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IL NANISMO DI IMPRESA

Nanismo di impresa: una criticità strutturale da risolvere (dal Gruppo Sapere e Innovazione)
Il dibattito sulla capacità di crescita competitiva di ciascun sistema territoriale ad industrializzazione diffusa non può che essere strettamente vincolato con l’evoluzione del suo tessuto imprenditoriale.
Come è noto, il modello ancora predominante nel Paese continua a reggersi sulla piccola impresa e su specializzazioni settoriali che se fino alla fine degli Anni Ottanta hanno fatto la fortuna della nostra economia, grazie soprattutto alla loro adattabilità e flessibilità agli andamenti del mercato, oggi purtroppo faticano di fronte ai mutamenti strutturali intervenuti negli ultimi venti anni. L’integrazione dei paesi in via di sviluppo nell’economia mondiale e la rivoluzione tecnologica nel campo dell’informatica e delle comunicazioni hanno eroso la posizione competitiva di queste imprese di più ridotta dimensione, troppo piccole per sfruttare pienamente le opportunità del processo di globalizzazione e troppo carenti dal punto di vista delle risorse umane per trarre beneficio dalle nuove tecnologie. Parimenti, il continuare a perseverare su settori e comparti tendenzialmente a crescita media o lenta della domanda mondiale, con basse economie di scala e relativamente basso impiego di manodopera ad alto grado di istruzione e alte qualifiche, ha esposto le nostre imprese ad una situazione difficilmente difendibile di fronte all’impetuoso imperversare dei grandi Paesi in via di sviluppo.
Aziende sempre più piccole, sottocapitalizzate, con bassa remuneratività, scarsa produttività dei fattori, e difficoltà a crescere, è dunque la malattia principale del sistema imprenditoriale del nostro Paese. Secondo molti studi, piccola dimensione è sinonimo oggi di minore produttività per addetto, minore retribuzione per addetto e, conseguentemente minore attrattività per lavoratori con elevati gradi di istruzione e qualifiche, minori investimenti fissi per addetto, minori investimenti in formazione del proprio “capitale umano”, minori spese in ricerca e qualità, minori investimenti in rete distributiva e assistenza al cliente, minore capacità di affermare e coltivare marchi noti sul mercato, maggior dipendenza da canali indiretti per l’esportazione (e relativo minor “potere di mercato” quando i mercati si fanno fragili e/o fortemente competitivi), minor numero di mercati esteri serviti, minor polmone di risorse umane e organizzative per intraprendere investimenti diretti all’estero quando le opportunità di mercato lo esigerebbero.
Dati positivi contingenti come quelli sulle esportazioni non possono essere la “coperta di lino” di un quadro che comunque va consolidato.
Nell’occasione crediamo che, qualunque sarà il colore del prossimo Governo, non si possa esulare dal mettere in campo queste minime azioni di policy, persuandendo, ove fosse necessario, il mondo imprenditoriale nel:
favorire i processi di “rete” delle aziende
promuovere azioni di private equity
stimolare processi di ricerca e innovazione, di upgrading tecnologico e qualitativo favorire la creazione di un sistema di servizi ad alto valore aggiunto apertura strategica dell’impresa al capitale e alle risorse esterne.
Due condizioni imprescindibili per mettere in campo queste azioni di sistema sono quindi, da un lato, una grande trasformazione culturale, l’adozione di nuove visioni, di nuovi modi di pensare l’economia e i mercati, insomma una nuova cultura del fare l’imprenditore e l’impresa. Sono orientamenti che vanno consolidati anche attraverso azioni “educative”. Dall’altro, una maggiore sforzo a migliorare la loro trasparenza contabile: se nelle pieghe dei bilanci continuano a restare delle difformità tra contabilità formale e contabilità sostanziale, certamente questo non aiuta né ad aggregazioni formali e sostanziali, né tantopiù all’utilizzo di veicoli sostitutivi di finanziamento del tradizionale credito bancario, come venture capital e più in generale del private equity, soprattutto oggi alla luce dell’entrata in vigore della normativa di Basilea 2 sull’accesso al credito.
Deve essere chiaro che l’intento non è di ripristinare il modello della grande impresa, per altro oggi per certi versi in difficoltà, ma quello di favorire la sistematizzazione a rete e la formazione di più imprese di taglia media; dimensione che viene valutata ormai come quella più idonea a competere internazionalmente in quest’epoca di globalizzazione, racchiudendo in sè sia le caratteristiche positive della piccola struttura (flessibilità organizzativa e rapida adattabilità agli scenari di mercato) che della grande organizzazione aziendale (capacità di aggredire mercati lontani, produrre innovazione, disporre di cervelli più fini, etc).
di Daniele Mocchi

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