Significativamente Oltre

ricerca

La politica estera dell’Unione Europea: quali direzioni?

La politica estera dell’Unione Europea: quali direzioni?Di Luisa Pezone su Italiani Europei

La crisi economica degli ultimi anni ha relegato ai margini le questioni connesse con la proiezione esterna dell’Unione europea. Così, nonostante i nuovi meccanismi offerti dal Trattato di Lisbona, temi che già languivano sono stati quasi del tutto accantonati. Eppure l’Unione europea non può più permettersi di persistere in questo atteggiamento, ma deve finalmente diventare un attore internazionale credibile e affidabile.

 

Il Trattato di Lisbona, firmato nel 2007 sulla scia del fallimento del progetto di Costituzione europea ed entrato in vigore nel 2009, dedica ampio spazio alla politica estera dell’Unione europea. Su 62 emendamenti ai Trattati di Roma e di Maastricht, infatti, ben 25 riguardano le relazioni esterne. Negli anni in cui fu redatto era opinione diffusa e condivisa che i meccanismi previsti dai Trattati fossero complessivamente inadeguati a consentire all’UE di assumere quel ruolo di attore politico e di sicurezza internazionale a lungo auspicato. I fallimenti degli anni Novanta (Bosnia, Ruanda, Kosovo) e le divisioni dei primi anni Duemila (war on terror, Iraq), suffragavano ampiamente tale ipotesi.

Negli ultimi tre anni, tuttavia, la politica estera dell’UE, nonostante i nuovi strumenti istituzionali previsti da Lisbona, come la figura dell’Alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza e il Servizio europeo per l’azione esterna, è rimasta ancorata ai tradizionali limiti. Almeno quattro fattori hanno determinato questo stallo. In primo luogo, le scelte di basso profilo politico operate per ricoprire i ruoli chiave della diplomazia europea, a partire proprio dallo stesso Alto rappresentante. Poi il “dogma intergovernativo”, rimasto saldamente al cuore della Politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC). In terzo luogo, la crisi economica mondiale e le sue drammatiche ripercussioni sulla tenuta interna dell’UE, che hanno costretto ai margini qualunque discorso sull’azione esterna dell’Europa. Infine, le profonde divisioni emerse in occasione della guerra in Libia (e più recentemente nella crisi in Mali) che hanno riproposto le consuete logiche basate su interessi e priorità esclusivamente nazionali.

Oggi, mentre l’UE apre le porte al suo ventottesimo membro, la Croazia, il tema del rilancio della dimensione esterna del progetto europeo sembra tornare lentamente al centro del dibattito accademico e politico. Forza economica e coesione interna dell’Europa, da un lato, e capacità di proiezione esterna, dall’altro, appaiono sempre più come due facce non scindibili della stessa medaglia. Anche perché, come sosteneva il cosiddetto Rapporto González già nel 2010, «la politica estera europea non può essere considerata solo un’opzione facoltativa, un ”esercizio di influenza” messo in atto come componente aggiuntiva delle politiche europee basilari, ma una scelta obbligata proprio per garantire gli obiettivi di prosperità, sviluppo equilibrato e crescita che rappresentano il cuore della missione dell’UE».

Towards a European Global Strategy” è il titolo di un rapporto elaborato congiuntamente, reso pubblico lo scorso maggio, da quattro centri studi europei (per l’Italia l’Istituto Affari Internazionali), su mandato dei ministri degli Esteri di Italia, Polonia, Spagna e Svezia. Secondo la ricerca, l’azione esterna dell’Unione europea deve fondarsi su tre direttrici chiaramente definite: sviluppare quattro partenariati globali – con Stati Uniti, Turchia, Russia e Cina – e puntare alla riforma della governance mondiale; trarre vantaggio dagli aspetti extra-UE delle politiche interne per quanto concerne mercato unico ed energia; reimpostare i rapporti con il “vicinato strategico”.

Lo studio, partendo dall’individuazione di alcuni “interessi vitali europei” basati sui valori espressi nei Trattati, indica undici “obiettivi strategici” prioritari da perseguire nel medio periodo, con un approccio sufficientemente flessibile da tenere conto degli equilibri internazionali in costante mutamento. Alcuni obiettivi del rapporto meritano una particolare attenzione.

A livello globale, Stati Uniti, Turchia, Russia e Cina vengono indicati con chiarezza come i fondamentali partner strategici per l’Unione. Per quanto riguarda gli USA, appare necessario consolidare e rilanciare la tradizionale relazione transatlantica adeguandola ai nuovi equilibri mondiali in transizione verso un assetto multipolare. La New Atlantic Community dovrebbe essere fondata sia sull’area di libero scambio attualmente in fase di negoziazione, sia su un partenariato politico attivo sull’intero spettro dell’agenda globale, anche attraverso nuovi meccanismi di consultazione transatlantici che operino in stretto collegamento con la NATO. La Turchia viene considerata, al di là del complesso cammino dell’adesione, come un interlocutore regionale imprescindibile al quale offrire uno status politico rafforzato fondato su settori di cooperazione quali azioni congiunte nel vicinato strategico, politica di difesa (incluso un accordo di cooperazione tra Ankara e l’Agenzia europea di difesa), liberalizzazione del regime di visti, realizzazione di un’unione doganale rafforzata. Per Russia e Cina, il rapporto elenca una serie di ambiti nei quali sviluppare una collaborazione che, pur tenendo in debita considerazione le differenze esistenti tra l’UE e questi paesi e pur non derogando al criterio democratico e dei diritti umani come fondamento dell’azione esterna europea, consenta di associare Mosca e Pechino come interlocutori naturali nello sforzo di riformare la governance globale.

Sul piano regionale, il rapporto offre una nuova definizione del concetto di vicinato, che comprende non più soltanto gli Stati confinanti con l’Unione, ma anche spazi geopolitici connessi a vitali interessi europei, quali ad esempio Sahel, Corno d’Africa, Medio Oriente, Asia Centrale, Artico, e le rotte marittime adiacenti ad alcune di queste regioni. La politica dell’EU verso questo nuovo “vicinato strategico” dovrebbe abbandonare la logica della trasformazione di questi paesi secondo un modello europeo, considerandoli non più come un ring of friends o una zona cuscinetto, ma piuttosto come potenziali partner con cui stabilire un rapporto profondo e articolato. L’approccio bilaterale dovrebbe inoltre accompagnarsi al sostegno alla cooperazione intraregionale e all’apertura verso il commercio internazionale, con l’obiettivo di lungo periodo di uno sviluppo sociopolitico locale rispettoso dei diritti umani, dello Stato di diritto e dei principi democratici. Verso il vicinato, infine, l’UE dovrebbe assumersi una piena responsabilità della sicurezza regionale, che contempli sia l’impegno politico e diplomatico per la prevenzione e gestione delle crisi, sia gli interventi militari e civile previsti dalla Politica di sicurezza e di difesa comune.

Su tali basi, la politica estera europea potrà forse cominciare a uscire dal torpore degli ultimi anni e acquisire quel carattere propositivo, e non solo reattivo e difensivo, indispensabile per rendere l’UE un attore di sicurezza regionale e globale finalmente credibile e affidabile. Nell’attuale fase di dibattito su un’eventuale revisione della European Security Strategy del 2003 e sul rilancio della politica di difesa europea, di cui tornerà a occuparsi il Consiglio europeo di dicembre, appare indispensabile chiarire come l’Unione europea, ancora scossa dalla sua crisi interna e in vista delle elezioni del Parlamento europeo del 2014, non possa più permettersi di relegare ai margini della sua agenda i problemi e le prospettive della sua azione esterna.

Dal DIRE al FARE innovazione a Bagnoli

di Osvaldo Cammarota – Innovatori Europei Campania

Il 9 marzo scorso, nel dibattito che ha seguito il grave episodio dell’incendio di Città della Scienza, Innovatori Europei ha tenuto un Convegno a Napoli ed ha avanzato la proposta di una “Stanford del Mediterraneo a Bagnoli”.

La proposta ha suscitato un interesse diffuso, persino in sede di Parlamento Europeo, ma si stenta a vedere segnali di attenzione programmatica e progettuale da parte del Comune di Napoli. Sarà distratta (o travolta) dalle continue emergenze quotidiane, ma Napoli non può rinunciare a discutere e fare programmi di più ampia portata per il futuro delle sue comunità e del suo territorio.

Nessuna emergenza può essere risolta con provvedimenti di corto respiro e di scarsa visione. Lo impedisce la crisi della finanza pubblica e, tra l’altro, lo impongono dinamiche globali di sviluppo economico che non consentono più lo spreco delle risorse pubbliche.

E’ questo il senso dell’iniziativa assunta dalla BRI – Banca Risorse Immateriali che, con la Lettera aperta inviata al Sindaco di Napoli Luigi de Magistris, ha offerto la propria collaborazione gratuita per contribuire a delineare una strategia operativa coerente con i principi e i programmi comunitari di coesione e sviluppo nel Mezzogiorno.

La collaborazione offerta, sostanzialmente, consiste in una attività di accompagnamento alla innovazione del sistema pubblico locale che fa fatica a coniugare proficuamente il nesso tra partecipazione e sviluppo

E’, questo, uno dei tanti casi in cui si rappresenta una questione di più ampio significato: la politica, senza competenze, non produce risultati di innovazione; le competenze, senza interlocutori politico-istituzionali rischiano di rimanere risorse sottoutilizzate.

Se lo può permettere l’Italia? E il Mezzogiorno?

 

Lettera aperta al Sindaco di Napoli

15 luglio 2013

La BRI – Banca Risorse Immateriali offre tre mesi di lavoro per Bagnoli e l’Area Flegrea

Dalla stampa cittadina abbiamo appreso con vivo interesse che «Si sta puntando alla definizione di un intervento organico riguardante tutta l’area di Bagnoli, oggetto del tavolo istituito col governo, di fatto superando decenni di mancanza di prospettiva strategica. Questo percorso, inoltre, risponde alla volontà della amministrazione di garantire i livelli occupazionali della società stessa» (Assessori Sodano e Panini – Cormez del 10/7/13)

Una scelta autorevolmente confermata dal Sindaco De Magistris:  “Per il futuro, il sindaco non esclude la possibilità che sia “direttamente il Comune a gestire la fase di rilancio di Bagnoli”. Un rilancio di cui l’amministrazione intende fare partecipe i cittadini, con cui si aprirà un confronto.” (Citynews 11/7/2013)

La programmazione comunitaria per il 2014-2020 e i fondi residui del periodo 2007-2013 offrono effettivamente l’opportunità di superare l’attuale stato di difficoltà.

Per raggiungere obiettivi misurabili e corrispondere alle aspettative, è tuttavia necessario scegliere in modo più circostanziato la strategia operativa che si intende seguire per costruire lo scenario di sviluppo possibile. In particolare:

  • Gli strumenti programmatici e finanziari di riferimento
  • Le procedure di consultazione sociale ed economica che si intendono porre in essere
  • Obiettivi e risultati misurabili, indicando i tempi entro cui devono essere raggiunti
  • Le strutture amministrative responsabili dell’attuazione (governance e government del processo)

Queste scelte competono al Comune di Napoli. Esse vanno adottate con la piena consapevolezza e il coinvolgimento responsabile delle comunità locali, un presupposto delle politiche comunitarie, adatto a creare un clima positivo e di fiducia intorno alla complessa opera di riqualificazione e sviluppo del territorio flegreo della città di Napoli.

Per tali scopi la BRI offre tre mesi di lavoro, considerati il tempo minimo per produrre un contributo di analisi e di proposta con il coinvolgimento attivo del tessuto sociale ed economico del territorio.

E’ un’offerta di collaborazione gratuita al sistema pubblico, unico potere a cui spetta, ed è riconosciuto, il compito di costruire il bene immateriale della coesione per lo sviluppo. La BRI-Banca Risorse Immateriali mette le proprie collaudate competenze professionali al servizio di questa impresa.

“Avevamo la luna”, il bel libro di Michele Mezza

di Massimo Preziuso

Non sono bravo a scrivere di libri, ma quello dell’innovatore Michele Mezza è davvero ben fatto e vale la pena cimentarsi. Anche perché con Michele discutiamo di innovazione dagli albori di Innovatori Europei nel 2006.

In “Avevamo la luna” Michele mette su carta (e su evoluti supporti digitali, che interagiscono direttamente con il volume, attraverso l’uso di smartphone) una enorme mole di originali informazioni “connesse” tra loro nello storico “anno – cronotopo” 1962-64: “tre anni di grandi corse, di spericolate acrobazie, di scoperte e innovazioni. Quaranta mesi vissuti tutti d’un fiato. Con una continua alternanza di improvvise accelerazioni e brusche frenate. Un sogno realistico concluso in una curva senza uscita, come l’elegantissima Lancia Aurelia del film Il Sorpasso, del grande Dino Risi, interpretato da un baldanzoso e un po’ gaglioffo Vittorio Gassman e da un timido ma fremente Jean – Louis Trintignant, prodotto proprio nel 1962, un fotogramma del quale abbiamo scelto per la nostra copertina” dice l’autore.

Un libro che parla di un periodo di potenziale svolta per il Bel Paese, intrecciandone fenomeni politici, nazionali ed internazionali, con le dinamiche delle nascenti industrie del futuro (principalmente elettronica – digitale, spazio ed energia) che mettevano le prime radici proprio nel nostro Paese. Proprio mentre il mondo cattolico viveva un incredibile periodo di innovazione con il Concilio Vaticano II, facendo di Roma il centro del mondo per vari mesi.

Un’Italia nel pieno di un potenziale protagonismo mondiale, fermata – secondo l’attenta analisi del libro, sviluppata anche attraverso numerose interviste con i protagonisti di quei tempi (come Reichlin, De Rita e tanti altri) – dalla assenza di una guida politica forte e consapevole.

 – Una sinistra non capace e non interessata a leggere fenomeni a quel tempo destabilizzanti per la proprio ideologia e visione del mondo, come quelli che ad esempio già “vedeva” un Adriano Olivetti nel presentare al Presidente della Repubblica Gronchi i primi personal computer della storia mondiale – gli Elea – dicendo (siamo nel 1959!) che “L’elettronica….sta avviando l’uomo verso una nuova condizione di liberà e di conquiste”.

– Un partito governo (la DC) nei fatti ostacolato da un “quarto potere” (confindustriale e statunitense), che impedisce ad una leadership illuminata (come era già accaduto con Fanfani, in questo “cronotopo” con Moro) di riformare completamente il Paese, con lo sviluppo dei settori industriali strategici del futuro (soprattutto l’elettronica, ceduta agli americani), riducendone l’impatto – con la stagione del consumismo “all’americana” – alla troppo repentina trasformazione di un popolo, uscito troppo in fretta dalle campagne per entrare prima nelle fabbriche “fordiste” e poi “sentirsi” al centro del mondo come consumatore.

Ed è proprio dall’incrocio dei problemi di una sinistra incapace di leggere il nuovo e di un centro – motore di governo – impossibilitato a portare il Paese verso un futuro roseo dai suoi alleati extra politici ed internazionali, che viene  una esplicita richiesta al Paese alla rinuncia della leadership industriale del privato nei settori che avrebbero poi disegnato il futuro, in cambio di una accettazione di un esperimento innovativo di governo (quello di centro – sinistra).

Mezza conclude dicendo quello che da tempo penso anche io: che oggi il “centro sinistra” di governo ha una nuova (e ultima) opportunità di “leggere” il potenziale di innovazione e sviluppo legato alla rivoluzione digitale – originato proprio a partire quel “cronotopo”, cresciuto poi negli Stati Uniti e poi di nuovo accolto negli ultimi decenni da una Italia naturalmente portata a “lavorare in rete” – e farne driver di sviluppo sostenibile delle proprie comunità (territoriali ed imprenditoriali) puntando sulla naturale convergenza che esiste tra le nuove tecnologie digitali ed energetiche  per lo sviluppo delle città intelligenti.

E’ su questo punto che – come Innovatori Europei, insieme a vari partners – avvieremo da settembre un mini tour con Michele e il suo “Avevamo la Luna”: per arrivare a spunti ulteriori  sul come avviare politiche sistemiche di innovazione, che facciano incontrare i mondi del digitale e delle energie distribuite per creare sviluppo diffuso e sostenibile e maggiore democrazia.

La lezione egiziana: democrazia o egemonia?

di Michele Mezza

La rimozione del presidente egiziano Morsi pone il tema del rapporto fra democrazia e rete da un’angolazione più concreta e pertinente.

Rispetto alle fumisterie con cui gli opinionisti politici sembrano volersi baloccare per confutare l’opzione di democrazia diretta che il popolo della rete propugnerebbe al Cairo è in scena il vero conflitto moderno: consenso vs egemonia.

In sostanza, la rimozione dell’uomo dei Fratelli Mussulmani che dopo aver raccolto un consistente consenso elettorale ha cominciato ha ridurre spazi di libertà e soprattutto a non garantire modalità di sviluppo ed emancipazione economica, rende esplicita la polarizzazione fra le ragioni della modernità e quelle della rappresentanza popolare.

Da una parte , al Cairo come a Istanbul, e su altri versanti anche a Rio De Janeiro, o a Damasco, o alla stesso Pechino e Mosca,i soggetti più avanzati, autonomi e competitivi della società, che coincidono con il ceto imprenditoriale e intellettuale urbano più giovane, si mostrano sempre più irrequieti rispetto agli equilibri di governo sostenuti da maggioranze periferiche e assistite.

Ma pur sempre maggioranze. Il cui collante in alcune aree è il fondamentalismo religioso, in altre la nostalgia ideologica, in altre ancora il nazionalismo o il populismo rancoroso.

Sono queste le identità forti che coagulano consensi di massa. Mentre in minoranza, per quanto rumorosa e rilevante, sono quei ceti che a prima vista a noi ci piacciono di più: giovani, alfabetizzati, emancipati, competitivi, laici, innovativi.

Finalmente siamo usciti dalla banalità delle definizioni per cui era internet che faceva le rivoluzioni.

Internet raccoglie e forma i nuovi profili professionali, dando linguaggi e strumenti operativi, ma la motivazione e identità è data dal bisogno di muoversi e di relazionarsi in rete, per cultura, interesse, o semplicemente per volontà.

Siamo dinanzi ad un disaccoppiamento fra progresso e consenso, o meglio ad una separazione fra ceti urbani che competono e si relazionano globalmente, anche se da lontano – dal centro storico di Londra e New York si è più vicini a piazza Taksim a Istanbul o piazza Tahrir al Cairo di quanto non lo siano le rispettive periferie rurali – in contrapposizione alle aree sociali meno sicure e rampanti, ancora bisognose di protezione dallo stato, e dunque alla ricerca di rappresentanze politiche paternalistiche.

E’ il dilemma che ha conosciuto Obama fra la prima e la seconda elezione, quando ha cambiato maggioranza passando dal consenso della rete a quello del medicare. O, in Francia, dove coincide con la differenza fra una destra populista e statalista e una sinistra bohemien. O in Germania, dove si confrontano una DC statalista, efficiente e assistenziale e una SPD che non è ne assistenziale e popolare,, ne competitiva e rappresentativa dei i nuovi talenti giovanili. O, e veniamo alle dolenti note, in Italia dove il voto dei centri storici piega sempre più a sinistra e quello delle periferie, quando si esprime , sempre più a destra o a surrogati della destra, di cui Berlusconi rimane l’interprete principe.

Siamo dinanzi all’istituzionalizzazione di quella che i sociologi chiamavano la sindrome israeliana, dove da 20 anni la destra poggia su una base popolare, nazionalista, paurosa e minacciosa, e la sinistra su un ceto borghese avanzato , illuminato e globalista. La prima è larga maggioranza numerica, la seconda a volte è egemone culturalmente.

Non a caso in questi giorni dinanzi ai morti egiziani la sinistra tace , per la prima volta, in tutte le sue varianti: PD, renziani, radicali, pacifisti, arabisti, terzomondisti: tutti uniti nel silenzio.

da qui bisogna ripartire, altro che le bubbole sulle regole del congresso: democrazia o egemonia? conquista di consenso vasto e pluralista, con una proposta popolare o arroccarsi in una estetica della competizione, concentrandoci sui ceti trainanti? sono due prospettive eticamente equipollenti. In nessuno dei due casi si prevede di rimanere legati a ceti corporativi, urbani, protetti e minoritari, come sono oggi i lavoratori del ciclo tradizionale.

Quella figura non compare su nessun palcoscenico citato. Proprio perché, come spiega Manuel Castells, i movimenti moderni, che innestano conflitti reali e duraturi, sono basati ed alimentati dalla domanda di autonomia degli individui rispetto alla distribuzione di sapere. La potenza di questa autonomia produce innovazione , mentre il prevalere delle identità produce stabilità. Scegliamo. Adesso e lavoriamoci su.

Finanziamento pubblico e democrazia interna dei partiti: non facciamo ingannare. Frosinone, 10 Luglio

Catturan_ns

Rete La Fenice e Fondazione Etica invitano i cittadini al dibattito aperto su

Finanziamento pubblico e democrazia interna dei partiti: non facciamoci ingannare

Mercoledì 10 luglio – ore 17.00

Frosinone – Palazzo dell’Amministrazione Provinciale, in Piazza Gramsci 13

Dopo i saluti di Giuseppe Patrizi, Commissario Straordinario Provincia di Frosinone, interverranno:

Paola Caporossi, Vicepresidentessa Fondazione Etica;

Gregorio Gitti, Deputato Scelta Civica- Responsabile Nazionale Enti Locali;

Gennaro Migliore, Capogruppo Sel alla Camera;

Arturo Parisi, già Ministro della Difesa.

Modererà Giuseppina Bonaviri.

Seguirà ampio dibattito con la massima partecipazione dei cittadini.

Per confermare la propria partecipazione, scrivere a: info@fondazionetica.it.

Scarica l’invito

L’Italia sperduta

Di Giuseppina Bonaviri

Presso la Fondazione Censis in Roma si è realizzato a giugno “Un mese di sociale”. Si è discusso della società impersonale estendendo il dibattito anche alla politica in un tempo presente che non ci rappresenta più. Non si percepisce, nella attuale società, il senso della convivenza umana ed il deperimento della funzione ideativa del pensiero porta a mancanza di consapevolezza critica fuori da un modello ormai divenuto evanescente. Paradossalmente la cosiddetta società democratica pone a fianco individui che non si conoscono facendoli abdicare dall’educazione e creando uno spazio virtuale dove elogio del moralismo , sfaldamento della polis, nostalgia di socialità lascia posto a modelli finzionali, alla mancanza di consapevolezza critica, alla caduta del ruolo domestico, al pensiero unico dominante dove la mobilitazione delle masse rimane pietrificata a favore di una società di mercato competitivo dentro il quale l’essere diventa mucillaggine.

Ogni protesta si consuma in pochi giorni, fallisce la classe politica, cala la partecipazione, si soffre la crisi. Una Italia che appare fatta di cera dove elogio della mediocrità e politica evanescente non consentono la costruzione di un tessuto comune e che invece sono accesso ed entroterra alla costruzione della società impersonale. Nella attuale società ci si riconosce solo per gli stili vita: stesso lavoro, stesso reddito, stessa fede religiosa, stesso genere, stessa chirurgia estetica oppure stessa sindrome paramafiosa che necessita di sapere “di che gruppo sei?” Si creano sottosistemi spettacolarizzanti che, fuori dal concetto di benessere della collettività, sono  parabola alla moltitudine sostenuta e fortificata dai mass-media omologanti nel concetto di “i media sono io”. Questa dimensione di non coinvolgimento fa si che dati, numeri, rating, indicatori, stime, sondaggi si sostituiscano al concetto di “personale” permettendo la trasformazione del “noi” in profili e modelli econometrici che mistificano, con effetti annunci, il nostro futuro e la produzione reale della nostra conoscenza del mondo.

Questa iniziativa, che il Censis ha organizzato per molte donne ed uomini di buona volontà, alla metà di un anno tormentoso e ostile alla cittadinanza attiva ci è apparsa in sintonia con il grande desiderio di innovazione e modernità di cui abbiamo fortemente bisogno anche nel nostro territorio . La nostra Provincia, schiacciata dalle logiche di un mercanteggiare politico che ci sta distruggendo, necessita di partecipazione ed azione. La nostra terra non è destinata al populismo del guardare ma all’impegno, alla consapevolezza, all’approfondimento che ci consente di cercare nuove sfide quelle che possono metterci alla prova e che ci permettono di riflettere su noi stessi, sulla nostra relazione con al realtà e soprattutto con gli altri. I problemi richiedono soluzioni complesse, progettate con cura, proiettate nel tempo, realizzate con pazienza. Ne deriva un bisogno di interpretazione, vero fulcro della coscienza collettiva al di là di ogni trasparenza e conoscenza.

La rivoluzione in Egitto

di Fabio Agostini

Egitto che succede? Gli USA non usano la parola golpe, perché?

Perché secondo la costituzione americana, gli USA non potrebbero poi finanziare un paese non “democratico”. Ma come mai gli USA non definiscono quello Egiziano golpe militare?

E’ forse perché la macchina militare Egiziana é di fatto una costola della macchina militare americana?

Due post del mio blog sulla situazione egiziana pubblicati nel 2011 che danno gli strumenti per capire e analizzare la situazione attuale.

http://ita-economiaepolitica-fabioagostini.blogspot.co.uk/2011/01/legitto-gli-stati-uniti-e-il-medio.html

http://ita-economiaepolitica-fabioagostini.blogspot.co.uk/2011/02/egitto-e-medio-oriente-possibili.html

L’Unione dei popoli

di Mario Coviello

Come è vista l’Unione Europea nel nostro paese e cosa effettivamente rappresenta oggi l’ Europa per i suoi abitanti?

La risposta cambia a secondo della latitudine e della longitudine in cui il nostro ipotetico cittadino europeo risiede e certamente anche in base al ruolo socio-economico che lo stesso occupa all’interno dello stato di appartenenza.

L’Italia rappresenta in larga parte un detrattore del sistema così congeniato.

Sistema perché l’Unione Europea è un ente dotato di personalità giuridica internazionale, che è demandata alle competenze specifiche riportate  nel testo costituente, senza disporre della sovranità completa sugli stati parte.

Il fatto principale è che oggi il cittadino europeo si fa i conti in tasca e, dunque – se è pur vero che i soldi non fanno la felicità – è anche vero che in paesi come l’Italia la costituzione di questa confederazione di Stati ha visto scemare le possibilità di condurre una vita adeguata alle aspettative ormai di più generazioni.

L’adeguamento al trattato di Maastricht nei termini di riduzione del debito pubblico, mentre accelera il fenomeno della globalizzazione e della delocalizzazione, rappresenta la croce da portare ,tra l’altro con un peso distribuito in maniera diseguale, in cambio di un contraltare di opportunità sempre minori e riservate a poche categorie professionali e ad aree geografiche meglio collegate.

L’Unione chiaramente non può e non deve essere vista solo in termini economici: essa ha infatti migliorato i rapporti tra tanti stati confinanti in continua disputa (ad es. Francia e Germania) ed ha portato sollievo a tante popolazioni sofferenti (come i paesi dell’ex Unione Sovietica), ma è anche vero che, al suo interno, il peso egemone lo posseggono i paesi del centro Europa dotati di un potere finanziario, industriale e organizzativo maggiore.

Sarebbe auspicabile un disegno condiviso tra i paesi dell’area anche perché è evidente che il futuro porta a due antitetiche soluzioni.

– La prima rimane una maggior coesione interna  attraverso un rafforzamento di sovranità che richieda però una tutela ed un alleggerimento in termini di austerity per l’area mediterranea .

– La seconda vedrebbe di contro i colossi dell’Europa centrale fagocitare le deboli realtà periferiche e alimentare una crescente volontà a ridiscutere i trattati sull’Unione, tra l’altro mentre si celebra l’allargamento verso oriente con l’ingresso della Croazia e forse un giorno anche della Turchia.

L’Unione Europea, intanto,  nonostante la crisi sta negoziando il grande accordo di libero scambio con gli Stati Uniti ed intrattiene un florido import export con la Cina, fatti che attestano il suo ruolo preminente nelle relazioni commerciali .

In tale prospettiva potrebbe migliorare la condizione di centinaia di migliaia di disoccupati  che  soffrono politiche inadeguate, nonostante essi siano cittadini e contributori del bilancio europeo.

For a european sustainable development plan

By Alfonso Iozzo (October 2011)

In today’s radically changing world, which is characterised by the participation of
increasingly large sections of the population in the processes of economic growth,
necessitating rational and efficient use of natural resources (food, energy), Europe must
implement a strict policy of control of resources, in order to bring about an equitable and
sustainable transformation of its economic and production system.
In this regard, Europe has already made fundamental choices in the right direction,
from the aims stated in the Lisbon Treaty to the European Council’s decisions for 2020.
The route of strict budgetary discipline (both for states and for individuals) and sustainable
development is one that can be followed only through a common European effort. Growth
can be resumed only through investments that make European businesses competitive,
reducing the consumption and costs of energy and raw materials, maximising the use of
information technologies, developing and spreading the knowledge society, and
rebalancing purchasing power.
The progressive increase in the per capita income of people in the developing
economies is giving Europe enormous scope for exporting its quality goods and services.
But unless it is made perfectly clear that it is possible to start moving towards a new and
different stage of development, this crucial opportunity to include the European economy
in the new global cycle will be lost.
The capacity to produce high-tech industrial goods, advanced services and cultural
goods is already widespread in many sectors and areas of the European economy, but
this capacity will not spread, increase and improve unless it is part of a specific strategic
choice.
The creation of the common market, and then the single market, allowed Europe to
enter long expansionary cycles. What is called for now is a similar choice, geared at
ensuring Europe’s full integration into the new global economy. Although the proposals
circulating in this difficult period for the European economy are often along the right lines,
the fact that they are restricted to the single national frameworks reduces their feasibility,
effectiveness and economic impact.
The 1992 single market programme aimed to tackle the costs of the market
fragmentation of Europe, referred to as “non-Europe”; today, nearly two decades on, the
solutions being proposed are still restricted by the costs that have to be borne as a result
of “non-Europe”. One need only consider the most outstanding example, that of
investments for research – especially in the field of new energy –, in order to appreciate
that purely national programmes, not integrated at European level, are an appalling waste
of resources, completely incompatible with the necessary austerity policy that is now
shaping budgets in the both public and the private sector.
It has become essential to launch a “European plan”, limited but decisive, in order
to show Europe’s economic and social actors the direction that has to be followed. It falls
to the European Commission primarily to put the necessary measures to the European
Parliament and the Council of Europe and to present them to Europe’s citizens and
political, economic and social forces.
This “plan” must also cover relations with those areas that, on account of their
geographical proximity, are most closely linked with the EU, especially the Mediterranean
countries that have recently started a process of radical political, economic and social
change.
The investment plan once proposed with great foresight by Jacques Delors must
now be realised in a form designed to create the conditions of competitiveness,
sustainability and social coherence on which Europe’s revival depends.
It is up to the Commission to indicate which projects to support, to make sure they
are feasible and to ensure that they are managed in a rigorous and transparent manner.
Ultimately, the European budget should be financed entirely by the EU’s own resources,
and the carbon tax, the tax on financial transactions, and the new European VAT should
be its key components. The proposals already put forward by the Commission with regard
to the carbon tax and the tax on financial transactions are, indeed, essential elements of
the “plan” and their adoption would secure it the funding it needs.
The carbon tax, moreover, could push the economic system in the direction of
sustainable choices; in addition, it is compatible with transitional measures aimed at
increasing the tax on goods imported from areas that have not adopted similar measures.
The tax on financial transactions, on the other hand, could be exploited as a means
to ensure that the change of economic system is socially sustainable in the transition
phase, as it would allow significant refinancing of the European Globalisation Adjustment
Fund (whose tasks would be redefined) and the shifting of at least part of the tax burden
from unskilled and precarious labour to financial income.
The launch of the “plan”, with its common European taxation measures, should be
accompanied by a reduction of the costs currently sustained by the single member states
in areas of joint action.
In order to guarantee that resources are used with the utmost transparency and
efficiency, it would be necessary, wherever possible and certainly in the field of research
into new energy sources, to activate specific programmes and, where appropriate, to
create agencies to oversee the use of the funds.
Since its main purpose would be to stimulate investment, the “plan” would have to
include major multiannual projects and the financing should cover a number of years. This
would mean starting to issue European project bonds and involving the EIB in the
preparation and management of the said investments. These would be implemented
through an “Assets Fund” which would retain ownership of the investments made (in areas
funded by the “plan”), thereby ensuring the availability of resources for future generations
– resources that would also be generated by deferred income on these investments.
Financial aspects
The tax on financial transactions would have to generate around EUR 30/40 billion
of additional resources for the European budget in order to guarantee adequate funds for
research and for the refinancing of the “fund “set up by the Commission in 2006 to cope
with the difficulties created by the adjustment of the labour market to globalisation. This
would bring the EU budget close to the ceiling (1.27 % of GDP) previously agreed
between the member states.
In past expansionary cycles Europe managed to create over 15 million new jobs.
The present “plan”, being designed to boost competitiveness, particularly of the services
sector, thereby halving the current unemployment rate, should allow the creation of at
least 20 million new jobs.
The investments envisaged by the “plan” should amount to at least EUR 300/500
billion, to be paid over 3/5 years. To cover the issuance, by the EU, of European project
bonds or guarantees, the carbon tax would have to be capable of generating income in
the order of at least EUR 50 billion/year. The use of the carbon tax to support the
investment plan in the start-up phase would be entirely justified by the fact that the tax
itself would tend to diminish as the European economy – also thanks to the proposed
“plan” – made greater use of non-CO2 generating energy sources.
At the end of the “plan” the Union would have assets probably worth at least twice
the investments made, thereby guaranteeing the upcoming generations adequate support,
rather in the way young Norwegians benefit from a state pension fund fed by oil revenues;
in this case, however, the revenues would come from the new energy sources created
under the “plan” through investments and research spending. In particular, the “Assets
Fund” could support the entry of young Europeans into the working world, through
community service projects aimed at young people who have come to the end of their
studies (along the lines of the “Erasmus” projects), training projects geared at eliminating
the phenomenon of insecure employment, and projects promoting self-employment and
the development of youth entrepreneurship.
Partial or complete activation of the “plan” by a group of member states
To guard against the possible emergence of insurmountable difficulties precluding
the participation of all the states, provision must be made for the possibility of a group of
states (probably the eurogroup and other interested member states) pressing ahead with
the “plan” without the others. This could be done by applying the rules on enhanced
cooperation, as already envisaged by the recent “Euro Plus” proposals on competitiveness
presented by the German government.

Il collo della Giraffa

di Michele Mezza

Perchè Renzi oggi è come Tony Negri ieri.

Ci si accapiglia sulle candidature all’interno del PD. In realtà è un pacchiano tentativo di qualche boiardo di posizionarsi di fronte al prossimo leader.Ma perchè Renzi appare irresistibile? e perchè nel caso solo Letta potrebbe in qualche modo contrapporsi? In sostanza perchè sembra esaurirsi la vena delle personalità provenienti dalla cultura comunista, o più in generale della sinistra del lavoro?

Io penso che si tratti di una svolta drastica, e inevitabile. Renzi oggi è forse il vessillifero di una leva di personalità che si distaccano dal tronco della sinistra in virtù della capacità di leggere e interpretare il nuovo.

Non è la prima volta che accade.

Togliatti usava per definire il PCI la metafora della Giraffa, come abbiamo rilevato nel libro Avevamo la Luna: un partito ben piantato nella società, con zampe forti, ma un lungo collo che gli permette di vedere lontano. Ad un certo punto questo collo sembra entrare in conflitto con le zampe.

Il momento in cui ciò diventa esplicito è proprio quello che nel libro chiamiamo il cronotopo del 62. In quell’anno virtuale che inizia nel gennaio del 1960,con la prima giunta di centro sinistra a Milano, continua con i moti del 60/62, con i ragazzi dalle magliette a strisce in piazza, si allunga nel concilio vaticano II, e poi nel convegno del Gramsci del marzo 62, per concludersi , il 31 agosto del 1964 con la cessione della divisione elettronica dell’Olivetti, il cui profeta Adriano, già nel 59 parlava di informatica come tecnologia di libertà, la sinistra italiana si trova spiazzata da uno sviluppo tecno sociale che indica chiaramente come la fabbrica non sia l’ordinatore del paese.

Sappiamo bene come andò allora: l’apparato ideologico del partito rimase al riparo della cultura togliattiana che intrecciava l’ideologismo piccolo borghese con una matrice di aristocrazia operaia sempre più anacronistica. Un equilibrio che salvaguardò il partito dalle degenerazioni sovietiste, guidandolo nei meandri di una geopolitica in cui si alternava il legame con Mosca alla natura nazionale del partito. Un capolavoro diplomatico che comportò la rottura dell’osso del collo. Infatti chiunque cercava di inerpicarsi lungo la propaghine della giraffa, veniva fatto ruzzolare.

Trentin a Magri , per citare i due più brillanti eterodossi disciplinati, che si piegano alla logica internazionale, e congelano le loro visioni sul neo capitalismo. Proprio Magri, nel suo Libro il Sarto di Ulm, riprendendo quel dibattito così riassume la sua posizione:
La più grande novità che il capitalismo ha introdotto nella storia della società riguarda certamente il lavoro: da un lato la progressiva trasformazione di tutto il lavoro vivo in salariato, l’incorporazione incessante del lavoro vivo in capitale sua incorporazione in un sistema di macchine. Un’occasione storica assolutamente nuova si offre per la liberazione umana: sia come liberazione dal lavoro che come liberazione del lavoro.

Un’intuizione costata cara a Magri. Ancora più cara costò la lucidissima intuizione di Romano Alquati che con i primi sociologi socialisti nel 62 aveva progettato una preveggente con ricerca sul lavoro operaio all’Olivetti, da cui si ricavava che nella nascente informatica ogni operaio tendeva a diventare auto-imprenditore di se stesso. E ancora più tardi Tony Negri, prima della deriva insurrezionalista, comincia a ragionare sulla dissoluzione della fabbrica e le nuove forme di conflitto capitale cittadino. Tutti questi colli di giraffa vengono mozzati, perchè insidiosi nella loro tenace intelligenza in grado di svelare che il re leninista era già nudo 40 anni fa. Non parliamo poi di quelle ridicole protesi in miniatura che furono i gruppi del decennio 70/80, che equivocarono il tramonto della centralità operaia per l’alba di una possibile rivoluzione in occidente, lasciando nel frattempo campo libero a chi, attraverso il vero scambio consumo consenso, cominciava a costruire il proprio impero, in America con il computer, in Italia con la TV. Ora siamo dinanzi ad un nuovo collo che si protende: Renzi infatti non appare molto diverso dal Tony Negri di metà degli anni 60: anch’egli intuisce un cambio di paradigma e dannunzianamente butta il suo cuore oltre l’ostacolo, perchè si vede solo.
Le zampe del partito di massa sono ormai tutte ingessate: questa è forse l’unica speranza che ci rimane per confidare che non finisca anche questa volta come 50 anni fa.

Oggi Renzi a differenza di Trentin, Magri, e Alquati, dispone di una base sociale diversa: intraprendente, autonoma e autoorganizzata con la rete. Non dispone ancora di un pensiero lungo, di un modello di valori e di conflitti adeguati. Sta a quello che rimane della sinistra giocare la partita: dare un’anima modernamente alternativa alla sensibilità digitale di Renzi. Senza rimpiangere giraffe e giaguari. Lo zoo è chiuso, per fortuna.

News da Twitter
News da Facebook