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6 Ottobre, Roma: “La Politica tra Riforme e Progetti”

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Dopo lo scorso convegno di Settembre 2015 sul Mezzogiorno protagonista tra Europa e Mediterraneo, che ha contributo al Master Plan per il Sud, nell’ultimo anno gli Innovatori Europei si sono concentrati sul tema della Forma Partito, dentro e fuori la omonima Commissione istituita nel Partito Democratico, provando ad orientare il dibattito sull’importanza di un Partito – ma più in generale di partiti – aperto e scalabile attorno alla realizzazione di “Progetti” condivisi, veri collanti di un dialogo territori e istituzioni centrali, unici attrattori di sano consenso, in un periodo caratterizzato da così alta disaffezione per la politica.

Nel pieno del dibattito sul Referendum Costituzionale di autunno, che propone la approvazione di importanti modifiche al sistema istituzionale, che aprono il Paese ad una fase di nuova progettualità si è dunque scelto di dedicare il prossimo convegno annuale a “La Politica tra Riforme e Progetti“.

Il convegno è organizzato dal Comitato #BastaunSì di Innovatori Europei e si terrà il 6 ottobre 2016 dalle 9.30 alle 14 presso la Sala delle Conferenze del Partito Democratico, in Via Sant’Andrea delle Fratte a Roma –

Per partecipare: infoinnovatorieuropei@gmail.com

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Link al Resoconto del Convegno La Politica tra Riforme e Progetti

 

Il sorpasso delle conversazioni sulle domande (di Michele Mezza)

Il sorpasso delle conversazioni sulle domande. Così potrebbe sintetizzarsi la notizia di ieri del tutto ignorata da media e politica- che vede per la prima volta Facebook sopravanzare frequenza la homepage di Google. E’ ovvio che se aggiungiamo tutte le applicazioni del gruppo di Mountain View allora Google è ancora in testa. Ma il fatto che il social network più popolare per un’intera settimana riesca a superare il motore di ricerca più cliccato dovrebbe dirci molto.
Intanto , dovrebbe avvisarci che qualcosa di rilevante sta accadendo sulla rete: la socialità sta diventando il linguaggio dominante. La rete serve circolarmente a cooperare, in qualsiasi forma, dalla più frivola del cinguettio fra due adolescenti, alla più solenne delle ricerche scientifiche di gruppo. In rete si conversa per creare insieme. E non si domanda più solo a chi sa tutto. Anche quest’ultima cattedrale del top down si sta sbriciolando. Google che aveva dato il più possente colpo di piccone alla cultura dall’alto, ed allo stato proprietario, comincia a vacillare anch’esso sotto la pressione della cultura che ha contribuito a diffondere. Il vaso di Pandora è ormai irrimediabilmente aperto: ne sta uscendo una forza al momento non riducibile ad un singolo asseto di potere, come è il protagonismo collettivo.
La seconda cosa che ci dice l’evento è che ormai la conversazione è una pretesa sociale, un senso comune: io partecipo solo se sono ascoltato. Internet diventa allora la social listening technology.
Si rovescia il paradigma di Guttemberg: con il libro vincevano quelli che parlavano, coloro che dall’alto elargivano lezioni o comunicavano contenuti. Intendiamoci:una straordinaria stagione della civiltà, che ci ha portato a salire sulle spalle dei giganti. Ora però muta il contesto. Vince chi ascolta, chi , di volta in volta, sale sulle spalle di milioni di nani. E’ un tornante radicale, che ci porta in un’altra dimensione psico-sociale. Ed infatti proprio oggi è stato diffusa una rigorosa ricerca della BBC,a livello internazionale, sul modo in cui gli internauti intendono la rete. 4 utenti di internet su cinque considerano l’accesso in rete un diritto primario, e la libertà di uso della rete una rivendicazione costituzionale. Cosa ci vuole di più per comprendere che questi due dati- l’affermazione dei social network e la pretesa sociale di accesso- sono destinati a mutare la natura e la forma delle relazioni sociali a partire dalla politica. I meccanismi di formazione e trasmissione del sapere sono la matrice dei rapporti sociali e di potere. Al di fuori di questa visione la politica perde la sua capacità di incidere e di rappresentare la vita delle persone e delle comunità, riducendosi a cerimoniale decadente. Del resto proviamo a fare la prova del 9: ammettendo che quanto abbiamo qui accennato sia vero tutto quanto è accaduto dal 1989 in avanti acquista un senso compiuto a no? Ossia lo sgretolamento della forma dei partiti di massa, la perdita di rappresentanza e di incidenza sociale del movimento del lavoro, l’incomunicabilità delle sinistre, in tutte le versioni, con le nuove generazioni, l’incapacità di aggredire i linguaggi comunicativi. Tutto questo assume una sua ineluttabilità razionale alla luce dei nuovi processi sociali indotti dalla rete. Mentre se non li consideriamo come centrali, dobbiamo rassegnarci a considerare tutto quanto accade come il risultato di un destino cinico a baro.
Allora, perché i dati che citavo all’inizio entrano nell’agenda politica? Perché chi si candida a governare città a regioni non fissa il diritto alla connettività come questione sociale?Non lancia il tema di un piano regolatore della comunicazione? Perché chi attende alla ricostruzione della sinistra non prende atto che è la rete la nuova fabbrica? Come dice Manuel Castells nel sul ultimo libro Comunicazione e potere (Bocconi editore, Milano 2009)” i media non sono il quarto potere. Sono molto più importanti; sono lo spazio dove si costruisce il potere. I media costituiscono lo spazio in cui le relazioni di potere vengono decise tra attori politici e sociali in competizione fra loro”.

Michele Mezza

Il voto degli italiani del giugno 2009 (di Michele Mezza)

italiaL’esito dell’ultima consultazione elettorale offre numerosi spunti di riflessione. Soprattutto per chi si occupa di comunicazione e mira a decifrare le nuove identità sociali per meglio comprendere e prevedere le tendenze della comunicazione digitale.

Avviare questa discussione è ancora più importante per chi , come ad esempio la comunità di mediasenzamediatori.org si è impegnata in questi mesi in una articolata ricerca sul voto americano e sul fenomeno Obama.

Proprio dalla comparazione fra i due processi può venire una lettura innovativa.

Il voto italiano, del resto, è ricco di indizi per inquadrare la società italiana e il suo contesto europeo.

Il risultato non consente incertezze di giudizio. Se sulla titolarità della vittoria sono ammesse sfumature, sull’identità dello sconfitto non ci sono dubbi: il PD.

Trovo davvero incomprensibili le contorsioni di chi tenta di consolarsi con l’aglietto, come si dice a Roma.

La sconfitta non è nemmeno tanto determinata dai dati numerici, sebbene il regresso di oltre sette punti percentuali e tre milioni di voti in dati assoluti, sono di per sè una sentenza inappellabile.

Ma a dare al tutto un tono perentorio è soprattutto il quadro generale che emerge dal voto.

Un partito d’opposizione, quale è il PD, anzi il partito antagonistico per eccellenza rispetto al leader del governo, come si è qualificato il partito di Franceschini, tutto può ammettere e tutto potrebbe discutere ma non di segnare un calo di circa un quarto del suo valore nello stesso momento in cui il suo avversario registra la prima delusione elettorale degli ultimi dieci anni.

Ed è esattamente questo che è successo: l’opinione del paese ha chiaramente arricciato il naso sulle qualità di statista del suo presidente del consiglio, ma altrettanto chiaramente ha fatto intendere che non gli passa nemmeno per l’anticamera del cervello di guardare al nuovo partito formato da DS e Margherita per il futuro del paese.

Una sentenza senz’appello, che lascia davvero pochi spazi alla speranza.

Quali altre condizioni si devono auspicare per immaginare un’affermazione del PD? Quali terremoti devono scatenarsi per attendersi un’inversione di rotta? Il risultato delle europee, composto da voti espressi e astensioni, ci dice che il partito di centro sinistra non dispone di un’immagine autorevole e rassicurante per governare il paese. Soprattutto per il suo bacino elettorale potenziale.

Sono gli elettori di centro sinistra che hanno bocciato questo PD.

Nonostante che dall’altra parte ci sia un personaggio come il cavaliere.

La bocciatura è a prescindere, come diceva Totò. Una bocciatura che investe sia l’area d’opinione che il mosaico degli interessi materiali e delle rappresentanze sociali che danno corpo e identità ad un partito.

I flussi verranno letti dagli esperti e capiremo in dettaglio come si sono orientati i singoli segmenti.

Ma i grandi trend sono ormai riconoscibilissimi. Nel voto europeo si assistito intanto ad una severa astensione che ha colpito entrambi i campi.

Nel centro destra, Berlusconi ha cominciato, ed è la prima volta che capita dalla sua discesa in campo, a pagare le sue diciamo “eccentricità” sia di stile, Noemi e dintorni, sia di contenuto, le riserve di giudizio dell’opinione internazionale.

Io credo, lo dico assumendo tutti i rischi di un’affermazione apodittica e brusca, che siamo davvero in prossimità di un esaurirsi della spinta progressiva del fenomeno Berlusconi.

Il cavaliere sta visibilmente invecchiando, e le sue disinvolture diventano da scandalose grottesche.

Ma il dato che comincia ad incidere è che il cavaliere non parla più al paese. Non lo fa nemmeno fisicamente: mai come in questa campagna elettorale si è misurato il suo “silenzio”.

Al netto del caso Noemi, il premier non ha detto nulla e poco si è fatto vedere. A conferma che le polemiche sulle sue imprese, amicali o erotiche che siano, in realtà lo aiutano a mascherare la sua inadeguatezza politica.

Berlusconi si sta ritirando di fronte ad un quadro politico che si fa più complicato ed esigente.

Diciamo che il fenomeno Obama sta archiviando il folclore di Berlusconi. I numeri sono espliciti: il Popolo della Libertà ha perso in queste elezioni circa 4 milioni di voti, ha rovesciato i sondaggi che lo vedevano oltrepassare il 40%, ha portato il suo elettorato a non votare, e quando ha votato a non votare plebiscitariamente il capo.

Berlusconi ha molte ragioni per essere incupito, come dice Libero che ben lo conosce. Il premier, infatti, è dotato ancora di raffinatissime antenne ed ha ben compreso il senso del voto per lui: la ricreazione è finita.

Non bastano più le barzellette, la gente vuole strategie. Pretende politiche nuove, che non coincidano con gli interessi della fabbrichetta di famiglia, ma che conducano il paese nel mondo della post crisi.

Per questo Berlusconi ora si stringe a Bossi e cerca di succhiare da lui linfa vitale.

Sa bene che si profila un mondo nuovo, discontinuo, competitivo, diverso, per il quale non ha nulla da dire. Dove non basterà più galleggiare. Obama è stato eletto per questo dagli americani. I socialisti perdono per questo in Europa.: bisogna inventare un nuovo progetto di sviluppo.

Il Popolo della libertà non sfonda perché è ancora prigioniero nello scafandro del suo leader che non è più il valore aggiunto.

Quanto sta accadendo la Sicilia lo aveva già annunciato. Il Nord lo sta amplificando: con queste elezioni è iniziato il dopo Berlusconi.

Le fibrillazioni di Fini ne sono state un prodromo, le incursioni trasversali di Tremonti nel mondo delle partecipazioni statali, dove non a caso si incontra con Prodi, annunciano un possibile epilogo della destra italiana.

Insomma grande confusione sotto al cielo.

Ma, contrariamente a quanto diceva il Presidente Mao, la situazione non è eccellente, almeno per il PD.

Infatti mentre accade tutto questo pò pò di confusione il PD si inabissa. I risultati sono spietati: divelti dai territori amministrati nel sud, non considerati nemmeno al nord, in grave e progressivo logoramente nelle case matte del centro.

Questo come dato di opinione. Perchè poi il voto amministrativo è ancora più brutale: dove si governa si è scacciati, dove si fa opposizione si è rimpiccioliti.

Una sconfitta senz’appello.

Resa radicale dallo scenario politico: i voti persi non sono in libera uscita, come diceva Andreotti dei consensi democristiani che temporaneamente andavano a destra per protesta.

Sono voti che cercano riparo in formazioni senza speranza, ma che almeno danno identità: il laicismo dei radicali, l’essere di sinistra di Sinistra è Libertà, la falce e martello di Rifondazione. Voti sprecati ma almeno mi dicono cosa sono, o cosa vorrei essere. Oppure sono voti che entrano nel bingo di Di Pietro. Un gioco dove non si vincerà mai, ma siccome non costa nulla, anzi a partecipare si guadagna visibilità, allora diamoci dentro.

Ma volendo pure fare conto su questi voti, e immaginando, cosa del tutto irrealistica, di poterli sommare, comunque ci troveremmo condannati ad una marginalità permanente: 26% del PD + 8% di Di Pietro + 6% delle due formazioni di sinistra + 2% dei radicali = 42%.

Ma siamo davvero nel periodo ipotetico del terzo tipo, quello dell’irrealtà.

Il punto è che il PD è come un albero di natale trapiantato sulla spiaggia: un albero senza radici, collocato in un ambiente innaturale e senza simili, incapace di attecchire.

Come si è arrivati a tutto questo? La storia è troppo lunga.

Ma concentriamoci su un dato: perché in questi 15 anni non riusciamo, qualsiasi tentativo si faccia, qualsiasi leader incarni il progetto, a parlare al nord del paese. Un Nord che si mostra mobile, non arroccato, in grado di percepire proposte diverse.

Come dimostrano le oscillazioni a Milano, Bergamo, Brescia, Padova, il Piemonte, la Liguria, Venezia, il Friuli.

Una risposta ci viene dal laboratorio di Sesto San Giovanni, la vecchia Stalingrado D’Italia. In quel centro urbano, adiacente a Milano, dove 35 mila operai erano concentrati in sole 5 grandi fabbriche siderurgiche, oggi lavorano sempre 35 mila individui, in aziende che in media hanno non più di tre dipendenti, prevalentemente informatici.

Era la cittadella della CGIL, che aveva dato i natali a Giuseppe Pizzinato, il mitico capo operaio, divenuto negli anni 80 segretario generale della confederazione del lavoro, sostituendo Lama.

In quel centro, ad egemonia di sinistra da sempre, il Popolo della Libertà ha vinto le Europee e perso le amministrative.

Perchè? Nelle europee ha contato il richiamo ideologico di una base sociale ormai caratterizzata dalle proprie partite IVA, che ha votato il partito dell’impresa e l’ideologia no tasse prego.

Nelle amministrative invece, laicamente, gli stessi professionisti, piccoli imprenditori, tecnici e consulenti, hanno appoggiato il partito dello sviluppo e dell’agenzia delle infrastrutture telematiche, che è stata la provincia di Milano, guidata dal democratico Penati. Se c’è un modo per uscire dal guado è quello: riformulare un progetto politico realmente innovativo, che cominci a mutare il target di riferimento.

Fino ad oggi tutte le evoluzioni della sinistra riformista -PCI, PDS, DS, Ulivo, PD- hanno mutato nome e sede, lasciando intatti programma e gruppi dirigenti.

Proviamo a invertire il trend. Obama lo ha fatto in una congiuntura non dissimile: il dominio dei repubblicani sembrava eterno.

Certo li Bush si è suicidato con la guerra in Iraq, ma non bastava. C’è voluta la crisi economica a cambiare l’orizzonte, ad alimentare na nuova domanda politica, alla quale ha dato una risposta Barack Obama.

Anche in Europa la crisi ancora infuria. Bisogna ripartire da li. La destra sembra voler usare la crisi per riproporre una logica verticale, centralizzatrice, assistenziale.

I riformatori devono rovesciare l’assioma e assumere la rete come paradigma, esattamente come fecero con la fabbrica all’inizio del ‘900. Allora si disse pane e lavoro per civilizzare il capitalismo, oggi si può chiedere più saperi, più competizione, più accessi egualitari per rendere più funzionale e trasparente la nuova marca del mercato che si annuncia.

Ma per aprire questa riflessione bisogna avere chiaro che non si ha più nulla da perdere, che la sconfitta elettorale non lascia margini per formichine della continuità.

Altrimenti cambieremo ancora sigle e targhe davanti alle stesse sedi, ma i numeri saranno sempre gli stessi.

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