khaos. L’attualità e la sua storia personale imporranno a Prodi una particolare attenzione per l’Europa: sugli squilibri attuali, sulle incertezze dell’ultimo decennio, sulle responsabilità della sua classe dirigente.

2. Il “capitalismo senza volto”. La raccolta di scritti pubblicata dal Mulino nel 1995 nella collana “Tendenze”, e intitolata “Il capitalismo ben temperato”, si apre con lo scritto del 1991 “Esiste un posto per l’Italia tra i due capitalismi?”. In esso Prodi si inserisce sul dibattito in corso sulle varietà dei capitalismi (richiama spesso che i suoi lavori risalgono allo stesso periodo di quelli di M. Albert), affrontando alcuni nodi irrisolti del caso italiano, quello appunto del “capitalismo senza volto”. Tra i saggi vi è anche un programmatico “La società istruita. Perché il futuro italiano si gioca in classe”. I temi affrontati dal Prodi studioso, e i nodi irrisolti del Prodi politico, saranno ripresi in un contesto, con la ripresa di una discussione sulle politiche industriali, che non può non considerare l’apporto dell’economia digitale. E ormai, quanti capitalismi esistono? Come abbiamo scritto in passato, il puzzle si è complicato. Mentre gli economisti si dividono, dobbiamo aggiungere il capitalismo brasiliano, il capitalismo turco e molti altri a una visione troppo ristretta. E Prodi aggiungerà: “Non pensate mica di poter dire ai cinesi che sono “renani”, perché si sentono piuttosto del “delta del fiume delle perle” o di quelle robe lì…”. Mentre si delibera sul modello perfetto o sui modelli meno imperfetti, sarà pur vero che qualcuno dovrà lavorare, competere, dare da mangiare ai propri figli, abbattere o accrescere il debito pubblico, portare rubinetti italiani in Estremo Oriente passando per Suez. Questo modo di ragionare resta prezioso: o ci appassioneremo alla realtà dell’Italia o non ce la caveremo affatto. In questo, Prodi può comunicare a una vasta platea la sua eredità fondamentale, che è stata colta una volta per tutte da Edmondo Berselli con queste parole:

Piuttosto che occuparsi dell’ultima impalpabile variazione della teoria sraffiana del valore, e della produzione di sofismi a mezzo di sofismi, valeva la pena di mettere sotto osservazione l’economia italiana nel suo aspetto fenomenologico. Ed ecco allora voluminose ricerche sull’industria delle calzature, sulla produzione di piastrelle del distretto ceramico di Sassuolo, sull’industrializzazione diffusa delle Marche, in sostanza sull’Italia osservata da vicino, e non fantastica o immaginaria.

3. Il futuro del welfare. Proprio Edmondo Berselli ha messo lo zampino anche nella terza grande questione di cui si occuperà Prodi: il futuro del welfare. Già durante la presentazione del libro postumo del suo amico, “L’economia giusta”, Prodi aveva sottolineato questo punto:

Ogni giorno viene tolto un pezzettino dello Stato sociale… Andiamo avanti in questa situazione di essere costretti ad arretrare nelle conquiste sociali o possiamo fare un salto in avanti tramite un discorso di solidarietà e riorganizzazione della nostra società? (…)

Nonostante la vorticosa crescita che dà un senso tutto opposto alla società cinese e indiana rispetto alla nostra, non di ritirata ma di grande avanzamento, però la differenza tra ricchi e poveri aumenta anche in queste società. (…)

È interessante, perché in tutte le analisi del mondo trovo in questo momento un solo Paese in cui per un periodo medio di un terzo di generazione la distanza è diminuita, ed è il Brasile. Questo in fondo social-liberal-mercat-cristianesimo che ha fatto Lula, in questa meravigliosa sintesi di una vita diversa da tutti gli altri, è uscito sconfitto in tre elezioni e a fare una sintesi di tutto. E a interpretare in modo notevole questi fatti. E riesce – in una situazione di sviluppo – eh eh, a non aumentare queste differenze che sono, come dice Edmondo, caratteristiche di una società puramente mercantile.

Riassunto delle puntate precedenti. Negli anni ’90, Bill Clinton, nella sua strada per i successi nell’abbattimento del debito pubblico degli Stati Uniti, ha affermato di voler chiudere la storia del “welfare come lo conosciamo”. Il punto è stato condiviso da Blair. Come sappiamo, nella spesa pubblica italiana le voci della pubblica amministrazione, della previdenza e della sanità hanno un peso determinante. Ma che cosa può esserci alla fine del welfare come lo conosciamo, concretamente? Se consideriamo la sua fine naturale, possono esserci gli effetti della crisi del debito europeo sulla lotta contro il cancro, che forniscono un’immagine del futuro possibile. Durante il congresso europeo di oncologia a Stoccolma, notevole attenzione è stata dedicata a uno studio sull’aumento dei costi delle cure, e un recente articolo pubblicato su “The Lancet Oncology” ha lanciato l’allarme della crisi del costi, in particolare nei Paesi che invecchiano. In Grecia, la Roche ha sospeso la fornitura di anti-tumorali ad alcuni ospedali greci fortemente indebitati.

Sintetizzando, la domanda “ci sarà una piazza Tahrir italiana in autunno?” (ne abbiamo parlato qui e qui) è ritenuta più interessante della domanda “ci saranno i soldi per i farmaci contro il cancro negli ospedali pubblici italiani in autunno?”. La seconda domanda è più farraginosa e parla di una cosa precisa: è prodiana. Ma parla di un futuro prossimo possibile dell’Europa e dell’Italia, e merita di essere considerata.

Come si vede da queste anticipazioni, con le lezioni di Prodi – magari la sua voce sonnecchiante, col bofonchiare imperturbabile in italo-bolognese, inglese o cinese, andrà intervallata da qualche servizio appassionante, chiedere per informazioni ad Al Jazeera e ai documentari di Niall Ferguson, astenersi CCTV – il nostro dibattito pubblico compirà qualche passo avanti. Gran parte del dibattito pubblico italiano, difatti, si avviluppa sul concetto di “informazione”. In realtà, seppur in un sistema televisivo anomalo, disponiamo di molta informazione. A volte ci manca la formazione. Per questo abbiamo ancora bisogno del vecchio Professore.

Il Sud sta morendo

di Francesco Grillo su Il Mattino

 Il Sud sta morendo. Potrebbe essere questa la sintesi del rapporto annuale della SVIMEZ presentato ieri a Roma. Sta morendo messo definitivamente nell’angolo dalla scarsa attenzione dei media e della politica, a Roma, così come a Napoli e a Bruxelles da una crisi più vasta che rischia di minacciare la stessa sopravvivenza del progetto europeo, così come di quello unitario. E, tuttavia, il rapporto – impietoso e condivisibile nelle analisi – appare non affrontare direttamente la questione delle classi dirigenti che è il nodo che ha strozzato qualsiasi prospettiva di sviluppo.

Più di quelle relative all’evoluzione del PIL, tra le molte cattive notizie che il rapporto fornisce, quella che colpisce di più riguarda il lavoro, i giovani, alla quantità e alla qualità di capitale umano che il Sud sta perdendo e, di conseguenza, a ciò che sta diventando la società meridionale.
La recessione nel Sud è, soprattutto, il crollo nel numero di occupati in un territorio che già prima della crisi vedeva le quattro grandi regioni del Sud collocate agli ultimi quattro posti tra le duecentocinquanta regioni europee.
Se tra il 2008 ed il 2010 in Italia si sono persi più di mezzo milione di posti di lavoro, ciò che impressiona è che il Sud – che rappresenta meno di un quarto dell’economia nazionale – ha assorbito più della metà di queste perdite. Ma ancora più eclatante è constatare che in effetti questa riduzione è interamente concentrata nella fascia di popolazione tra i quindici e i trentaquattro anni: in soli due anni gli occupati giovani si sono ridotti di una percentuale superiore al venti per cento. Questa ritirata in massa dei giovani dal mondo del lavoro nel Sud non è, peraltro, attenuata da un aumento del numero di persone che frequentano l’università: se nell’anno scolastico 2002 – 2003 il numero di diplomati che sceglieva di iscriversi ad un corso di laurea era simile nel Nord e nel Sud – e superiore al settantadue per cento – dieci anni dopo questo valore è crollato di dodici punti nelle regioni meridionali. Il risultato finale è l’incrementodei giovani che non sono né impegnati nello studio, né nel lavoro: i laureati con età inferiore a trentaquattro anni e che sono in una situazione di totale inattività sono centosettantamila ed il paradosso è che dovrebbero essere la punta più avanzata di una società che decidesse di voler essere normale.

La questione meridionale è, dunque, sempre di più questione generazionale. Del resto ai giovani del Sud rimane spesso solo l’opzione della fuga: seicentomila – buona parte laureati – si sono spostati verso il Centro Nord negli ultimi dieci anni lasciando progressivamente un Sud che – rispetto agli stereotipi – è semplicemente sempre più vecchio, sempre più assistito e soprattutto senza capacità di dare voce ad un progetto politico qualsiasi.

Il problema è ancora però quello delle classi dirigenti politiche ed amministrative che continuano a perdere un’occasione dietro l’altra e che hanno di fatto spezzato qualsiasi possibilità di ricambio lasciando a chi aveva competenza e talento solo la possibilità di andare via.

I dati, del resto, continuano a togliere qualsiasi legittimità alla lamentela sulla mancanza di fondi. È vero che la quota di spesa pubblica in conto capitale e, persino, quella corrente destinata al Mezzogiorno continua a scendere, come rivelano i dati della SVIMEZ. Tuttavia, è altrettanto vero che come dice la ragioneria generale dello Stato le regioni del Sud non riescono a spendere neanche i soldi dei fondi strutturali: a poco più di due anni dalla fine del periodo di programmazione 2007 – 2013 dei quarantaquattro miliardi di euro messi a disposizione dai programmi comunitari per lo sviluppo del mezzogiorno non ne sono stati spesi neanche cinque, laddove la peggiore prestazione è quella della Regione Campania che pure era una delle amministrazioni europee con la maggiore quantità di risorse a disposizione.

Non convince in questa situazione la creazione di nuove agenzie o di nuovi coordinamenti che rischiano di sommare tra di loro debolezze ed incapacità. Bisogna, invece, avere il coraggio di mettere pesantemente in discussione l’insostituibilità delle amministrazioni pubbliche.

Le idee che altre regioni che sono riuscite nel miracolo che solo alle regioni del Sud non riesce ci sono già: coinvolgimento di fondi di venture capital ai quali demandare l’individuazione e la condivisione del rischio di progetti innovativi; sostituzione di amministrazioni pubbliche incapaci – da individuare attraverso criteri oggettivi, semplici e trasparenti – con altre che si sono dimostrate migliori e che esistono anche al Sud a pochi chilometri di quelle inefficienti; distribuzione diretta ai giovani di parte delle risorse sotto formadi buoni con i quali comprare formazione o di incentivi fiscali per chi decida di tornare e di mettere a disposizione di un progetto il proprio talento; finanziamento di parte del capitale di cooperative di cittadini che accettino la sfida di far funzionare ciò – musei, siti archeologici – che lo Stato ha abbandonato.

Tutte queste misure partono però dal presupposto di porre concretamente la necessità di applicare concretamente il principio della sussidiarietà e dall’idea che nessuno possano usare risorse scarse senza darne conto e che ci sia, invece, nella società – anche in quella meridionale – l’energia per poter invertire declini che non sono mai irreversibili.

(pubblicato su Il Mattino il 28 settembre 2011)

Alla nostra energia ci pensi Iddio!

di Andrea Bonzanni su Lo Spazio della Politica

Sono passati solo tre mesi dal referendum abrogativo sul nucleare ma sembrano secoli. Gli studi televisivi e le pagine dei giornali di quei giorni, croce e delizia di noi geeks dell’energia, non ci sono più. I discorsi sopra i massimi sistemi (energetici) si fanno al massimo in qualche convegno. Vox populi vox dei, è vero. E il popolo il suo verdetto l’ha dato. Ma i temi sollevati in quei giorni, al netto delle tirate di Celentano e soci, non possono essere seppelliti da una croce su una scheda elettorale e dall’abrogazione di un paio di commi di un decreto-legge.

Bocciata dalla volontà popolare la discutibile opzione nucleare, continuare con il business as usual non è tra le possibilità da annoverare. Vi sono impegni vincolanti di riduzione delle emissioni di CO2 che l’Italia, in quanto membro dell’Unione Europea, ha sottoscritto e deve rispettare. Vero è che a noi questi obiettivi non sono mai piaciuti: la voce grossa di Stefania Prestigiacomo al Consiglio europeo dei ministri dell’ambiente nel 2008 è stata una delle ultime battaglie italiane in seno alle istituzioni europee. I Polacchi, orgogliosi delle loro miniere di carbone, ci sono anche venuti dietro, ma gli altri hanno preso una strada diversa e con buona pace dobbiamo adeguarci.

Gli obiettivi per il 2020 saranno raggiunti più per cause contingenti che per meriti della nostra politica energetica. La caduta e stagnazione del PIL, cui la domanda di energia è fortemente correlata, ci dovrebbe permettere di ridurre le emissioni di CO2 del 20%. La quota del 20% di fabbisogno energetico coperta da energie rinnovabili sarà composta per oltre la metà da centrali idroelettriche, vale a dire da investimenti in larga parte realizzati dalla buona vecchia ENEL pubblica, più o meno nel neolitico.

Ce la siamo cavati, verrebbe da dire. Ma non basta. L’Unione Europea, cui certo non mancano ambizione e visione di lungo periodo, ha rilanciato e proposto una riduzione delle emissioni di CO2 tra l’80% e il 95% nel 2050. Un gruppo di 15 esperti sta preparando una Roadmap con scenari e opzioni su come raggiungere l’obiettivo. La pubblicazione del documento è prevista per la fine di novembre, poi inizierà il lungo e intricato iter legislativo europeo.

La battaglia delle idee e degli interessi è già cominciata. Nucleare, rinnovabili, gas naturale e carbone, soli o « puliti » da tecnologie di cattura e sequestro del carbonio sono ai blocchi di partenza, con i loro pregi e difetti, simpatizzanti e nemici, paesi, industrie e partiti di riferimento.Anche a livello nazionale le posizioni sono ben definite: la Germania industriale spinge forte sull’innovazione tecnologica sperando che il resto d’Europa compri tecnologia tedesca. La Gran Bretagna dei commercianti e dei finanzieri punta sulle interconnessioni e mira ad esportare l’eolico del Mare del Nord verso il continente. La Francia con il nucleare è grossomodo a posto così. La Polonia fa blocco e ambisce a ergersi alla testa di un gruppetto di scettici centro-orientali per strappare qualche concessione, magari sul budget 2014-2020 in corso di discussione.

L’Italia è assente ingiustificato. La totale latitanza di un paese fondatore, quarta economia dell’UE, da un dibattito di tale rilevanza rispecchia la debolezza e l’isolamento di cui ahimè soffriamo nell’Europa di oggi. Ma se nel 2050 l’attuale governo, i suoi ministri e (quasi) tutti i parlamentari non ci saranno più, ci sarà ancora un paese che godrà o piangerà delle politiche adottate in questi mesi. Nel settore energetico si parla di foresight e lock-in : le decisioni prese oggi avranno un impatto sui prossimi 20, 30 e 40 anni.

Sarebbe facile prendersela solo con il governo che non governa, che pure ha le sue gravi colpe. Ma su questi temi, una mancanza di progettualità è dovuta anche alla scarsa qualità del dibattito pubblico, che si limita a slogan ad effetto e posizioni a priori senza risolvere certi nodi chiave.

Siamo disposti a sussidiare fonti rinnovabili, accettandone l’impatto sul bilancio pubblico o sui prezzi in bolletta? OK, ma i cittadini contribuenti e consumatori devono esserne informati, evitiamo pasticci alla Quarto Conto Energia.

Crediamo che alcune di queste tecnologie siano particolarmente promettenti e valga la pena scommetterci, magari sfruttando qualche vantaggio comparato del Bel Paese?Attenti ai buchi nell’acqua però, e non pensiamo di poter puntare sul manifatturiero, come purtroppo sta avvenendo. Nella nostra economia aperta, queste attività ad alta intensità di lavoro vanno dove il lavoro costa meno, lascio indovinare a voi dove.

Deleghiamo in toto la transizione all’industria elettrica, lasciando ai colossi del settore la responsabilità di prendere decisioni strategiche chiave? Non è uno scandalo, ma non ci si può aspettare beneficienza. È comunque necessario un quadro legislativo serio che fornisca alle imprese chiari incentivi per ridurre le emissioni.

Certo, la crisi, l’euro, la finanziaria, i tagli, la crescita ci tengono occupati e in uno dei più bui periodi di crisi economica e politica nella storia del nostro Paese parlare di reti elettriche e emissioni di CO2 può sembrare futile e un po’ snob. Ma,per dirla con Kissinger, che di strategia due cose ne sapeva, non possiamo trascurare l’importante per occuparci soltanto dell’urgente. Ritorniamo a parlare di questi temi. È importante, e nemmeno troppo poco urgente!

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