Significativamente Oltre

Europa e Mediterraneo

2009 -> 2016 -> 2017: Un Ministero per lo Sviluppo Sostenibile e il PD diventi il Partito dei Progetti o non reggeremo la modernità

pd

di Massimo Preziuso

Si ha una strana sensazione quando si scopre di aver visto giusto negli anni ma di non essere stati ascoltati. E’ quello che ci capita in questi giorni in cui il nostro Belpaese soffre pesantemente, per ragioni di inefficacia ed inefficienza politica, l’adattamento ad un clima ormai drammaticamente e profondamente cambiato.

Ebbene, nel 2009 il nostro Comitato Green Economy and Society della Mozione Bersani presentò una proposta di istituzione del MISS – Ministero per lo Sviluppo Sostenibile che anticipasse e provasse a reagire ai forti problemi che il cambiamento climatico stava per portare ai nostri territori e al nostro sistema economico. Nessuno ci ascoltò e il Paese perse una occasione enorme di porsi da leader in un continente protagonista sul tema su questi temi di frontiera culturale, tecnologica ed economica.

Nel 2016 tornammo a scrivere al Partito Democratico e al Governo Renzi chiedendo una riflessione attenta sul tema ambientale e di sviluppo sostenibile del Paese (con la istituzione del solito MISS, per fusione tra Ministero dello Sviluppo Economico e quello dell’Ambiente) e sulla necessità di una nuova Forma Partito (di cui discutemmo nella apposita Commissione nazionale) che si incentrasse sui “Progetti per il Paese” (con la istituzione di un “Dipartimento Progetti” e della “Filiera Progettuale” proposta da Fabrizio Barca) per provare a riavvicinare la periferia del Paese al suo centro tramite idee e iniziative concrete. Ed evitare un ulteriore distacco elettorale a pochi mesi dalle amministrative che poi, come ipotizzato, si tradussero in una sconfitta netta.

E’ passato un altro anno da allora, in cui il PD ha pure perso il Referendum Costituzionale (a mio avviso anche per ragioni di organizzazione) e le ultime amministrative di quest’anno.

E, soprattutto, il Paese ha dimostrato a tutto il Mondo la propria fragilità geografica fino alla severa siccità delle ultime settimane, che andrà sicuramente a peggiorare ad Agosto.

E allora lo chiediamo per la terza volta:

si abbia il coraggio di porre il tema dello Sviluppo Sostenibile di un Paese così delicato al centro delle riforme governative. Il presidente Gentiloni dia il via al MISS – Ministero per lo Sviluppo Sostenibile, mettendo insieme  Sviluppo Economico e Ambiente per costruire il futuro del Paese . 

E il PD abbia la voglia di diventare finalmente il “Partito dei Progetti” utilizzando la naturale matrice delle competenze composta dai nuovi Dipartimenti (verticali) e la Segreteria (orizzontale) nazionali per sviluppare iniziative di cambiamento con il supporto di un forte luogo di elaborazione di proposte innovative diffuse nei territori. Il neonato gruppo “Italia 2020” (composto da Maria Elena Boschi, Sergio Chiamparino, Graziano Delrio, Michele Emiliano, Tommaso Nannicini, Andrea Orlando) che organizzerà la Conferenza Programmatica di Ottobre dovrebbe operare in questa direzione.

Speriamo che qualcosa accada presto o il Paese e il Partito Democratico non riusciranno a gestire la complessità di questa modernità che ci accelera contro.

 

Convegno 10 luglio, Talent Garden, Milano : Quale politica economica per l’Europa?

Europa XXI secolo e Tortuga sono liete di invitarvi all’incontro:

Quale politica economica per l’Europa?
10 luglio 2017 – 18:30-20* Talent Garden Calabiana Via Arcivescovo Calabiana 6, Milano

Programma
Presentazione di “Europe’s Political Spring: Fixing the Eurozone and Beyond” (a cura di Agnès Bénassy-Quéré e Francesco Giavazzi, con un capitolo di Guido Tabellini)

Introduzione a cura del Gruppo Tortuga

Ne discutono:  Francesco Giavazzi  Tommaso Nannicini  Guido Tabellini  Irene Tinagli

Modera:  Francesco Cancellato (Direttore Linkiesta)

* L’evento sarà l’occasione per presentare al pubblico l’associazione Europa XXI secolo. Trattandosi di una associazione non solo europeista ma anche europea, la discussione inizierà alle 18:30 in punto come da invito. Seguirà rinfresco.

Avanti, Europa (di Tommaso Nannicini)

Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Tommaso Nannicini durante la Conferenza Ispi su "Le sfide economiche e politiche per  l'Europa", Roma, 20 giugno 2016. ANSA/FABIO CAMPANA

Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Tommaso Nannicini durante la Conferenza Ispi su “Le sfide economiche e politiche per l’Europa”, Roma, 20 giugno 2016.
ANSA/FABIO CAMPANA

di Tommaso Nannicini su Medium

Emmanuel Macron ha compiuto un capolavoro politico. Ha creato dal nulla una forza politica liberal-europeista, in un Paese fortemente nazionalista dove il termine “liberalismo” è quasi una parolaccia. E, al secondo turno, ha vinto le elezioni, diventando il Presidente di tutti i francesi. Ci è riuscito perché è bravo, perché ha una visione forte sul futuro della Francia e dell’Europa e perché si è circondato di persone competenti che quella visione sanno farla propria per naturale inclinazione e non per mero tatticismo. Sapere dove andare e circondarsi di persone in grado di portartici vale il 50 percento del successo politico. L’altro 50 lo fa la fortuna, per dirla con Machiavelli.

Virtù, fortuna e doppio turno

Ma non c’è dubbio che, al di là del tradizionale binomio virtù-fortuna, Macron ha avuto dalla sua un altro potentissimo alleato: il combinato disposto rappresentato dal doppio turno e dal sistema semipresidenziale. In un sistema parlamentare con legge elettorale proporzionale, con ogni probabilità, il suo partito si sarebbe fermato sotto il 20 percento. Dopodiché, il nostro eroe avrebbe dovuto sedersi al tavolo con gli altri segretari di partito e difficilmente sarebbe riuscito ad assicurarsi le portate migliori.

Secondo un sondaggio Ipsos, il 43 percento di chi ha votato Macron al secondo turno dichiara di averlo fatto in chiave anti-Le Pen, il 33 perché vede in lui una speranza di rinnovamento e solo il 16 perché condivide il suo programma socio-economico. Se quel programma riuscirà a realizzarlo dipenderà, di nuovo, dalla sua bravura e da quella della classe dirigente di cui saprà circondarsi. Più nello specifico, dipenderà dall’esito delle elezioni legislative e, in seguito, dalla sua capacità di dar vita a una coalizione che convinca i francesi della bontà delle riforme. Colpisce come il nuovo governo, rispetto al nucleo forte dei promotori di En Marche, sia composto da persone un po’ più in là con gli anni e con esperienze sbilanciate verso la politique politicienne. Sarà importante capire come il neo presidente gestirà gli equilibri tra energie fresche e vecchie volpi all’interno di un quadro unitario.

 

Parigi, Italia

Cambiare la Francia per cambiare l’Europa, dunque. Per riuscirci, Macron avrà bisogno anche della collaborazione di tutte le forze politiche europeiste al di fuori della Francia, Pd in testa. L’obiettivo è fattibile, a patto che queste forze sappiano costruire un disegno politico che non sia solo francese, italiano, tedesco o via snocciolando, ma in primo luogo europeo.

Sui social si aggira un personaggio le cui frustrazioni politiche hanno trasformato in troll: dopo il voto francese, ha pensato bene di scagliarsi contro i “renzini” contenti per la vittoria di Macron. Rei, a suo dire, di paragonare impropriamente i due leader, mentre il renzismo è culturalmente più affine al lepenismo del Front National (?!?). Fermo restando che i paragoni tra leader diversi in paesi diversi non hanno granché senso, è stato lo stesso Macron a rivendicare la vicinanza politico-culturale al Pd di Matteo Renzi. E viceversa. Solo il nostro provincialismo e la propensione a buttare tutto in una caciara tra guelfi e ghibellini, ci possono far negare l’affinità tra i due progetti politici. Basta leggere l’intervista rilasciata da Macron al bravo Mauro Zanon per il Foglio: riduzione del carico fiscale e sostegno alle imprese 4.0; un euro in sicurezza e un euro in cultura (bonus 18enni incluso); riforme del welfare e del lavoro incentrate su meccanismi di attivazione, formazione e responsabilizzazione delle scelte individuali. Volendo guardare alle differenze, invece, ci sono due punti sui quali Macron batte molto: la riorganizzazione della macchina burocratica (con il contestuale ripensamento del perimetro pubblico) e il contrasto al dumping sociale (senza rinnegare i principi del libero commercio). Due punti su cui dovremmo riflettere di più anche in Italia.

Cambiare l’Europa, insieme

I punti di contatto addirittura aumentano quando si guardano le proposte sull’Europa. Da noi, Renzi è spesso dipinto come un leader che insegue i populisti sul loro terreno in chiave anti-europeista, mentre Macron è un paladino dell’Unione Europea senza macchia e senza paura. La verità è che, al di là dei diversi stili comunicativi, entrambi hanno sempre affermato la centralità dell’Europa, che per una nuova generazione che si affaccia al protagonismo politico è vissuta come la propria casa, come un orizzonte culturale ancor prima che politico. Le polemiche verso certi eccessi di rigidità tecnocratica nascono casomai da quella severità di giudizio che è sempre più acuminata verso le cose che ci sono più care. Così come la critica a certe liturgie ormai vuote non vuol dire rottamare il sogno europeo ma casomai rilanciarlo.

Più Europa e, soprattutto, più politica in Europa: è questa l’architrave della mozione congressuale sulla cui base Matteo Renzi è stato rieletto segretario del Pd. A partire dall’esigenza di una nuova architettura istituzionale che abbracci la lucida piattaforma di Sergio Fabbrini: un unione federale il cui Presidente sia eletto direttamente dai cittadini e in cui un nucleo duro di politiche pubbliche sia messo in comune. Pur sapendo che non tutti sono pronti per questo passaggio. Lo dice con chiarezza Macron nell’intervista a Zanon: “gli stati che non vogliono andare avanti non impediranno agli altri di avanzare”.

La mozione Renzi-Martina (e lo stesso vale per il programma di Macron o quelli di forze europeiste in altri paesi) non si limita alle proposte istituzionali, ma scommette subito su un’accelerazione che metta in comune alcune politiche pubbliche: da una Schengen della difesa a un’assicurazione europea contro la disoccupazione, fino alla proposta innovativa di Children Union. Per carità, su tutti questi punti, sia Macron sia Renzi, devono passare dall’enunciazione all’elaborazione, dalle felici intuizioni elettorali a concrete proposte di governo, che non naufraghino sugli scogli dell’implementazione economica o amministrativa. E devono costruire alleanze politiche per realizzare queste proposte. Sarebbe bello se En Marche e Pd iniziassero a farlo insieme, creando gruppi di lavoro congiunti aperti a tutte le forze riformiste in Europa, dentro e fuori del Pse.

Non c’è dubbio, in ogni caso, che con la vittoria di Macron si apra uno spazio fino a poco tempo fa inimmaginabile per rilanciare il progetto europeo. Ma gioire per la vittoria del candidato di En Marche (come si era già fatto cinque anni fa per quella di Hollande), o peggio mettersi a cercare il suo sosia italiano, serve a poco: dobbiamo, invece, sentire appieno tutto il peso della responsabilità di questo passaggio. Perché ogni opportunità comporta una responsabilità: se non saremo in grado di cogliere questa chance di cambiamento dell’Europa, potremmo non averne molte altre in futuro. Dipende anche da noi. Se l’Italia dovesse scegliere di stare alla finestra a guardare, il volume di Michele Salvati sulle “occasioni perdute” dal nostro Paese si arricchirebbe di un altro capitolo, l’ennesimo. Un capitolo, ahinoi, che avrebbe effetti rovinosi per le future generazioni di italiani e di europei.

Il mondo ai tempi di Trump

di Alberto Forchielli

Qualche considerazione vale la pena di farla dopo il summit dell’APEC – ossia dell’Asia-Pacific Economic Cooperation – che si è tenuto il 19 e 20 novembre a Lima, in Perù, con i leader dei 21 Paesi appartenenti a quell’area geografica, compresi ovviamente Stati Uniti (per l’ultimo ultimo viaggio all’estero di Obama come presidente uscente prima di lasciare la Casa Bianca in gennaio), Cina, Giappone e Messico, sul tema della loro cooperazione economica, che per inciso rappresenta quasi il 60% del PIL globale! Forum che per questo motivo è stato sotto i riflettori dei media internazionali – tranne ovviamente i riflettori appannati di quelli italiani evidentemente troppo impegnati a prevedere chi vincerà tra “sì” e “no” nel nostro cortile di casa – in funzione dei nuovi equilibri geopolitici; e quindi, inevitabilmente, anche economici, derivanti dalle nuove linee guida dettate dalla presidenza targata Donald Trump o almeno dai suoi proclami in campagna presidenziale. Con due aspetti da non sottovalutare.

Il primo è di carattere personale. Difatti, secondo diverse fonti autorevoli, “The Donald” ha deciso di diventare il presidente degli Stati Uniti d’America più per la soddisfazione di occupare la poltrona più importante dell’Occidente che per l’idea di governare realmente il suo Paese. E ora che dopo l’onore del trionfo inaspettato gli tocca l’onere di prendere decisioni quotidiane per il bene collettivo, siamo tutti curiosi di vedere come si comporterà e cosa succederà. Mentre il secondo aspetto, di rilevanza globale, è legato ai suoi proclami e alle promesse elettorali di avviare una politica davvero nuova per gli USA, che possiamo sintetizzare definendola una politica più “egoista”, sia nella sfera commerciale sia in quella del disimpegno dal ruolo di “sceriffi” del pianeta. E in questo senso c’è da essere spaventati a morte – io lo sono – perché, mettetevi il cuore in pace, senza gli Stati Uniti che lottano per il loro bene – che fortunatamente è di riflesso anche il bene dell’Occidente – si rischia di fare una brutta fine.

Perciò i segnali in arrivo dal forum peruviano dell’APEC non possono non essere che di grande timore perché tutti si rendono conto che con Trump gli USA possono realmente smettere di essere la “gallina dalle uova d’oro”. D’altro canto e non poteva che essere così, nelle dichiarazioni complessive resta l’auspicio di rafforzare il legame economico di libero scambio anche con lui.

Auspicio confermato dallo stesso Obama che, oltre agli incontri dell’APEC, ha interagito anche con il primo ministro australiano Malcolm Turnbull e con il primo ministro canadese Justin Trudeau, tranquillizzandoli sulla solidità delle rispettive alleanze per il futuro, ovvero anche sotto l’amministrazione Trump. E poi rassicurando un po’ tutti, dicendo che non si aspetta modifiche significative alla politica degli Stati Uniti, anche se, lo sottolineo ancora, Trump può modificare alcuni accordi decisivi.

Così, tra timori sotto traccia e buoni auspici di facciata, a Lima si è iniziato anche a pensare ad alternative alle eventuali mosse “isolazioniste” peraltro confermate da Trump il giorno successivo al summit di Lima, con l’uscita degli USA dal TTP (il Trans Pacific Partnership voluto da Obama per contenere l’espansionismo economico della Cina) in favore di accordi con i singoli Paesi (per Trump più efficaci). Alternative che vanno nella direzione di un TPP senza gli USA o attraverso un coinvolgimento di Cina e Russia. Anche perché, inevitabilmente, se gli Stati Uniti decidono di tirarsi indietro, il vuoto che lasciano, la Cina è disposta a riempirlo di corsa.

In conclusione, lo spartiacque rischia di essere davvero epocale e probabilmente non è stato ancora compreso appieno nemmeno dall’opinione pubblica anti-americana che abbiamo in Europa e che a vario titolo contesta gli USA a prescindere: dagli eccessi verso Putin al sostegno a Israele, dalla posizione in Iraq e Afghanistan al contenimento commerciale (e non solo) della Cina. Ricordiamoci però che dalla Seconda Guerra Mondiale, basti pensare al D-Day, diamo per scontata la protezione degli Stati Uniti sulla libertà del mondo e il suo conseguente benessere, come se la morte dei ragazzi americani in un qualche conflitto rientri in un fatto del tutto normale – tra un “chissenefrega” e un “se la sono cercata” – mentre quella, per esempio, dei ragazzi italiani, no, non debba avvenire per difendere gli stessi principi di libertà.

Ecco, personalmente, mi sono sempre vergognato di questo atteggiamento tipicamente italiano, tra la viltà e il paraculismo che ci contraddistinguono tanto quanto essere un popolo di poeti, santi e navigatori. Perché ragioniamo così? Perché, come in un condominio litigioso, abbiamo finora sempre esercitato il lusso di dare la nostra delega agli USA, per sporcarsi le mani al nostro posto. E se adesso davvero toccasse a noi andare a litigare?

Gestire il Declino

declino

Alberto Forchielli, Mandarin Capital Partners

mi ha fatto molto piacere leggere sul Messaggero del 29 maggio l’editoriale DI Romano Prodi dove elabora le mie riflessioni fatte nella puntata di Piazza Pulita di inizio settimana. Fondo poi rilanciato anche dall’Ansa: «Doppia stoccata di Romano Prodi nell’editoriale domenicale pubblicato sul Messaggero. “Innovazione e investimenti per non finire come il Messico”, ha scritto commentando l’Assemblea annuale della Confindustria, spiegando che occorrono interventi d’emergenza per evitare “un’economia italiana sempre più anomala rispetto a quella degli altri Paesi europei”. […] A proposito del rischio Messico, Prodi cita un recente intervento di Alberto Forchielli, presidente e fondatore del fondo Mandarin Capital Partners, secondo cui il pericolo nasce dal fatto che l’Italia si sta “orientando verso una struttura simile a quella del Messico, dove convivono tre diverse organizzazioni economiche”. Eccole: “Una prima formata da imprese eccellenti che sfidano i mercati internazionali, una seconda che opera in un mercato informale sfruttando le imperfezioni del mercato e utilizzando una mano d’opera scarsamente specializzata” e una terza rappresentata da “una corposa parte del Paese” che “vive nell’evasione delle regole e nell’illegalità”.» Nonostante ciò, tenete presente che il Messico per alcuni aspetti è avanti a noi: le tasse sono molto più basse delle nostre, lo stato Messicano costa meno del nostro ed il loro rapporto debito PIL è al 43% rispetto al nostro al 133% e la loro disoccupazione è 2/3 più bassa della nostra. Se la “messicanizzazione” dell’Italia sarà affrontabile soltanto se sapremo gestire questo enorme Paese a tre teste, tenendolo bilanciato, il problema è ovviamente a monte, come sottolinea Prodi nel suo editoriale: «[…] penso che le tendenze che ci portano verso di esso debbano essere combattute con ogni mezzo, affermando in ogni circostanza la maestà della legge e operando sulla preparazione delle risorse umane che sono alla base del successo di ogni paese moderno. La lettura della realtà non è invece consolante perché i confronti sull’efficacia dei sistemi scolastici ci trovano costantemente in coda, intere realtà del paese operano sempre più nell’ombra e i dati sul progresso dell’illegalità e sulla penetrazione della criminalità nella vita economica e amministrativa sono allarmanti.»
Le risorse umane e il sistema scolastico, ecco uno dei nostri enormi problemi di sempre: la scuola italiana è sfasciata! Ho lasciato l’Università di Bologna nel 1978 e ci sono tornato a insegnare nei primi anni Duemila, per un triennio, quindi prima della crisi del 2009. E ho trovato le stesse aule, solo più fatiscenti. Con gli studenti che erano dieci volte quelli di un tempo e con i posti a disposizione per i neo-laureati che erano un decimo rispetto a una volta, perché nel frattempo le aziende sono fallite.
Non ci sono ricette miracolose per invertire la rotta. Servono percorsi lunghi. È necessario investire nella ricerca, ma è un lavoro almeno ventennale. Attenzione, non c’è niente di nuovo da inventare. L’esempio indicativo è il polo industriale bolognese, con le eccellenze che sono sempre le stesse di quando ero bambino: è stato costruito grazie al flusso costante di risorse umane in arrivo dalle scuole professionali Aldini Valeriani. D’altronde la Silicon Valley nasce intorno all’Università di Stanford e il polo biotecnologico di Boston è vicino a Mit e Harvard e non è un caso, perché è così che funziona: l’università scientifica è sempre al centro di tutti gli eco-sistemi innovativi.
Serve concretezza e strategia. Ma la faccio ancora più semplice. Basta lavorare di più e meglio. È questa la ricetta, ma nessuno la vuole applicare. Quando torno a Bologna la gente mi chiede sempre come facciamo a uscire dalla crisi. Io rispondo: servono sacrifici. Allora mi dicono: «Forchielli vai ben a far le pugnette, basta sacrifici!».
In questa antropologia sbagliata ci butto dentro anche il sindacato, che è stato un assurdo elemento frenante. In Italia ci sono comportamenti e benefici che si danno per acquisiti e che invece vanno ridiscussi a causa della globalizzazione.
Quindi se oggi mi “costringessero” a fare politica, be’ fonderei un partito o un movimento chiamato “Gestire il declino”, perché per avere una speranza di risollevarci dobbiamo rassegnarci a duri anni di abbassamento del nostro tenore di vita e dovremo combattere una crescente ondata di criminalità piccola e grande. Dopo quarant’anni che sento sempre le stesse cose, focalizziamoci su quelle poche che servono davvero. Per sopravvivere alla globalizzazione, per “messicanizzare” l’Italia il meno possibile stringiamoci per difendere la nostra comunità, riappropriamoci del significato vero del “senso del dovere” e rassegniamoci a lavorare di più e meglio.

 

Innovazione e investimenti per non finire come il Messico

di Romano Prodi su Il Messaggero

Mariachi Band Performing with Violins ca. July 1991 Puerto Vallarta, Mexico

Mariachi Band Performing with Violins ca. July 1991 Puerto Vallarta, Mexico

Riflessioni fiduciose e constatazioni amare sono state al centro dell’Assemblea annuale della Confindustria. La fiducia è nella constatazione che molte tra le imprese esportatrici sono state capaci di trasformarsi e, crescendo, si sono adeguate alle dure regole della globalizzazione.
Le constatazioni amare riguardano invece il fatto che, dopo una lunga crisi, la risalita è ancora “modesta e deludente” e, soprattutto, che la produttività del sistema Italia e dell’industria manifatturiera non tengono il passo con gli altri grandi paesi europei.
Alla perdita di velocità del sistema produttivo si è inoltre accompagnato un processo di selezione che ha provocato la scomparsa di quasi un quinto delle nostre aziende e di un peggioramento generale dei risultati economici delle imprese.
Il Presidente della Confindustria e il Ministro dello Sviluppo hanno accompagnato la lettura di questi dati con una serie di proposte destinate ad agire favorevolmente sulla dimensione delle imprese, sulle regole di governo delle imprese stesse, sull’alleggerimento del loro peso fiscale, sugli incentivi agli investimenti e su un rapporto più costruttivo con le banche e con la Pubblica Amministrazione.
Misure non solo utili ma necessarie per dare corpo ad una “risalita” finalmente robusta e veloce sulla quale tutti noi facciamo conto.
Alcune riflessioni aggiuntive sono tuttavia necessarie per capire quali sono gli elementi di fondo che rendono difficile questa “risalita”.
Partiamo da un dato molto semplice ma sorprendente. La lunga crisi di produttività ( e quindi di efficienza) del nostro sistema produttivo e la contemporanea crisi mortale di tante aziende sono state infatti accompagnate da un ottima tenuta della nostra bilancia commerciale, largamente attiva nel settore manifatturiero. Tutto questo mette in rilievo che, pur nella scomparsa delle nostre grandi imprese, abbiamo, centri di eccellenza che, nonostante tutti i nostri limiti, si affermano nei mercati internazionali vincendo i concorrenti tedeschi, cinesi e americani.
Se, nonostante queste affermazioni, la produttività non aumenta, questo significa che una parte troppo grande del nostro sistema economico non è capace di trasformarsi e vive cercando nicchie di mercato interno che si vanno sempre più restringendo, proprio per il cattivo andamento dei nostri consumi e dei nostri investimenti e per la pervasività della globalizzazione.
Se a questi dati aggiungiamo quelli che l’ISTAT regolarmente ci fornisce riguardo alla fortissima crescita dell’economia illegale, ci troviamo di fronte a un’economia italiana sempre più anomala rispetto a quella degli altri paesi europei.
Usando l’esagerazione come strumento didattico Alberto Forchielli, in un recente confronto televisivo, traeva le conseguenze di questi dati affermando che l’Italia si va orientando verso una struttura simile a quella del Messico, dove convivono tre diverse organizzazioni economiche. Una prima formata da imprese eccellenti che sfidano i mercati internazionali, una seconda che opera in un mercato informale, sfruttando le imperfezioni del mercato e utilizzando mano d’opera scarsamente specializzata ed ancora più scarsamente garantita e remunerata. Infine una corposa parte del Paese vive nell’evasione delle regole e nell’illegalità.
Non credo che questo sia fatalmente il nostro destino ma penso che le tendenze che ci portano verso di esso debbano essere combattute con ogni mezzo, affermando in ogni circostanza la maestà della legge e operando sulla preparazione delle risorse umane che sono alla base del successo di ogni paese moderno.
La lettura della realtà non è invece consolante perché i confronti sull’efficacia dei sistemi scolastici ci trovano costantemente in coda, intere realtà del paese operano sempre più nell’ombra e i dati sul progresso dell’illegalità e sulla penetrazione della criminalità nella vita economica e amministrativa sono allarmanti. Credo tuttavia che noi abbiamo ancora la capacità di reagire con successo, dimostrando di avere obiettivi comuni e condivisi.
Il compito di dettare e di imporre la rotta per vincere la sfida spetta naturalmente al governo ma, come si usa dire in Gran Bretagna, la regina si aspetta che ciascuno faccia il proprio dovere.
Dato che queste riflessioni partono dall’analisi di quanto è stato detto nell’assemblea della più autorevole rappresentanza del mondo industriale voglio quindi aggiungere che, mentre mi sono amareggiato ma non sorpreso di vedere molte delle nostre più grandi e floride imprese cadere in mani straniere, mi sono amareggiato e sorpreso nel vedere che i ricavi di queste vendite non sono stati per niente investiti nel fare progredire le nostre strutture produttive.
Dobbiamo cioè concludere che se i generali sentono il dovere di combattere, nemmeno gli incitamenti della regina saranno certo in grado di farci vincere la durissima battaglia che deciderà il nostro futuro.

L’estrema destra ha rotto l’argine

Norbert Hofer

di Gianni Pittella – “L’Unità”, 23 maggio 2016

A prescindere dall’esito finale e della tenuta del blocco europeista, l’argine si è rotto e per la prima volta dal 1945 una estrema destra che proviene direttamente dal nazismo ha sfondato. A prescindere dai decimali di differenza. È un terremoto.
Un dato forse non così sorprendente e che conferma una tendenza ormai consolidata in praticamente tutto il vecchio continente: una crescente marginalizzazione delle forze conservatrici e socialdemocratiche tradizionali a favore di partiti o movimenti che di volta in volta assumono le sembianze di populisti, radicali, estremisti di destra o sinistra, antiglobalisti o xenophobi, comunque anti-sistema.
Le ragioni dell’avanzamento delle forze anti-sistema ovviamente variano da Paese a Paese ma si possono sintetizzare nell’incapacità o nell’esaurirsi della forza propulsiva delle forze tradizionali di riformare e riformarsi a livello nazionale e europeo, rendendosi così incapaci quando non corresponsabili delle gravi crisi del nostro tempo, dalla sfida migratoria alla minaccia del terrorismo, dalla stagnazione economica alla fine di un certo mondo produttivo e sociale sotto i colpi della globalizzazione.
Ecco perché, prendendo a termine di paragone il complicato contesto europeo, l’opera riformatrice e innovatrice del Governo Renzi (riforma costituzionale, Jobs Act e i patti d’investimento per il Sud per citare solo qualche esempio) rappresenta una manna dal cielo per contrastare e frenare l’avanzata dei vari Salvini o Grillo.
Ecco perché anche le proposte lanciate dal premier Renzi a livello europeo (migration compact, il superministro delle Finanze dell’Eurozona, una garanzia comune per i depositi bancari, un fondo europeo contro la disoccupazione, il completamento dell’Unione bancaria) sono la giusta strada da seguire per rinnovare l’Unione europea e renderla finalmente capace di dare risposte efficaci alla grave crisi attuale.
L’esito del voto in Austria, dove per la prima volta nel dopoguerra la destra e sinistra storica sono rimaste fuori dal ballottaggio, avrà immediate ripercussioni per l’Italia e nel lungo periodo anche per l’Europa.
Per l’Italia è facile immaginarsi che sull’onda della falsa paura sugli immigrati, Vienna radicalizzerà la sua posizione arrivando forse anche alla completa chiusura del Brennero, contro ogni regola di Schengen e contro ogni ragionevolezza a livello economico e commerciale. L’Italia dovrà essere intransigente nel richiedere a livello bilaterale e comunitario il comune rispetto delle regole.
A livello europeo, in prospettiva, lo sfondamento della destra estrema austriaca potrebbe dare ulteriore spinta ai movimenti radicali nel resto dell’Ue. Possibilità alquanto preoccupante in vista del voto in Francia, Germania e Spagna.
Il rischio è che da subito si rafforzi in seno al Consiglio europeo il fronte populista/estremista rendendo de facto impossibile prendere decisioni comuni a sfide comuni.
Ecco perché l’Italia di Renzi rappresenta oggi un baluardo per l’Europa intera, ecco perché nel Parlamento europeo noi Socialisti e Democratici continueremo a lottare non solo per difendere l’Europa comunitaria ma per riformarla ed innovarla. Perché senza riforme, senza rinnovo, in Italia come in Europa, forse non oggi ma di certo domani rischiamo di consegnare le chiavi del nostro futuro agli Hofer di turno

La ripresa può partire dall’energia solare

Solar Energy
di Francesco Grillo su Il Corriere della Sera
Novantasei minuti. Il sole ci metterebbe poco più di un’ora e mezza per fornire al mondo tutta l’energia di cui ha bisogno in un anno, se solo avessimo inventato il modo per usarlo come fosse un’enorme batteria, accumulandone l’energia e utilizzandola quando serve.
Sfruttare, peraltro, anche solo una piccolissima frazione dell’energia della stella più vicina allontanerebbe, paradossalmente, i rischi del riscaldamento globale che l’accordo appena firmato a New York cerca di scongiurare.
Per quarant’anni, tuttavia, il sogno di accedere ad una fonte pulita, gratuita e presente dovunque, è rimasto un progetto del tutto marginale rispetto alla realtà di un apparato produttivo globale che continuava a divorare quantità crescenti di combustibile sottratto dalla pancia di una terra fragile.
Eppure, proprio mentre in Italia si litigava al referendum sulla durata di concessioni che potrebbero diventare presto inutili, sono stati pubblicati i più recenti rapporti dell’Agenzia Internazionale per l’Energia che certificano la svolta. L’energia solare ha superato un’adolescenza drogata dai sussidi ed è entrata in quella fase in cui una tecnologia compete alla pari con le proprie alternative sul mercato. Nel caso del fotovoltaico ciò può davvero trascinare il mondo in una nuova epoca rispetto a quella che fu dominata – sul piano economico e antropologico – dall’idea malthusiana di risorse finite e che, per due secoli, si sviluppò attorno al motore a scoppio. Ciò ha conseguenze assolutamente rivoluzionarie non solo sull’inquinamento e sulle politiche energetiche. Ma anche sugli equilibri di potere (tra Stati e tra classi) che commenteremo nei prossimi decenni; e può essere per l’Italia l’occasione sulla quale costruire un’idea di politica industriale che manca da vent’anni.
La ricerca del solare sta, in effetti, trovando i propri nuovi campioni nei Paesi di più recente sviluppo che sembrano aver capito che l’errore più grande che possono fare è quello di immaginare di industrializzarsi seguendo le stesse traiettorie che l’Occidente ha percorso dagli anni cinquanta. La Cina ne ha fatto priorità assoluta e, silenziosamente, ha conquistato il monopolio nella produzione dei pannelli; diversi paesi dell’Africa stanno saltando un intero pezzo
dello sviluppo tradizionale di fonti energetiche utilizzando quello che è un ovvio vantaggio naturale; mentre sono, paradossalmente nel Medio Oriente dei grandi produttori di petrolio, i Paesi (Israele ma anche la Giordania) che, per primi, potrebbero diventare liberi dai combustibili fossili.
A rendere possibile il miracolo sono tre fattori. La riduzione del costo dei pannelli determinato dall’accumularsi inesorabile di ricerche su nuovi materiali ed economie di scala che rendono la produzione fotovoltaica competitiva con quella delle centrali nucleari. Le griglie di distribuzione intelligente che assumono scale sempre più locali e consentono la trasmissione di energia in maniera bidirezionale e, in teoria, ad ogni famiglia di vendere l’energia in eccesso quando l’irradiazione supera il consumo. I progressi spettacolari delle batterie che possono superare il limite più grosso dell’energia solare che è quello di dover essere accumulata per distribuirne il consumo e che fanno dell’elettricità la prima fonte energetica davvero universale.
La Germania e l’Italia, divise su tanti fronti, hanno in comune il fatto che dopo aver investito prematuramente sulle rinnovabili, rischiano di perdere il treno proprio mentre sta partendo.
Paghiamo politiche che vanno riorientate dal sostegno dell’offerta attraverso incentivi, al cambiamento dei comportamenti individuali e alla riprogettazione di infrastrutture pensate per un mondo che sta scomparendo.
Le conseguenze della rivoluzione che il sole consente sono enormi: può invertire gli scenari che, secondo alcuni, ci porterebbero sott’acqua in pochi decenni; indebolire alcune delle dittature (dalla Russia all’Arabia Saudita) sulle quali si reggono equilibri precari; ma anche provocare l’obsolescenza di interi settori industriali con la perdita di milioni di posti di lavoro; e creare nuove dipendenze da materiali e risorse naturali assai rare.
Questa è una sfida anche di democrazia perché – come per Internet nella comunicazione – si va verso un modello nel quale ogni consumatore può diventare anche produttore di energia: ciò produce una riallocazione di potere che può produrre incidenti di percorso ed esiti non scontati.
È, però, solo reimparando ad anticipare il futuro che l’Europa può ricominciare ad avere senso e a crescere superando il deserto di idee nuove che nessuna iniezione di liquidità potrà mai rendere fertile.

Il Rebus: cosa succede se a banca A compra la banca B?

In Italia «c’è spazio per fusioni così da avere banche più profittevoli e modelli di business più sostenibili», ha detto il capo della vigilanza bancaria della Bce, Danièle Nouy. Ma come si risolve il Rebus?
Da www.idiavoli.com

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