Significativamente Oltre

europei

L’uguaglianza estrema

di Raffaele Simone su La Repubblica

Una delle rivendicazioni più insistenti di tutti i movimenti populisti d’Europa è quella della parità totale tra eletti e elettori. Anche il M5S ne ha fatto una delle sue bandiere. Ma a poco a poco quest’atteggiamento egalitario si sta estendendo a tutte le forme di distinzione. Anzitutto quelle funzionali: il capo dello Stato può essere apostrofato come un amico di bevute, gli avversari dileggiati con battute e nomignoli da osteria, le istituzioni trattate come rottami. Tutte le distinzioni si appiattiscono in un’orizzontalità assoluta. Anche il campo delle valutazioni tecniche complesse è colpito dal vento del “tutti uguali!”.

Sebbene il movimento sembri non avere nessun think tank (salvo qualche professore rancoroso), il suo leader e numerosi membri si producono in impegnative esternazioni anche su temi difficili, come la politica monetaria o quella europea. Su che dati si basano queste opinioni? Su che studi? Dagli argomenti del capo, sembrerebbero basati su nulla più di quel che si legge sui giornali o si dice in giro. Insomma, in politica le opinioni generiche cominciano a pesare quanto il sapere tecnico.

Le società democratiche, pur riconoscendo ai cittadini uguaglianza giuridica, civile e di opportunità, preservano gelosamente una varietà di distinzioni tra ordini e ranghi. Il magistrato non può essere sostituito da un comitato di cittadini, il professore dal più bravo dei suoi alunni, il medico da un portantino. Lo spirito di uguaglianza che sta alla base delle democrazie deve dunque ammettere dei limiti. Il grande Montesquieu nell’ Esprit des lois (1748) indicava con folgorante preveggenza che due sono gli eccessi da cui le democrazie devono guardarsi: «Lo spirito di disuguaglianza» ma soprattutto «lo spirito di uguaglianza estrema». Quest’ultimo si ha quando chiunque vuole essere «uguale a colui che ha scelto per comandare. Allora il popolo, non riuscendo a sopportare il potere che esso stesso attribuisce, vuol fare tutto da solo: deliberare per il senato, eseguire le sentenze al posto dei magistrati e esautorare tutti i giudici». Nella «democrazia regolata» si è uguali solo come cittadini; in quella che regolata non è si è uguali anche come «magistrato, come senatore, come giudice…». È chiaro che la richiesta populista di parità senza distinzioni è una delle facce della “uguaglianza estrema” descritta da Montesquieu. Il guaio è che lo spirito di egalitarismo totale dorme nascosto nei tessuti della democrazia, della quale è uno dei “nemici intimi” (secondo la felice formula di Tzvetan Todorov). Il principio democratico contiene infatti un’utopia insopprimibile: l’idea che individui diversi per mille motivi siano uguali dal punto di vista civile, giuridico e politico. Ora, basta prendere quest’utopia alla lettera, non ammettere che si tratta di una “finzione” operativa, per attivare un circuito che porta a rifiutare ogni sorta di distinzione, quale che sia l’ambito a cui si applica. Questa è la fonte della richiesta di uguaglianza estrema che sta alla base del grillismo, in cui agisce anche l’insofferenza, tipica dei populismi, verso le regole della democrazia rappresentativa. In questo panorama qualunque intermediario (dal parlamentare all’amministratore pubblico) è visto come un opportunista, un impostore o un affarista, che lucra vantaggi profittando della delega che ha ricevuto dai cittadini. I populismi contengono infatti una contrapposizione tra il popolo (“noi”) e le élite, e il popolo se lo rappresentano come un’entità omogenea, monolitica, in cui non ci sono differenze di classe o di interesse. È questo popolo che deve esprimere le sue decisioni in politica, senza lasciarle ad altri. Questo è anche il motivo per cui il M5S è così avverso alla mancanza di vincolo di mandato prevista dalla Costituzione, che interpreta come una mera licenza per l’eletto di fare il proprio comodo. Ci sono motivi per considerare inquietante lo “spirito di uguaglianza estrema” già nella sua applicazione alla sfera della rappresentanza. Ma che cosa accadrebbe se la prospettiva disegnata da Montesquieu si realizzasse fino in fondo, se cioè il “popolo” pretendesse di fare non solo il senatore (a questo siamo già arrivati), ma anche il magistrato, il poliziotto, il docente, il giudice?

Le tecnologie del futuro e le città intelligenti

di Massimo Preziuso

Nei giorni scorsi McKinsey ha pubblicato un interessante report dal titolo “Disruptive technologies: Advances that will transform life, business, and the global economy”. Il documento descrive le 12 tecnologie a maggiore impatto potenziale sull’economia mondiale nel 2025, selezionate in un campione di più di 100 potenziali.

Tabella: Stima del potenziale impatto economico delle nuove tecnologie nel 2025 (in migliaia di miliardi di dollari)

Tabella

Fonte McKinsey (Maggio 2013)

Secondo McKinsey la rivoluzione tecnologica in corso da qui al 2025 sarà fortemente centrata sul “digitale” che permetterà – tra le altre cose – di creare business tramite “l’internet mobile” e la analisi dei “big data”, di automatizzare enormi volumi di lavoro manuale ed intellettuale tramite “robot”, di virtualizzare processi reali spostandoli dall’hardware alla “nuvola internet”, di portare la fabbrica in ogni casa con la “stampa 3D” e di connettere “internet” agli “oggetti” trasformandoli in fornitori di servizi.

La tecnologia digitale sta portando inoltre enormi innovazioni nel campo della genomica, con conseguenze potenzialmente illimitate sulla salute e la longevità degli individui.

Queste innovazioni tecnologiche renderanno obsolete grandi parti dell’industria tradizionale e larghe fette di lavoro manuale ed intellettuale, mentre creeranno nuovi business e nuovi lavori, altamente specializzati.

Il trasferimento di enormi potenze di calcolo nella “nuvola”, messe in rete con la pervasività del “mobile internet”, l’intelligenza presente negli oggetti, la presenza di aziende altamente automatizzate  la diffusione di auto a guida automatica, alimentate da potenti “batterie” e da fonti rinnovabili, renderanno la città un ambiente dotato di elevata densità di informazioni, know – how, qualità della vita e creatività. In cui il lavoro si svolgerà in luoghi diversi e in modalità nuove e flessibili.

Un esempio viene dagli Stati Uniti, dove l’effetto dirompente del movimento dei makers è stato riconosciuto dal visionario presidente Barack Obama, che ha annunciato un piano di 3 miliardi di dollari per la creazione di istituti per l’innovazione, i FabLab nati al MIT dal lavoro di Neil Gershenfeld. Laboratori digitali e tecnologici “low cost” in cui si progettano e già si realizzano nuovi modelli di produzione manifatturiera. Dotati di competenze iper specialistiche messe in rete grazie al digitale, saranno questi i luoghi che porteranno alla nascita delle cosiddette “micro – multinationals” (“Race against the machine”, 2011), aziende a struttura operativa micro ma dotate di mercati di riferimento e fatturati di una multinazionale.

Il futuro vive già oggi nelle città intelligenti. Ma per trarne vantaggi netti, esso va compreso prima che arrivi. Soprattutto in paesi come l’Italia, dotati per storia di intelligenza e imprenditoria diffusa, che va finalmente messa a sistema. Grazie alle tecnologie dirompenti.

La generazione dannata: la disoccupazione giovanile come questione morale

Di Francesco Grillo su Il Messaggero

Fa bene Enrico Letta a fare della lotta alla disoccupazione giovanile una questione morale di primo ordine. Nel 2012 sono stati un milione e trecentomila i giovani che in Italia erano fuori da qualsiasi impegno di studio o di lavoro: è un dato che la crisi economica ha reso ancora più drammatico, raccontando di milioni di esistenze che rischiano di perdere senso. In realtà però, anche nel 2007, prima della grande crisi, l’Italia era il Paese che faceva registrare quella che era, di gran lunga, la più alta  percentuale di persone tra i 15 e 24 anni completamente inattivi. Per reagire non è sufficiente aspettare la crescita, e, neppure, appaiono risolutivi gli interventi sulle regole che disciplinano il mercato del lavoro. La priorità, che certamente Enrico Giovannini ha ben presente, è costruire meccanismi in grado di avvicinare in maniera sistematica ed efficiente le competenze degli individui (non solo quelli giovani) alle richieste delle imprese.

In effetti, il fatto che, dovunque, in Europa e nel mondo, la disoccupazione giovanile è significativamente più alta di quella relativa alla popolazione nel suo complesso costituisce un paradosso doloroso che gli economisti non riescono ancora a spiegare: in teoria le persone giovani dovrebbero avere una flessibilità maggiore ed un bagaglio di conoscenze maggiormente adatto per inserirsi in un mondo del lavoro dominato dalle tecnologie. Così non è, e, forse, il dato sulla disoccupazione giovanile suona anche come atto di accusa ad un apparato produttivo che, nel suo complesso, appare privilegiare la continuità sull’innovazione, nonostante la richiesta continua di flessibilità che viene dal mondo delle imprese. Ma il numero ancora più drammatico è, come si accennava, quello dei giovani che non lavorano e neppure studiano (not in employment, education or training): in Italia un giovane su cinque si trova in questa situazione, una percentuale superiore a quella della Spagna che è la pecora nera della zona Euro per ciò che concerne la disoccupazione; nel nostro Paese si trovano, peraltro, più di un quarto dei cinque milioni di giovani inattivi che si contano nell’intera zona Euro. Un primato triste che è, come abbiamo detto, solo in parte conseguenza della crisi e che, anzi, rischia di compromettere per generazioni la capacità del Paese intero di ricominciare a crescere: studi condotti in Paesi diversi quanto lo possono essere Stati Uniti o Brasile, confermano che persone restate fuori dal mercato del lavoro e dello studio negli anni più critici della propria formazione, hanno minori probabilità di trovare lavoro, tendono a perdere fiducia nei propri mezzi e a sentirsi meno inseriti nella propria comunità.

Ma cosa mettere in cima alle priorità di un Ministro che provi con pochissime risorse ad affrontare il problema in un momento così grave? Di sicuro la qualità della regolamentazione può aiutare. Tuttavia, tale nozione non corrisponde sempre al concetto di flessibilità e i dati dimostrano che non sempre un intervento sui contratti è sufficiente: anche se l’Inghilterra e gli Stati Uniti hanno, secondo il World Economic Forum, un vantaggio competitivo su questo aspetto, ciò non toglie che la percentuale di giovani completamente inattivi era superiore in questi due Paesi (attorno al 14% secondo l’OECD) rispetto alla Francia (12) e, ancora di più, rispetto alla Germania (9). Ed, in effetti, ciò che conta – e conta soprattutto per un giovane – non è solo di entrare in azienda, ma anche di avere un periodo di addestramento sufficientemente lungo che gli consenta di acquisire competenze trasferibili al prossimo lavoro.

In effetti, più della crescita e della rigidità dei contratti, i giovani europei ed, in particolar modo, quelli italiani, appaiono fortemente penalizzati da un altro fattore: il forte disallineamento tra le richieste delle imprese e le competenze individuali che i giovani europei maturano a scuola e nel proprio ambiente formativo. Per cinque milioni di giovani che – nella sola zona Euro – non hanno assolutamente nulla da fare, ci sono  – come dimostrano studi di McKinsey –  centinaia di migliaia di posizioni di ingresso nelle aziende europee che non sono occupate.

Ciò, secondo alcuni,  sembra mettere in discussione la capacità che i giovani europei veramente hanno di adattarsi ad un mondo che è molto cambiato rispetto a quello dei propri genitori e che continua a farlo. Ma soprattutto esige un investimento da parte dello Stato – e della Commissione Europea che dovrà farlo per aumentare l’efficienza dei finanziamenti comunitari da spendere nei prossimi sette anni – nel rafforzamento e riqualificazione dei meccanismi di formazione professionale e degli altri servizi che dovrebbero far incontrare domanda e offerta di lavoro.

Qui però c’è un buco nero disegnato dall’esperienza degli ultimi anni: perché se è vero che bisogna investire di più in questi strumenti e altrettanto vero che – come ebbe modo di dire il Governatore della Campania, Bassolino, qualche tempo fa – la formazione spesso serve solo a pagare lo stipendio dei formatori.

La ricetta è, in teoria, semplice: pagare chi forma sulla base del numero e della qualità dei posti di lavoro generati; privilegiare fortemente i progetti al cui costo contribuiscano le imprese presso le quali la formazione si svolge; dare agli stessi beneficiari degli interventi la possibilità di spendere il proprio capitale formativo (voucher) presso l’agenzia che garantisce i risultati migliori.

Anche in questo caso ci sono interessi (economici) che producono resistenza al cambiamento; la crisi, il suo contenuto drammatico che la disoccupazione giovanile rappresenta così efficacemente, rende, tuttavia, il compito del Ministro Giovannini meno arduo e il cambiamento inevitabile.

Verso Anno Uno 2014 in Italia?

 

 

di Innovatori Europei

Lo si sentiva nell’aria da qualche tempo. Che l’Italia 2013 è Italia Anno Zero.

Zero nel senso dell’azzeramento, che è economico, sociale e politico.

Ma è chiaro che quando si arriva allo zero ci sono solo due possibilità davanti: rimanere fermi, a zero appunto, o tornare a crescere, ed andare verso uno.

Ci sono sempre più motivi, a voler essere anche un po’ ottimisti, per pensare che per l’Italia valga la seconda opzione.

Fino ad oggi tali ragioni erano di ordine macro – economico e di natura internazionale.

La drastica cura finanziaria montiana di “austerity depressiva”, se da un lato ha portato il Paese vicino ad un nuovo precipizio (non finanziario questa volta), tramite un miscuglio micidiale di instabilità di finanza pubblica e crollo nell’economia reale (industria e famiglie), dall’altro ha portato ad un rinnovato rispetto delle istituzioni europee verso una Italia che fatto bene – troppo, secondo molti italiani – i compiti di risanamento a casa.

Ed ecco allora che il nuovo governo Letta si è potuto da subito dedicare ad aprire dei capitoli fondamentali per il rilancio del sistema Paese. Discutendo di selettività dei tagli della spesa pubblica improduttiva, di revisione del finanziamento pubblico ai partiti, delle modalità di pagamento dei crediti insoluti della pubblica amministrazione alle imprese.  Rivedendo in ottica di progressività il contributo della patrimoniale sugli immobili (IMU) e provando ad eliminare il previsto aumento dell’IVA. E portando in Europa le esigenze di un Paese stracolmo di disoccupazione e di una industria morente.

Ed è di ieri la notizia che l’Italia uscirà a breve dalla procedura europea per deficit eccessivo, potendo rapidamente liberare risorse per la lotta contro la disoccupazione giovanile (e non solo).

Ma è di oggi la notizia che certifica le altre. Alle elezioni amministrative, al netto di un serio astensionismo avvenuto principalmente nella capitale, il voto premia i due grandi partiti di governo, Partito Democratico per primo.

Il governo delle larghe intese sembra ricevere supporto da parte dell’elettorato e da domani avrà più forza per condurre il Paese verso una crescita che potrebbe partire lenta ma divenire di lungo periodo.

Il Movimento Cinque Stelle, mentre riduce (quasi dimezzando) il proprio elettorato, come da molti previsto (dopo il rifiuto al dialogo di governo con il PD), si avvia verso una fase politica matura, che sarà probabilmente denotata da maggiore qualità di proposta (e il candidato romano De Vito ne è l’immagine).

Nel Terzo Polo emerge una nuova potenziale leadership, che potrebbe caratterizzare una nuova coalizione di Centro – Sinistra: quella dell’ingegnere Marchini, vero outsider della società civile di queste elezioni amministrative romane.

La sua performance – da civico – dà ragione ad esperienze come quella di Innovatori Europei, oggi in grado di rappresentare significative fette di elettorato che non si collocano nel tradizionalismo politico, ma che hanno voglia di esprimere le proprie idee, scendendo in campo.

Ci aspetta dunque un secondo semestre 2013 in cui ci saranno tutte le premesse positive – economiche e politiche – per riportare il Bel Paese alla crescita nell’Anno Uno 2014.

Un anno che sarà per forza di cose partecipato.

Sbagliare anche questa volta sarebbe imperdonabile davvero.

 

Avanti!, più Luci che Ombre

di Giuseppe Mazzella

 

Ugo Intini è oggi un uomo di  72 anni che  ha dedicato oltre mezzo secolo della sua vita  all’ Idea del Socialismo Riformista  facendone una “ religione laica” tentando di coniugare la teoria con la pratica. Si iscrisse al Partito Socialista Italiano a Milano, dove è nato e dove vive,  a 18 anni quando frequentava il liceo classico e si presentò a 19 anni nella redazione milanese dell’ “ Avanti!”, al centralinista ,con la più  banale delle  richieste: “ Sono un compagno e vorrei fare il giornalista, forse può servire una mano”. Ha dato una mano all’ “ Avanti!” per 43 anni  fino a diventare direttore e lo è stato per 9 anni dal 1978 al 1987, il periodo di massima espansione del PSI.

Nel PSI è  sempre stato un “ autonomista”, cioè nel partito della “ Prima Repubblica”   più aperto  di tutti gli altri alla democrazia interna con  una vastità di correnti che si chiamavano “ Riscossa”, “ Presenza”, “ Impegno”, “ Rinnovamento”, “  Unità”, e che si dividevano sull’ eterna questione del rapporto con i comunisti  nell’ eterna questione  di ben rappresentare il movimento operaio, Intini per tutta una vita ha sostenuto che una “ cosa” era il “ socialismo” ed un’ altra “ cosa” era il “ comunismo” e che le due “ cose” non erano coniugabili. Sostenere questo negli anni ‘ 60 e ‘ 70 del ‘ 900, quello che  il grande storico  marxista inglese, Eric Hobsbawm, chiama il “ secolo breve” e che è invece il “ secolo lunghissimo”, non era facile. Trovare uno spazio “ autonomo” per il PSI schiacciato  tra la DC ed il PCI era impresa titanica.

Ugo Intini non si è  mosso di un millimetro da quelle convinzioni giovanili nella buona e nella

cattiva sorte. Dopo la dissoluzione del PSI nel 1993 non è salito sul carro dei  nuovi vincitori della destra berlusconiana ma è rimasto nella sinistra riformista tentando una ricostruzione socialista prima con lo SDI e  poi con il PS di Boselli. E’ stato deputato nella Prima e nella Seconda Repubblica e vice ministro degli esteri nell’ ultimo Governo Prodi.

Dopo questo lungo percorso di vita pubblica  ha deciso di  lasciare una testimonianza e da buon giornalista ha voluto raccogliere i “ documenti” per inserire le sue “ riflessioni”.

Così ha scritto  un libro sulla storia dell’ “ Avanti!” ( si scrive sempre con il punto esclamativo) dove ci ha messo anche la sua storia personale,  le sue esperienze, i suoi ricordi, le sue verità e lo ha scritto in prima persona. Il libro si chiama: “ Avanti!, un giornale, un’ epoca – 1896-1993. Le sue pagine, i suoi giornalisti e direttori raccontano un secolo. Da Bissolati a Mussolini, Gramsci, Nenni, Pertini, Craxi” ed è edito da un piccolo editore romano “ Ponte Sisto”. Ne è venuta fuori un’ opera monumentale di 758 pagine che attraverso le cronache ed i commenti dell’ “ Avanti!” raccontano tutto il Novecento proprio alla maniera “ temporale” di Hobsbawn perché il Novecento dei Grandi Fatti comincia proprio alla fine dell’ Ottocento e finisce non nel 1999 ma almeno 10 anni prima, ma forse continua perché se è  finita la Guerra Fredda  questa seconda globalizzazione aggrava il divario tra ricchi e poveri e fa aumentare e non diminuire la disoccupazione in tutto il mondo dall’ unico sistema economico capitalistico.

Raccontando la nascita, l’ espansione e la morte dell’ “ Avanti!” Ugo Intini racconta veramente un’ epoca, racconta tutta la storia del Partito Socialista Italiano e dei socialisti “ stretti” nello spazio angusto tra i comunisti ed i democristiani. Ma chi erano questi socialisti? Cosa volevano? Volevano stare con Mosca o con Washington? ma cos’ era questo loro “ riformismo” ? chi era Nenni, questo romagnolo che prima era “ massimalista” eppoi divenne quasi socialdemocratico senza mai lasciare la sua “ casa”? Cosa significava questa rissosa costellazioni di correnti all’ interno del PSI? Perché una, due, tre “ scissioni”  a destra ed a sinistra e poi una “ unificazione”? ma  da dove arrivavano i soldi per il finanziamento dei socialisti?

Intini fa parlare soprattutto l’ “ Avanti!” questo giornale  nato nel giorno di Natale del 1896 , come un “ Gesù laico”  per  istruire ed informare la classe operaia, per formare una classe dirigente, per realizzare una democrazia politica autentica. I successi dell’ “ Avanti!” sono il successo del riformismo così come le sue sconfitte.

Bisogna leggere e studiare questo” librone” che è stato presentato venerdì 17 maggio 2013 nel corso di  una piccola riunione svoltasi all’ Hotel Carlo Magno di Forio per iniziativa dell’ editore e moderata dal giornalista Raffaele Indolfi che fu corrispondente dell’ Avanti! Da Napoli negli anni ‘ 70 e ‘ 80 prima di diventare redattore de “ Il Mattino”. Vi hanno preso parte oltre a Ugo Intini, l’ ex senatore socialista Luigi Covatta, che oggi tiene in vita  come direttore “ Mondo Operaio” il mensile di riflessione dei socialisti per  mezzo secolo, e l’ ex deputato comunista Berardo Impegno mentre Vito Iacono ha tenuto l’ introduzione. C’erano poche persone. Qualche giovane candidato nella lista civica “ Il Volo” al Comune di Forio ed alcuni vecchi socialisti come chi scrive questa nota, l’ ex eurodeputato Franco Iacono, l’ ex consigliere regionale Antonio Simeone e qualche altro. Ma non è stata una riunione di “ amarcord” o di “ combattenti e reduci” come ce ne sono state molte in questi ultimi vent’anni perché il PSI è morto nel 1992 , proprio nell’ anno del suo centenario, distrutto da quella che si chiamò “ tangentopoli”. L’ incontro meritava un uditorio molto più vasto.

Intini dedica  un intero capitolo al biennio 1992-1993 che intitola “ il crollo” e non nasconde nulla.

Covatta ha sottolineato che “ al tempo della prima Repubblica c’ erano i giornali di partito che contribuivano ad elaborare la linea politica, come l’ “ Avanti!”, mentre oggi ci sono i giornali-partiti che pretendono di essere loro stessi partito”.

Berardo Impegno, 68 anni, professore di filosofia,ha sviluppato un intervento profondo portando la sua esperienza personale. E’ nato socialista.  Giovanissimo  si iscrisse al PSI che lasciò nel 1964  con la scissione di sinistra del PSIUP poi nel 1972 dopo lo scioglimento del PSIUP la sua “ confluenza” nel PCI  fino a diventare deputato e segretario della Federazione di Napoli.

“ Questo libro si legge come un romanzo storico – ha detto Impegno –  ed apre interrogativi forti come: qual è il senso della Politica? Quali insegnamenti si possono trarre dal passato di rotture, scissioni, unificazioni, della sinistra  del PSI e del PCI per proporre oggi una “ nuova sinistra”?

Impegno si è definito un “ socialista eretico” che è “ confluito” nel PCI ma che ritiene oggi necessario costituire un “ socialismo liberale” di cui i socialisti sono stati  gli anticipatori.

Ed infine Impegno ha espresso “ stima ed ammirazione” per Ugo Intini per  il suo “ coerente impegno politico” e per la sua incessante apertura al “ dialogo nella sinistra”.

A questa riunione dopo molti anni, anni di liberismo sfrenato con la distruzione dello “ stato sociale”, della “ spettacolarizzazione della ricchezza”  e della crescente povertà, della distruzione della Politica con la P in maiuscolo, ci siamo chiamati “ compagni” come si chiamavano i socialisti, i comunisti e gli aderenti al piccolo Partito d’ Azione.

E’ una parola di “ conforto e di gioia” ricorda Ugo Intini che fu  inventata da Edmondo De Amicis, quello del libro “ Cuore”, socialista, in un fondo sull’ “ Avanti!” del 1 maggio 1897.

“ All’ “ Avanti!”  e tra i socialisti per un secolo si  respirerà sempre questo  spirito, si avvertirà sempre l’ appartenenza ad una comunità di “ compagni” scrive Intini.

L’ osservazione di Intini è stata così toccante che ho ritenuto di intervenire ricordando quella poesia di  Paul Elaurd dedicata ad un martire della Resistenza francese, Gabriel Péri, dove il poeta dice che “ ci sono parole che fanno vivere e sono parole semplici. Amore, Giustizia, Libertà. Certi nomi di fiori e certi nomi di frutti. La parola coraggio, la parola scoprire, la parola fratello e la parola compagno. Péri è morto per quel che ci fa vivere. E diamogli del tu gli hanno spezzato il petto. Ma grazie a lui ci conosciamo meglio. E diamoci del tu la sua speranza è viva”.

Ecco: a me pare che la lunga storia dell’ “ Avanti”, del Partito Socialista e dei suoi uomini e donne, grandi e piccoli, della sua tragedia finale,   come ogni “ storia vivente” è fatta di Luci ed Ombre ma le Luci sono ampiamente superiori alle Ombre tanto che richiedono di essere riaccese per il Mondo che  ne ha bisogno, per le nuove generazioni che debbono riconquistare la Speranza per una società civile più giusta e più umana che si può realizzare solo con un “ socialismo dal volto umano”.

Intini chiude il suo libro con la rilevazione dolorosa che l’ “ Avanti!” chiude nel 1993  senza un saluto di commiato” come un vecchio che muore di inedia dopo aver molto vissuto. Dopo una storia che, credo, valeva la pena di raccontare”.

 

 

 

Ripensando il Partito Democratico

 

di Giuseppina Bonaviri
La scorsa primavera, dopo anni di militanza civile e politica con alle spalle la costituente del Pd che avevamo fortemente voluto e che ci aveva visti in prima linea con il gruppo di donne e giovani IE, una soddisfacente candidatura alle regionali nel 2010 decisi di candidarmi alle amministrative del capoluogo ciociaro in qualità di Sindaco Indipendente con due liste civiche pure.
Volevamo lanciare un segnale forte al partito, meglio ai partiti. Il mio stato d’animo era chiarissimo: bisognava remare e con fatica contro lo status quo regnante, contro la deriva politica di un centro sinistra in autodissoluzione, criptico, garante solo in conservatorismo e rendite di posizione.
Impossibilitati a riconoscersi in spazi di malcostume, al contrario, certamente protesi all’interno di un pensiero unitario, predominate a tutela di eguaglianza e dello stato di diritto leso che negli anni era stato capace di arricchire la storia della sinistra che, nonostante minoranza, aveva comunque saputo condizionare le classi dominanti -divenendo una casa comune, sede di confronto democratico e leale, vibrante – mai avremmo potuto negare le proposte della base e degli elettori.
Chiedevamo, con i tanti compagni di viaggio che mi hanno incoraggiato e sostenuto, percorsi di riflessione aperti e criteri chiari per rilanciare una politica visionaria, alternativa e vincente: quella che aveva caratterizzato la storia migliore del popolo italiano. Ci domandavamo come rivitalizzare una sinistra che stava morendo, che perdeva la bussola, che avvizziva.
Non potevamo credere che lo sforzo che sei anni prima, per la nascita del Pd, ci aveva visti uniti, forti e sicuri andasse perso. Come tornare, allora, a diversificare un progetto e un consenso alternativo al malgoverno e al caos regnante in Ciociaria e tipico di tutta la Nazione, come ripensare un Pd e una sinistra protagonista che avrebbe potuto permettersi il superamento della Seconda Repubblica e che invece la teneva e la tiene congelata?
Per molte settimane ci siamo domandati come e dove era stato commesso l’errore della classe politica italiana che, oggi più dello scorso anno, si trovava nella incapacità di influenzare la vita nazionale, la politica locale, gli assetti sociali e culturali di intere fasce di popolazione. Le risposte era tante come i dubbi che ci assalivano. Non potevamo accettare la subalternità all’involuzione democratica determinata ed imposta coscientemente da costoro, non si poteva ammettere che un partito pensato per chiudere la transizione italiana stava invece fallendo. Non si poteva permettere che le debolezze delle classi meno agiate- che la sinistra avrebbe dovuto rappresentare- continuassero a subire insulti per diventare merce di scambio.
Andava, come va riaffermato il primato dei beni comuni.
La degenerazione nello “scambio” locale diveniva rigetto di quelli spazi di partecipazione democratica che non ci potevamo permettere di ridurre solamente a macchina di consenso per i notabili territoriali come anche le primarie andavano e vanno ripensate fuori “dall’autoconservazione della specie” di leader mediatici che continuano ad autorizzare la nascita di micro gruppi di clientele poste sotto un simbolo ed una idea che fu, un tempo non lontano, attrattiva ed imponente.
Adesso rimane il residuo di una politica debole e non convincente verso un elettorato che manifesta la sua insoddisfazione, all’interno del Pd col 40% dei voti ai nuovi rottamatori all’esterno col 25% al M5s, con tre quarti dell’elettorato esterno al Pd e che così ne riesce a detenere solo un quarto. Un Pd che continua a tenere fuori dal dibattito persino grandi personalità perdendo consensi, inoltre, proprio dal ceto meno agiato.
La mia candidatura da intellettuale indipendente a Frosinone non è stata indolore. Ha testimoniato, anticipatoriamente, le pene che si pagano causa la frammentazione e la inedita incapacità di riconoscimento delle differenze identitarie, della compattezza fuori dai conflitti locali.
Chiedevamo e chiediamo partiti ed amministratori non oscurati nelle pieghe della spesa pubblica, non incapaci di parlare ai tormenti della società e nella impossibilità di stimolare una diversa governabilità.
Chiedevamo -ed ora più di allora- capacità di innovazione e di pensiero critico avendo sottoscritto, con il nostro coraggioso gesto, un inno alla creatività sociale e civica: ci si rispose e si continua a rispondere con l’autoreferenzialità di un ceto politico sterile e cannibalesco che non mobilita coscienze, confronto pubblico e informato ne tantomeno apertura alle idee e al cuore.
Non mi ritrovavo in questa pantomima. Non potevamo accettare un partito feticcio che invece avevamo desiderato tanto per passioni lontane e visioni distinte, differenti, una sinistra ostile al suo elettorato e troppo prudente, lacerata da lotte interne, caratterizzata nei territori da personaggi senza storia, supini al potere.
Quando un partito auto digerito dal suo cambio di linea etico non si accorge che ha fatto a meno dell’Italia reale, di quell’Italia che unica e sola può rappresentare innovazione e crescita, quel partito non è più riconoscibile e non può rappresentarci.
Questa che raccontiamo è la parabola di una classe dirigente chiusa nella voragine dei propri veti, che ha interamente fallito, che dovrebbe avere il coraggio, ancor prima che si rilanci un progetto serio, di dimettersi tutta a partire proprio dai corpi intermedi e dalle sedi periferiche che ha volutamente dimenticato.
Per vincere lo smarrimento attuale c’è bisogno, allora, di abbattere la sfiducia e riscattare gli elettori rendendo possibile la rinascita di quei percorsi propulsivi che l’ultimo Pd, spento e comatoso, non ha permesso. Un rinnovato cosmopolitismo inizia dal “passare la mano” andando fuori dai personalismi e consociativismi, dallo zoccolo duro di gruppi di potere trasversali, valorizzando il principio di rispetto verso la cittadinanza attiva.
E nonostante tutto, paradossalmente, sarebbe sbagliato ritenere che il problema sia separabile dalla soluzione della crisi del Pd. Va ammesso che il Pd potrebbe rappresentare quel partito di sinistra nella cultura moderna, quella formazione capace di virulentare i luoghi del dibattere, capace di plasmare una società forte, di ascoltare e di interagire con la base solo se tornasse ad avere il coraggio di rischiare con la certezza di rimanere la solida architrave del sistema politico italiano in liquefazione.
Si sceglie un partito per dare un contributo all’amor patrio non si sceglie la politica come mestiere. Il futuro della sinistra non può rimanere una ipotesi.
Ricreare la giusta tensione vuol significare muoversi verso qualcosa. Penso ad un partito di sinistra che si lasci fecondare continuamente, che faccia della pulsione e dell’eros la sua carta valoriale, che non abbia timore a desiderare l’altro. Non è più il tempo delle economie finalizzata all’utile. Favoriamo la produzione di coscienze sane quale basi della cosa pubblica, mobilitiamo intelligenze, promuoviamo confronto aperto.
Ritenendo di non dovere essere silenti, caricandoci il peso dell’attuale spaesamento-sgomento, della protesta, della delusione e della rabbia andiamo incontro alla tristezza che ci ha pervaso. Ricostruire un progetto riformista in discontinuità con la mala gestione della cosa pubblica, un progetto politico dove riconoscersi non sia un optional è basilare per contrastare crisi economica e decadimento della democrazia.
La riflessione che ci aspetta sarà più preziosa se capace di coinvolgere tanti, oltre i confini del Pd.

Sud nei primi 100 giorni di Letta

di Francesco Grillo su Il Mattino (18 Maggio)

La distribuzione della popolazione in fasce d’età – che in qualsiasi Paese normale assomiglia ad una botte – nel Mezzogiorno d’Italia si è ormai trasformata in una clessidra: tanti anziani; un buon numero di bambini che scalpitano per andare via non appena diventano adolescenti; e sempre meno giovani, perché se dal Nord Italia a fuggire sono i cervelli, dal Sud sta emigrando un’intera generazione.

Meno giovani e, dunque, meno imprese, ricercatori e professionisti che possano sostenere quel processo di innovazione di cui qualsiasi territorio ha bisogno per uscire dalla trappola del sotto sviluppo. Questo è il tratto più nuovo e marcato che l’antica questione meridionale ha acquisito negli ultimi anni, nonché il problema più grosso che deve essere risolto da chiunque voglia provare a spezzare l’incantesimo di un ritardo che dura da un secolo.

Enrico Letta e Carlo Trigilia sanno, per esperienza, quanto è alta la posta in gioco e sanno che la partita va giocata immediatamente: entro l’estate la Commissione Europea chiede a ciascuna Regione una prima ipotesi di strategia che identifichi i vantaggi competitivi sui quali fare leva per provare a rientrare in quell’economia globale,dalla quale il Mezzogiorno è rimasto tagliato fuori per molto tempo. Queste scelte sonocondizione ineludibile per accedere ai fondi strutturali che sono parte consistente delle poche risorse pubbliche che l’Italia ha a disposizione per ottenere quella crescita che tutti invocano. Si tratta davvero – mentre l’ISTAT segnala che per il settimo trimestre consecutivo il PIL del Paese si è ridotto – dell’ultimo treno e di una priorità che deve entrare immediatamente tra quelle dei primi cento giorni di un Governo che è in carica da circa un mese: un nuovo fallimento significherebbe non solo buttare via le ultime carte che il Sud (e l’Italia) ha ancora in mano, ma anche trasformare in lamentela qualsiasi richiesta italiana di ulteriori investimenti da destinare alla crescita.

Il problema vero è trovare una strategia per rispondere a tre domande urgenti: come faccio ad investire più di 22 miliardi di euro in innovazione in territori desertificati dall’emigrazione di buona parte delle proprie generazioni più giovani? Come posso radicare nel territorio le tecnologie, le competenze che riuscissi ad attrarre evitando l’incubo di nuove cattedrali nel deserto? Come posso governare strategie di sviluppo più sofisticate rispetto al passato, con amministrazioni pubbliche che si sono, finora, dimostrate incapaci di gestire persino la spesa ordinaria?

È evidente che il Sud non ce la può fare da solo. Ma non tanto perché mancano le risorse finanziarie, ma perché, in questo momento, è sprovvisto del capitale umano indispensabile per poter competere. Anzi, di talento ne continua a produrre; ma non riesce a trattenerlo, non lo attrae e se lo attrae – magari dai Paesi del Nord Africa – non riesce neppure a riconoscerlo. Non c’è capitale umano e neppure possiamo aspettare i tempi lunghi della scuola per poterne ricostruire a sufficienza.

E allora che fare? Bisognerà ricominciare a fare scelte: scegliere i settori sui quali concentrare le risorse: la valorizzazione della cultura è candidato naturale per un’area che ha quasi lo stesso numero di siti UNESCO degli interi Stati Uniti; e scegliere i problemi – magari quelli della mobilità o dei rifiuti nelle città – ai quali applicare specifiche tecnologie per trasformare i ritardi in vantaggi rispetto agli altri in termini di qualità della vita. Sarà necessario, poi, aggregare dal resto del mondo attorno alle “specializzazioni intelligenti” che avremo selezionato, i talenti di cui è necessario disporre; costruirei presupposti – servizi, logistica, scuole (e non solo benefici fiscali generici)  – che mettano gli innovatori in grado di continuare a fare il proprio mestiere anche a Salerno o a Bari; e infine sviluppare- dalle imprese e dalle università che avremo portato all’avanguardia – l’indotto sufficiente per poter radicare la conoscenza nel resto del territorio.

Bisognerà puntare tutto sulla conoscenza,la benzina che ha dato ad altri Paesi la possibilità di sfuggire alla condanna della dipendenza dal sussidio; la conoscenza che in Italia e nel Sud, per lungo tempo, è uscita dalle priorità della politica, del discorso pubblico e della programmazione economica. Facendo scelte precise per costruire esempi in grado di diventare modello. Con persone, meccanismi di governo anch’essi profondamente rinnovati sulla base della capacità di portare a casa risultati tangibili, perché è tra i dirigenti ed i consulenti che hanno fallito per anni che bisogna operare la più urgente delle rottamazioni.

Quella del Sud è una sfida che l’Italia è riuscita – unico Paese del mondo – a perdere regolarmente ogni volta. Stavolta, la crisi costringe il governo ad affrontarla per vincere e non con la mentalità di chi si limita a gestire l’ordinario per alleviare le conseguenze di un’altra delle tante sconfitte annunciate e accettate sin dall’inizio.

 

La deriva politica genera mostriciat​toli

di Giuseppina Bonaviri

Decenni di instabilità nella nostra Nazione hanno provocato devastazione psicologica, sentimenti di isolamento e di disperazione di intere fasce di popolazione. Questa condizione sembra, oggi, aggravarsi per l’utilizzo inappropriato che le Istituzioni fanno dello stigma- pregiudizio amplificandone la credenza cosicché il concetto di pericolosità della malattia mentale cresce e si potenzia nell’immaginario collettivo.

Carenti appaiono i servizi sanitari e di consulenza delle comunità quale supporto del nuovo disagio per cui appare ora ancor più complicato progettare e fronteggiare adeguatamente la “privazione sociale”. Sollecitare modelli di intervento sul territorio permetterebbe di ritrovare un livello di dignità e di integrazione di quella condizione che si identifica con i nuovi stili di vita quali la precarietà, stato mentale quest’ultimo, destinato ad apportare indignazione metafora dell’elaborazione di lutto.

Gli alti livelli di aggressività quotidiana sono un simbolo dell’umiliazione patita che denuncia lo stato di privazione di ogni residuo di identità e di autonomia che rimaneva e che, con la perdita di lavoro, di casa, di impossibilità a metter su famiglia non sarà più neanche consentito di evocare. Nel sentimento di disperazione sociale c’è l’ intento suicida. Parallelamente il dolore sociale, acuto e diffuso, crea una sorta di precondizione psicologica paragonabile alla depressione di massa.

Ricordiamo che il 25% delle famiglie è esposto all’indigenza (più del 2% rispetto al dato europeo) mentre il 7% è in condizione di povertà assoluta (le famiglie più a rischio sono quelle che abitano nel mezzogiorno, quelle numerose e quelle composte da una madre sola o da anziani soli).

E il governo che fa? Sostanzialmente rimane muto al problema mentre ogni giorno 615 nuovi poveri avanzano.

Alla fine del 2013 verrà ampiamente superata la soglia di 3,5 milioni certificata ufficialmente dall’Istat per il 2011 pari a oltre il 6% della popolazione e difficilmente si potrà tornare ai livelli del Pil pre-crisi prima del 2019 se non si interverrà nell’immediato per aumentare la capacità di spesa delle famiglie italiane e del ceto medio.

Per tutto il 2013 il PIL continuerà a scendere di un -1,7% (una stima peggiore del 0,9% di quanto prospettato pochi mesi fa) e la domanda interna, ovvero i consumi, diminuiranno di oltre 140 miliardi. Secondo la Confcommercio questo calo continuerà entro l’anno con una ulteriore flessione prevista del -2,4% così come peggiorerà la crisi delle imprese con il rischio che altre 90.000 chiuderanno entro l’anno in corso.

La miseria morale imposta rimane, fatalmente, la piattaforma ideale che condurrà allo sfaldamento di intere generazioni.

L’Italia buona, fatta da terra-paesi-montagne (volatilizzatesi nel millennio attuale nella lotta tra classi di potere, lobby, clan, massonerie) non può rimanere sorda al Progetto Paese Reale che, oscurato ed invisibile, viene avvizzito consapevolmente dalla cattiva politica priva di sani politici.

La latitanza di una seria e affidabile gestione del Paese ha generato, nella retrospettiva mentale della massa informe, mostriciattoli che cresciuti all’ombra dei palazzi non vedono il danno spirituale e sociale inferto.

Sconfiggeremo la lingua del pensiero dominante solo se, in tanti, non ci lasceremo più ingannare.

News da Twitter
News da Facebook