Significativamente Oltre

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Se in democrazia la forma è sostanza

“Intrighi poco democratici: Pd impegnato a mantenere reami e facce immutabili”
di Giuseppina Bonaviri

Ho provato ad immaginare quale sarebbe l’esito dei congressi nei comuni della provincia di Frosinone se venissero confermate le proposte dell’ultima Direzione del Partito Democratico di far votare solo gli iscritti e mi riesce d…ifficile immaginare che, a livello provinciale, non si possa evitare un salto all’indietro rispetto al tentativo di rinnovamento avviato con l’esperimento dei giovani al governo dei territori locali del partito.
Nel nostro territorio ci si è ritrovati, infatti, davanti ad un partito che fa del “picchettaggio” delle nostre terre la sua prima e grande preoccupazione. Non si capisce come possa un congresso in provincia frusinate essere occasione di discontinuità se chi tenta di proporre una linea politica, che parte dai reali problemi, viene considerato un idealista e i tanti segnali di crisi che emergono vengono decodificati come eventi fra loro separati ed indipendenti dalla volontà dei partiti stessi.
Cambiare stile rimane una priorità anche per attrarre l’elettorato antistituzionale e che da tempo non vota. Inoltre si contribuirebbe a sostenere una sana linea innovativa rivitalizzante l’intera galassia della politica ( trait d’union tra progetti europeisti socio politici moderni) ma anche si aiuterebbe a superare la recessione con lo smottamento delle filiere d’interessi, non legittimando più spartizioni nella pubbliche amministrazioni e rendite di posizione del sistema.
Invece nulla si muove in un Pd che continua ad avere la pretesa di essere forza nuova ed organizzatrice, sede del dibattito propulsivo e dell’incontro politico democratico. Purtroppo esso stesso, e nella nostra provincia ancor più, si dimostra subalterno ad una concezione verticale-verticistica della politica aggregando maggiorenti anche dei partiti tutti sempre più in affanno e preoccupati solo di garantirsi assetti e stabilità personale. Personaggi, questi, che non riescono ad essere più credibili per nessuno. Se si considera poi l’impossibilità ad attestarsi su una linea orizzontale di superamento dei soli assi di potere si capisce come l’attuale crisi economica e sociale ci divori. Viene naturale chiedersi quali siano i confini, morali e politici, che distanziano il Pd dagli altri partiti se pur mai ve ne fossero rimasti.
Dire, allora, che siano le primarie il metodo di selezione del gruppo dirigente può essere condizione preliminare allo svecchiamento ma come non comprendere che esse, per quell’aggrovigliamento che attualizza gli assetti interni del partito, rischiano di portare al voto solo gli amici degli amici meglio, gli amici della “cucchiarella” svuotando il progetto dei buoni propositi e contenuti etici? Ci si domanda, così, come i prossimi consensi potranno essere intercettati dal partito, che tutto preso dal mantenere presidi e reami, non pratica quei valori che ne avevano motivato la nascita e che rimanevano prerogativa del rapporto con elettorato smarrito e disaffezionato.
Ne abbiamo avuto prova anche nelle scorse amministrative comunali locali che, a tutela di quei nominati che non trovarono posto nel partito, vennero candidati in fittizie liste civiche con il solo scopo di consentirne la loro elezione (anche a costo di un passaggio da uno schieramento all’altro) con buona pace della coalizione, cosa che ancor più ci fa sentire orfani della cosa pubblica.
Questa modalità rimane la prima causa della crisi identitaria del Pd: la sua disponibilità ad accogliere il trasformismo, mantenendo a galla una classe di politici immutabile ed immobile che ha dimostrato di non saperci rappresentare e di cui l’elettorato ormai conosce tutti i limiti, non può essere più tollerata.
Gli incarichi di sottogoverno che in queste ultime ore sono emersi e da noi precedentemente denunciate a mercimonio dei più recenti rimpasti di giunta non fanno che aumentare il distacco della politica dai cittadini. Ciò ci fa credere che sia vicina la fine di questa epoca, di quella lunga transizione dove partiti personali e mediatici hanno bandito la grande partecipazione di massa. Quella sorta di pensiero debole, che poi è tattica di sopravvivenza di tutte le istituzioni degenerate, non potrà farci sorvolare sulle nobili ragioni di partecipazione, di rappresentanza, forma partiti che rimangono i pilastri del processo sociale del cambiamento che auspichiamo.
E se in democrazia forma e contenuti sono inseparabili, il percorso alternativo che guardi alle concrete ragioni delle comunità, come noi della Rete La Fenice proponiamo, non potrà che essere l’orizzonte verso il quale approderanno le tante donne e i tanti uomini non rassegnati e non sottoposti alla malaffare ma in cerca di un avvenire migliore

L’incredibile Pd

“L’operazione Ceccano del Pd buona sola per riaffermare lo status quo”

di Giuseppina Bonaviri su L’Inchiesta

Non ce la contano giusta i sostenitori del rimpasto di giunta a Ceccano.
Vi sono tre indizi che divengono una prova accertata- come sa chiunque s’interessa d’indagini- che sia andata diversamente da come è stata presentata: il mancato coinvolgimento del circolo del Pd di Ceccano, temendo che non sarebbe passata indenne la decisione del rimpasto dimostra quanto contraddittoria fosse l’operazione rispetto a quello che, invece, si andava affermando in campagna elettorale; l’opulenza di autorità a sostegno dell’operazione (il parlamentare europeo De Angelis e il consigliere regionale Buschini) esibito in una conferenza stampa, per proporre scontate promesse di buona amministrazione; il commento della segretaria del Pd provinciale Battisti che con coraggio ha rubricato questo ed altri comportamenti di esponenti del partito di Frosinone nel novero degli insuccessi di un tentativo di rinnovamento ed apertura all’esterno, non dimenticando l’impegno dei giovani democratici e Occupy Pd.
Un vero peccato perché c’è tanto bisogno, invece, di riavvicinare i cittadini ai partiti. L’unico modo per farlo sarebbe iniziare a restituire quel diritto di scelta, tanto gravemente violato con la legge elettorale del Porcellum e con atti di imperio e di autorità, che sviliscono l’attività dei circoli e dei militanti, privandoli di quel potere decisionale su questioni appartenenti squisitamente al loro entroterra. Ferisce ancor più, poi, che le vittime della dura riaffermazione dello status quo siano i giovani e che il danno avvenga per ferire il sano protagonismo delle nuove generazioni, a cui andrebbe tramandato e trasmesso il senso di appartenenza e di identità culturale politica.
A voler trovare una spiegazione, nella vicenda di Ceccano, si deve pensare ad un atto che pone le basi per un ulteriore presidio del territorio a future battaglie; la natura di questa competizione può essere certo quella elettorale ma anche, come ben sappiamo, la consueta divisione degli incarichi esterni alle giunte, operazione che consente di continuare ad alimentare la catena del consenso più misero: quell’essere “attaccati alla mammella dello Stato” ritenuto, a ragione, da Fabrizio Barca, il male pernicioso della perdita di rappresentatività dei partiti, per inconsistenza di risultati e soddisfazione dei così detti comitati pseudo elettorali.
Quanto questo costume sia deleterio per il nostro paese, non solo per la Ciociaria, è confermato da ripetute indagini, che ci dicono che nella società italiana si è determinata una frattura nell’etica pubblica proprio per il prevalere dell’ideologia dell’autonomia e dell’indipendenza di ciascuno, fino a sostituire, addirittura, il buon senso civico con “l’arte di arrangiarsi” in ogni campo e situazione.
A ragione di questa mutazione che appare illimitata, è chiamata in causa la frustrazione dei cittadini che, per gli impedimenti che incontrano nello svolgimento di attività -causa anche una legislazione troppo ridondante- reagiscono con la ricerca di espedienti che aggirano i vincoli di quella pubblica amministrazione sentita ormai lontana e dell’attuale ed insostenibile onerosità della tassazione. Su questa generica denuncia d’inefficienza fanno leva vecchi e nuovi populismi che, poggiando sullo scarso senso dello Stato, chiedo rivoluzione politica e burocratica. Con il messaggio politico berlusconiano e antipolitico abbiamo avuto il solo esito di giustificare, nell’attesa, comportamenti trasgressivi fino ad essere, per molte parti del territorio nazionale come laziale, collusivi con la malavita.
Si continua a non cogliere, da parte di chi ha responsabilità politiche, quanto sia necessaria -perché l’Italia possa uscire dalla crisi- la riscoperta di un etica pubblica e la conseguente abolizione delle clientele. Ciò sarà possibile solo esponendosi al confronto con i cittadini, nei luoghi dove essi vivono e dove, solitamente, sarebbe coerente intrattenersi nelle questioni della res pubblica.
Certo il lavoro è faticoso ma come credere, altrimenti, che il sistema democratico si possa alimentare? Solo nel momento della competizione elettorale?
Oggi restituire un senso alla politica vuol significare, anche, iniziare a nutrire aspirazioni e disponibilità rispondendo ai bisogni e alle necessità, se pur nella ristrettezza del momento storico. I cittadini chiedono accesso all’ascolto e al dialogo. I partiti, “ case di cristallo”, devono saper cogliere con umiltà e rispondere autenticamente e questo, in particolare, lo deve il Pd alla sua gente per quella sua naturale capacità di potere essere tale.

La linea di Maginot di Letta sui finanziamenti pubblici ai partiti

maginotdi Francesco Grillo

È finalmente uno scatto di orgoglio quello del Presidente del Consiglio Enrico Letta sulla questione del finanziamento pubblico ai partiti. Giusto fissare su questa questione – così come su quella gemella dell’abolizione dell’attuale legge elettorale – la linea Maginot di un qualsiasi Governo che voglia tentare la missione impossibile di far ripartire un Paese in gravissima crisi, non solo economica ma anche morale. È giusto perché il superamento della vergogna dei rimborsi elettorali e quella delle liste bloccate, è una precondizione per ricostruire quel rapporto di fiducia minima tra cittadini e politica, senza il quale qualsiasi progetto di cambiamento soffrirebbe di una carenza di legittimazione che lo condannerebbe all’insuccesso.
Del resto, è proprio sulla frattura che attraversa il PD ed il PDL, tra chi vuole voltare pagina e chi – per ragione di sopravvivenza minima – vuole conservare il sistema esistente, che Letta – ancora di più che sulle sentenze della Cassazione e la quadratura del cerchio sull’IMU e sull’IVA – si gioca i suoi margini di autonomia e il suo futuro. È una battaglia campale e, forse, può valere la pena provare a vincerla, trasformando la provocazione dei centocinquanta emendamenti al disegno di legge, in una opportunità per migliorare ulteriormente le nuove regole.
È una riforma dura quella proposta dal disegno di legge che il Governo pone, adesso, all’attenzione del Parlamento. Una durezza resa inevitabile dalla sordità di Partiti che, per anni, hanno preferito aggiustare, invece che cambiare drasticamente registro. È, tuttavia, la proposta non cancella il finanziamento pubblico e non porta, come dice qualcuno, l’Italia fuori dal contesto delle democrazie occidentali, laddove tutti i Paesi europei prevedono che il costo della politica sia, almeno, in parte a carico dello Stato. Non abolisce questa legge il finanziamento pubblico, anche se sostituisce progressivamente i fantomatici rimborsi elettorali con un costo per lo Stato sotto forma di minori entrate tributariegenerate dalla detrazione parziale delle donazioni ai Partiti e l’eventuale destinazione ad essi del due per mille delle imposte sul reddito.
È una riforma radicale, però, perché avvicina l’Italia agli Stati Uniti e ai Paesi anglosassoni più che alle altre democrazie dell’Europa continentale. La novità vera è che, con questa legge, introduciamo un utile ulteriore livello di democrazia: i cittadini non esprimono più la propria preferenza tra offerte politiche concorrenti solo attraverso il voto ogni cinque anni; ma lo fanno ogni anno usando denaro proprio o decidendo di finanziare la politica con una parte dei denari che sarebbero andati al Fisco. Potendo scegliere sia l’entità del trasferimento (che può essere pari a zero nel caso in cui un contribuente rifiuti in blocco l’offerta politica attuale), sia il Partito che ne beneficia. Si introducono, peraltro, anche le imprese tra i soggetti che possono finanziare e ottenere detrazioni, riconoscendone, di fatto, il ruolo di soggetti politici che sono, quasi, sullo stesso piano degli elettori. La legge prevede, peraltro, che i Partiti si dotino – per potersi qualificare come possibili destinatari dei finanziamenti – di regole finalmente trasparenti che ne assicurino la democrazia interna e che, in maniera altrettanto trasparente, pubblichino l’elenco di tutti i propri finanziatori.
Il sistema italiano potenzialmente passa di colpo dall’essere uno dei più arretrati ed opachi ad uno di quelli piùvicini all’ideale liberale di Partiti che sono, invece, costretti a conquistarsi giorno dopo giorno il consenso dei cittadini.
L’operazione ha, ovviamente, dei rischi.
Il primo e più ovvio è che nessuno decida di aderire al sistema delle donazioni volontarie. Scenario persino peggiore è quello di un sistema nel quale sopravvivono solo le sponsorizzazioni da parte delle imprese e dei soggetti economicamente più forti e la proposta del PDL di garantire l’anonimato ai “benefattori” della politica renderebbe un risultato di questo genere ancora più pericoloso. Entrambe le ipotesi sono, in questo momento di ostilità nei confronti di tutto ciò che ha a che fare con la politica, assolutamente possibili e dimostrano come quanto sia delicato mettere mano ai meccanismi della democrazia.
Un finanziamento – più piccolo di quello attuale – potrebbe, però, anche continuare ad esistere ma in una forma completamente rinnovata: il suo ammontare complessivo dovrebbe essere legato ai voti espressi e non al numero di iscritti alle liste elettorali in maniera da dare un valore (economico) all’astensione ed un incentivo all’offerta politica nel suo complesso a migliorare il suo rapporto con i cittadini risolvendo i problemi; la distribuzione tra i partiti potrebbe avvenire fornendo (come succede in Inghilterra) una preferenza per chi è all’opposizione che, presumibilmente, ha maggiore difficoltà a garantirsi un supporto da parte dei privati. Infine, un’ipotesi potrebbe essere quella di “scambiare” il mantenimento in vita di un finanziamento della vita dei Partiti – comunque ridimensionato e rinnovato nelle sue forme – con una rinuncia – questa sì molto importante – da parte di chi faccia il funzionario di Partito della possibilità di ricoprire una qualsiasi carica in società e aziende controllate da Enti pubblici per un certo numero di anni (come propone Fabrizio Barca per il PD): ciò stroncherebbe un meccanismo di finanziamento della politica ancora più perverso e dannoso per l’economia italiana.
La legge è un’ottima legge e, forse, proprio per il suo livello di ambizione comporta alcuni rischi che potrebbero essere ridotti da una serie di meccanismi di salvaguardia. Anzi, si potrebbe pensare di disegnare sin da adesso dei meccanismi che possano essere introdotti nel caso in cui si verifichino – sulla base di indicatori predefiniti – risultati non voluti.
Tuttavia rimane giusta l’idea che non c’è futuro, non c’è la possibilità di un nuovo patto sociale e di riforme, se non modifichiamo profondamente i meccanismi attraverso i quali i Partiti selezionano la propria classe dirigente, aggregano consenso attorno ai propri progetti e competono.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 24 Luglio

La politica è anche un Gran Torino

di Michele Mezza

Siamo alla pausa estiva. L’Italia è alla vigilia di un rimbalzo che potrebbe essere non marginale, anzi potrebbe richiamare le suggestioni che propongo nel mio libro Avevamo la Luna.
da dove ricavo questo auspicio? da un’infinità di segnali deboli , di cui è costellata l’attualità economica e culturale. Ve ne propongo qui uno solo, l’ultimo in ordine di tempo.

Leggiamo da giorni le notizie da Detroit.
La città simbolo dell’impero americano dell’auto è in sfacelo: si riduce drasticamente la popolazione e decade la struttura urbana e civile. Cade letteralmente a pezzi. In pochi anni gli addetti al ciclo dell’auto sono passati da 180.000 a poco più di 20.000 nell’area metropolitana.Auto e comunità simul stabunt simul cadent.
Nessuna altra risorsa ha frenato il rapido declino.
Torino che per molti versi è sempre stata accostata a Detroit, vive invece una parabola completamente diversa. In pochi anni gli addetti all’industria automobilistica a Mirafiori sono passati da 65 mila e solo 8 mila, eppure la città ha imboccato una strada luminosissima che la sta proponendo come una delle città turistiche più attraenti del paese.

Dall’auto siamo passati al ciclo della telefonia mobile, del software e dell’industria audiovisiva.Nulla decade a Torino. Lo stesso si può dire a Terni a a Sesto S Giovanni, e credo che la stessa Taranto sia alla cigilia di imboccare un itinerario certo rischioso e non indolore ma forse ancora più sorprendente.

Come mai quello che inesorabilmente accade nella vitalissima America, in Italia invece non succede? perchè le comunità territoriali sono centri di autoprogettazione del proprio futuro? Credo che la risposta stia proprio nella tipicità del modello italiano.
Non tanto quello riassunto dal facile slogan piccolo è bello, ma quello che si riassumeva nell’idea che il territorio era una fabbrica di per sè.
Un territorio dove si continua a progettare soluzioni e produzioni sulla base della sempre più pregiata materia prima che sono le relazioni: relazioni umane, isitituzionale, scientifiche culturali. Quel fenomeno che assume i colori del puro folk che sono i festival che ormai in ogni abitato italiano attivano competenze e saperi, ne sono l’emblema:l’immaginazione è la macchina produttiva più potente, come ricorda oggi su Repubblica Maurizio Ferraris. Sopratutto le mille forme di implementazione della rete, con il suo indotto collaborativo, sta sbloccando il sistema italia, liberandolo dai lacci e lacciuoli tipici del rigido modello fordista. Quel miracolo sfiorato di 50 anni fa, con la coincidenza di personaggi come Adriano Olivetti, Buzzati Traverso, Luigi Broglio, Felice Ippolito, aveva alle spalle la straordinaria esperienza nell’uso della potenza di calcolo dei ragazzi di via Panisperna guidati da Enrico Fermi. Ma quell’esperienza divenne uno straordinario artigianaqto creativo.

Come allora anche oggi a guidare il processo di innovazione sono proprio le comunità locali:comuni, regioni, consorzi, fondazioni. nel 53 fu la provincia di Pisa, insieme a Lucca e Livorno ad inventare il progetto di sincrotone che poi si tramutò nella base per il computer Olivetti, dopo che Fermi disse: fate una calcolatrice.

Oggi sono ancora i mille cespugli territoriali a guidare di slancio la ripresa: l’Italia nel suo peggio semestre è stato il paese che ha esportato di più in Giappone +28%. E nei prossimi anni si attende l’esplosione di India, Indonesia e dell’Africa australe.

Oggi alle spalle del pulviscolo di creatività che sta producendo un milione di app digitali, o sta remportando nel nostro paese i laboratorio di sviluppo software, c’è l’attitudine ha trasformare un idea in una cultura, un oggetto in una relazione,l un sistema commerciale in un dialogo.

Ovviamente siamo ancora ai podromi di questo possibile nuovo miracolo, ma qualcosa di importante si sta muovendo. E la politica come al solito segue e si adegua: PD e PDL sono ormai ai rantoli dei precedenti modelli. Berlusconi da una parte e l’ingabbiante cultura del PCI dall’altra si stanno biologicamente esaurendo.Siamo ad un giro di Boa. Società civile e rappresentanza politica stanno mutando insieme.

Non a caso, spiegava Aldo Schiavone, l’Italia è stato l’unico paese europeo ha vedere riorganizzata completamente la sua struttura politica con l’avvento della rete: in 20 anni partiti ed istituzioni sono cambiate radicalmente. A volte in bene, molte volte in male. Ma il paziente reagisce e mostra temperamento. Il Gran Torino ne è un esempio.

La politica estera dell’Unione Europea: quali direzioni?

La politica estera dell’Unione Europea: quali direzioni?Di Luisa Pezone su Italiani Europei

La crisi economica degli ultimi anni ha relegato ai margini le questioni connesse con la proiezione esterna dell’Unione europea. Così, nonostante i nuovi meccanismi offerti dal Trattato di Lisbona, temi che già languivano sono stati quasi del tutto accantonati. Eppure l’Unione europea non può più permettersi di persistere in questo atteggiamento, ma deve finalmente diventare un attore internazionale credibile e affidabile.

 

Il Trattato di Lisbona, firmato nel 2007 sulla scia del fallimento del progetto di Costituzione europea ed entrato in vigore nel 2009, dedica ampio spazio alla politica estera dell’Unione europea. Su 62 emendamenti ai Trattati di Roma e di Maastricht, infatti, ben 25 riguardano le relazioni esterne. Negli anni in cui fu redatto era opinione diffusa e condivisa che i meccanismi previsti dai Trattati fossero complessivamente inadeguati a consentire all’UE di assumere quel ruolo di attore politico e di sicurezza internazionale a lungo auspicato. I fallimenti degli anni Novanta (Bosnia, Ruanda, Kosovo) e le divisioni dei primi anni Duemila (war on terror, Iraq), suffragavano ampiamente tale ipotesi.

Negli ultimi tre anni, tuttavia, la politica estera dell’UE, nonostante i nuovi strumenti istituzionali previsti da Lisbona, come la figura dell’Alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza e il Servizio europeo per l’azione esterna, è rimasta ancorata ai tradizionali limiti. Almeno quattro fattori hanno determinato questo stallo. In primo luogo, le scelte di basso profilo politico operate per ricoprire i ruoli chiave della diplomazia europea, a partire proprio dallo stesso Alto rappresentante. Poi il “dogma intergovernativo”, rimasto saldamente al cuore della Politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC). In terzo luogo, la crisi economica mondiale e le sue drammatiche ripercussioni sulla tenuta interna dell’UE, che hanno costretto ai margini qualunque discorso sull’azione esterna dell’Europa. Infine, le profonde divisioni emerse in occasione della guerra in Libia (e più recentemente nella crisi in Mali) che hanno riproposto le consuete logiche basate su interessi e priorità esclusivamente nazionali.

Oggi, mentre l’UE apre le porte al suo ventottesimo membro, la Croazia, il tema del rilancio della dimensione esterna del progetto europeo sembra tornare lentamente al centro del dibattito accademico e politico. Forza economica e coesione interna dell’Europa, da un lato, e capacità di proiezione esterna, dall’altro, appaiono sempre più come due facce non scindibili della stessa medaglia. Anche perché, come sosteneva il cosiddetto Rapporto González già nel 2010, «la politica estera europea non può essere considerata solo un’opzione facoltativa, un ”esercizio di influenza” messo in atto come componente aggiuntiva delle politiche europee basilari, ma una scelta obbligata proprio per garantire gli obiettivi di prosperità, sviluppo equilibrato e crescita che rappresentano il cuore della missione dell’UE».

Towards a European Global Strategy” è il titolo di un rapporto elaborato congiuntamente, reso pubblico lo scorso maggio, da quattro centri studi europei (per l’Italia l’Istituto Affari Internazionali), su mandato dei ministri degli Esteri di Italia, Polonia, Spagna e Svezia. Secondo la ricerca, l’azione esterna dell’Unione europea deve fondarsi su tre direttrici chiaramente definite: sviluppare quattro partenariati globali – con Stati Uniti, Turchia, Russia e Cina – e puntare alla riforma della governance mondiale; trarre vantaggio dagli aspetti extra-UE delle politiche interne per quanto concerne mercato unico ed energia; reimpostare i rapporti con il “vicinato strategico”.

Lo studio, partendo dall’individuazione di alcuni “interessi vitali europei” basati sui valori espressi nei Trattati, indica undici “obiettivi strategici” prioritari da perseguire nel medio periodo, con un approccio sufficientemente flessibile da tenere conto degli equilibri internazionali in costante mutamento. Alcuni obiettivi del rapporto meritano una particolare attenzione.

A livello globale, Stati Uniti, Turchia, Russia e Cina vengono indicati con chiarezza come i fondamentali partner strategici per l’Unione. Per quanto riguarda gli USA, appare necessario consolidare e rilanciare la tradizionale relazione transatlantica adeguandola ai nuovi equilibri mondiali in transizione verso un assetto multipolare. La New Atlantic Community dovrebbe essere fondata sia sull’area di libero scambio attualmente in fase di negoziazione, sia su un partenariato politico attivo sull’intero spettro dell’agenda globale, anche attraverso nuovi meccanismi di consultazione transatlantici che operino in stretto collegamento con la NATO. La Turchia viene considerata, al di là del complesso cammino dell’adesione, come un interlocutore regionale imprescindibile al quale offrire uno status politico rafforzato fondato su settori di cooperazione quali azioni congiunte nel vicinato strategico, politica di difesa (incluso un accordo di cooperazione tra Ankara e l’Agenzia europea di difesa), liberalizzazione del regime di visti, realizzazione di un’unione doganale rafforzata. Per Russia e Cina, il rapporto elenca una serie di ambiti nei quali sviluppare una collaborazione che, pur tenendo in debita considerazione le differenze esistenti tra l’UE e questi paesi e pur non derogando al criterio democratico e dei diritti umani come fondamento dell’azione esterna europea, consenta di associare Mosca e Pechino come interlocutori naturali nello sforzo di riformare la governance globale.

Sul piano regionale, il rapporto offre una nuova definizione del concetto di vicinato, che comprende non più soltanto gli Stati confinanti con l’Unione, ma anche spazi geopolitici connessi a vitali interessi europei, quali ad esempio Sahel, Corno d’Africa, Medio Oriente, Asia Centrale, Artico, e le rotte marittime adiacenti ad alcune di queste regioni. La politica dell’EU verso questo nuovo “vicinato strategico” dovrebbe abbandonare la logica della trasformazione di questi paesi secondo un modello europeo, considerandoli non più come un ring of friends o una zona cuscinetto, ma piuttosto come potenziali partner con cui stabilire un rapporto profondo e articolato. L’approccio bilaterale dovrebbe inoltre accompagnarsi al sostegno alla cooperazione intraregionale e all’apertura verso il commercio internazionale, con l’obiettivo di lungo periodo di uno sviluppo sociopolitico locale rispettoso dei diritti umani, dello Stato di diritto e dei principi democratici. Verso il vicinato, infine, l’UE dovrebbe assumersi una piena responsabilità della sicurezza regionale, che contempli sia l’impegno politico e diplomatico per la prevenzione e gestione delle crisi, sia gli interventi militari e civile previsti dalla Politica di sicurezza e di difesa comune.

Su tali basi, la politica estera europea potrà forse cominciare a uscire dal torpore degli ultimi anni e acquisire quel carattere propositivo, e non solo reattivo e difensivo, indispensabile per rendere l’UE un attore di sicurezza regionale e globale finalmente credibile e affidabile. Nell’attuale fase di dibattito su un’eventuale revisione della European Security Strategy del 2003 e sul rilancio della politica di difesa europea, di cui tornerà a occuparsi il Consiglio europeo di dicembre, appare indispensabile chiarire come l’Unione europea, ancora scossa dalla sua crisi interna e in vista delle elezioni del Parlamento europeo del 2014, non possa più permettersi di relegare ai margini della sua agenda i problemi e le prospettive della sua azione esterna.

Dal DIRE al FARE innovazione a Bagnoli

di Osvaldo Cammarota – Innovatori Europei Campania

Il 9 marzo scorso, nel dibattito che ha seguito il grave episodio dell’incendio di Città della Scienza, Innovatori Europei ha tenuto un Convegno a Napoli ed ha avanzato la proposta di una “Stanford del Mediterraneo a Bagnoli”.

La proposta ha suscitato un interesse diffuso, persino in sede di Parlamento Europeo, ma si stenta a vedere segnali di attenzione programmatica e progettuale da parte del Comune di Napoli. Sarà distratta (o travolta) dalle continue emergenze quotidiane, ma Napoli non può rinunciare a discutere e fare programmi di più ampia portata per il futuro delle sue comunità e del suo territorio.

Nessuna emergenza può essere risolta con provvedimenti di corto respiro e di scarsa visione. Lo impedisce la crisi della finanza pubblica e, tra l’altro, lo impongono dinamiche globali di sviluppo economico che non consentono più lo spreco delle risorse pubbliche.

E’ questo il senso dell’iniziativa assunta dalla BRI – Banca Risorse Immateriali che, con la Lettera aperta inviata al Sindaco di Napoli Luigi de Magistris, ha offerto la propria collaborazione gratuita per contribuire a delineare una strategia operativa coerente con i principi e i programmi comunitari di coesione e sviluppo nel Mezzogiorno.

La collaborazione offerta, sostanzialmente, consiste in una attività di accompagnamento alla innovazione del sistema pubblico locale che fa fatica a coniugare proficuamente il nesso tra partecipazione e sviluppo

E’, questo, uno dei tanti casi in cui si rappresenta una questione di più ampio significato: la politica, senza competenze, non produce risultati di innovazione; le competenze, senza interlocutori politico-istituzionali rischiano di rimanere risorse sottoutilizzate.

Se lo può permettere l’Italia? E il Mezzogiorno?

 

Lettera aperta al Sindaco di Napoli

15 luglio 2013

La BRI – Banca Risorse Immateriali offre tre mesi di lavoro per Bagnoli e l’Area Flegrea

Dalla stampa cittadina abbiamo appreso con vivo interesse che «Si sta puntando alla definizione di un intervento organico riguardante tutta l’area di Bagnoli, oggetto del tavolo istituito col governo, di fatto superando decenni di mancanza di prospettiva strategica. Questo percorso, inoltre, risponde alla volontà della amministrazione di garantire i livelli occupazionali della società stessa» (Assessori Sodano e Panini – Cormez del 10/7/13)

Una scelta autorevolmente confermata dal Sindaco De Magistris:  “Per il futuro, il sindaco non esclude la possibilità che sia “direttamente il Comune a gestire la fase di rilancio di Bagnoli”. Un rilancio di cui l’amministrazione intende fare partecipe i cittadini, con cui si aprirà un confronto.” (Citynews 11/7/2013)

La programmazione comunitaria per il 2014-2020 e i fondi residui del periodo 2007-2013 offrono effettivamente l’opportunità di superare l’attuale stato di difficoltà.

Per raggiungere obiettivi misurabili e corrispondere alle aspettative, è tuttavia necessario scegliere in modo più circostanziato la strategia operativa che si intende seguire per costruire lo scenario di sviluppo possibile. In particolare:

  • Gli strumenti programmatici e finanziari di riferimento
  • Le procedure di consultazione sociale ed economica che si intendono porre in essere
  • Obiettivi e risultati misurabili, indicando i tempi entro cui devono essere raggiunti
  • Le strutture amministrative responsabili dell’attuazione (governance e government del processo)

Queste scelte competono al Comune di Napoli. Esse vanno adottate con la piena consapevolezza e il coinvolgimento responsabile delle comunità locali, un presupposto delle politiche comunitarie, adatto a creare un clima positivo e di fiducia intorno alla complessa opera di riqualificazione e sviluppo del territorio flegreo della città di Napoli.

Per tali scopi la BRI offre tre mesi di lavoro, considerati il tempo minimo per produrre un contributo di analisi e di proposta con il coinvolgimento attivo del tessuto sociale ed economico del territorio.

E’ un’offerta di collaborazione gratuita al sistema pubblico, unico potere a cui spetta, ed è riconosciuto, il compito di costruire il bene immateriale della coesione per lo sviluppo. La BRI-Banca Risorse Immateriali mette le proprie collaudate competenze professionali al servizio di questa impresa.

“Avevamo la luna”, il bel libro di Michele Mezza

di Massimo Preziuso

Non sono bravo a scrivere di libri, ma quello dell’innovatore Michele Mezza è davvero ben fatto e vale la pena cimentarsi. Anche perché con Michele discutiamo di innovazione dagli albori di Innovatori Europei nel 2006.

In “Avevamo la luna” Michele mette su carta (e su evoluti supporti digitali, che interagiscono direttamente con il volume, attraverso l’uso di smartphone) una enorme mole di originali informazioni “connesse” tra loro nello storico “anno – cronotopo” 1962-64: “tre anni di grandi corse, di spericolate acrobazie, di scoperte e innovazioni. Quaranta mesi vissuti tutti d’un fiato. Con una continua alternanza di improvvise accelerazioni e brusche frenate. Un sogno realistico concluso in una curva senza uscita, come l’elegantissima Lancia Aurelia del film Il Sorpasso, del grande Dino Risi, interpretato da un baldanzoso e un po’ gaglioffo Vittorio Gassman e da un timido ma fremente Jean – Louis Trintignant, prodotto proprio nel 1962, un fotogramma del quale abbiamo scelto per la nostra copertina” dice l’autore.

Un libro che parla di un periodo di potenziale svolta per il Bel Paese, intrecciandone fenomeni politici, nazionali ed internazionali, con le dinamiche delle nascenti industrie del futuro (principalmente elettronica – digitale, spazio ed energia) che mettevano le prime radici proprio nel nostro Paese. Proprio mentre il mondo cattolico viveva un incredibile periodo di innovazione con il Concilio Vaticano II, facendo di Roma il centro del mondo per vari mesi.

Un’Italia nel pieno di un potenziale protagonismo mondiale, fermata – secondo l’attenta analisi del libro, sviluppata anche attraverso numerose interviste con i protagonisti di quei tempi (come Reichlin, De Rita e tanti altri) – dalla assenza di una guida politica forte e consapevole.

 – Una sinistra non capace e non interessata a leggere fenomeni a quel tempo destabilizzanti per la proprio ideologia e visione del mondo, come quelli che ad esempio già “vedeva” un Adriano Olivetti nel presentare al Presidente della Repubblica Gronchi i primi personal computer della storia mondiale – gli Elea – dicendo (siamo nel 1959!) che “L’elettronica….sta avviando l’uomo verso una nuova condizione di liberà e di conquiste”.

– Un partito governo (la DC) nei fatti ostacolato da un “quarto potere” (confindustriale e statunitense), che impedisce ad una leadership illuminata (come era già accaduto con Fanfani, in questo “cronotopo” con Moro) di riformare completamente il Paese, con lo sviluppo dei settori industriali strategici del futuro (soprattutto l’elettronica, ceduta agli americani), riducendone l’impatto – con la stagione del consumismo “all’americana” – alla troppo repentina trasformazione di un popolo, uscito troppo in fretta dalle campagne per entrare prima nelle fabbriche “fordiste” e poi “sentirsi” al centro del mondo come consumatore.

Ed è proprio dall’incrocio dei problemi di una sinistra incapace di leggere il nuovo e di un centro – motore di governo – impossibilitato a portare il Paese verso un futuro roseo dai suoi alleati extra politici ed internazionali, che viene  una esplicita richiesta al Paese alla rinuncia della leadership industriale del privato nei settori che avrebbero poi disegnato il futuro, in cambio di una accettazione di un esperimento innovativo di governo (quello di centro – sinistra).

Mezza conclude dicendo quello che da tempo penso anche io: che oggi il “centro sinistra” di governo ha una nuova (e ultima) opportunità di “leggere” il potenziale di innovazione e sviluppo legato alla rivoluzione digitale – originato proprio a partire quel “cronotopo”, cresciuto poi negli Stati Uniti e poi di nuovo accolto negli ultimi decenni da una Italia naturalmente portata a “lavorare in rete” – e farne driver di sviluppo sostenibile delle proprie comunità (territoriali ed imprenditoriali) puntando sulla naturale convergenza che esiste tra le nuove tecnologie digitali ed energetiche  per lo sviluppo delle città intelligenti.

E’ su questo punto che – come Innovatori Europei, insieme a vari partners – avvieremo da settembre un mini tour con Michele e il suo “Avevamo la Luna”: per arrivare a spunti ulteriori  sul come avviare politiche sistemiche di innovazione, che facciano incontrare i mondi del digitale e delle energie distribuite per creare sviluppo diffuso e sostenibile e maggiore democrazia.

La lezione egiziana: democrazia o egemonia?

di Michele Mezza

La rimozione del presidente egiziano Morsi pone il tema del rapporto fra democrazia e rete da un’angolazione più concreta e pertinente.

Rispetto alle fumisterie con cui gli opinionisti politici sembrano volersi baloccare per confutare l’opzione di democrazia diretta che il popolo della rete propugnerebbe al Cairo è in scena il vero conflitto moderno: consenso vs egemonia.

In sostanza, la rimozione dell’uomo dei Fratelli Mussulmani che dopo aver raccolto un consistente consenso elettorale ha cominciato ha ridurre spazi di libertà e soprattutto a non garantire modalità di sviluppo ed emancipazione economica, rende esplicita la polarizzazione fra le ragioni della modernità e quelle della rappresentanza popolare.

Da una parte , al Cairo come a Istanbul, e su altri versanti anche a Rio De Janeiro, o a Damasco, o alla stesso Pechino e Mosca,i soggetti più avanzati, autonomi e competitivi della società, che coincidono con il ceto imprenditoriale e intellettuale urbano più giovane, si mostrano sempre più irrequieti rispetto agli equilibri di governo sostenuti da maggioranze periferiche e assistite.

Ma pur sempre maggioranze. Il cui collante in alcune aree è il fondamentalismo religioso, in altre la nostalgia ideologica, in altre ancora il nazionalismo o il populismo rancoroso.

Sono queste le identità forti che coagulano consensi di massa. Mentre in minoranza, per quanto rumorosa e rilevante, sono quei ceti che a prima vista a noi ci piacciono di più: giovani, alfabetizzati, emancipati, competitivi, laici, innovativi.

Finalmente siamo usciti dalla banalità delle definizioni per cui era internet che faceva le rivoluzioni.

Internet raccoglie e forma i nuovi profili professionali, dando linguaggi e strumenti operativi, ma la motivazione e identità è data dal bisogno di muoversi e di relazionarsi in rete, per cultura, interesse, o semplicemente per volontà.

Siamo dinanzi ad un disaccoppiamento fra progresso e consenso, o meglio ad una separazione fra ceti urbani che competono e si relazionano globalmente, anche se da lontano – dal centro storico di Londra e New York si è più vicini a piazza Taksim a Istanbul o piazza Tahrir al Cairo di quanto non lo siano le rispettive periferie rurali – in contrapposizione alle aree sociali meno sicure e rampanti, ancora bisognose di protezione dallo stato, e dunque alla ricerca di rappresentanze politiche paternalistiche.

E’ il dilemma che ha conosciuto Obama fra la prima e la seconda elezione, quando ha cambiato maggioranza passando dal consenso della rete a quello del medicare. O, in Francia, dove coincide con la differenza fra una destra populista e statalista e una sinistra bohemien. O in Germania, dove si confrontano una DC statalista, efficiente e assistenziale e una SPD che non è ne assistenziale e popolare,, ne competitiva e rappresentativa dei i nuovi talenti giovanili. O, e veniamo alle dolenti note, in Italia dove il voto dei centri storici piega sempre più a sinistra e quello delle periferie, quando si esprime , sempre più a destra o a surrogati della destra, di cui Berlusconi rimane l’interprete principe.

Siamo dinanzi all’istituzionalizzazione di quella che i sociologi chiamavano la sindrome israeliana, dove da 20 anni la destra poggia su una base popolare, nazionalista, paurosa e minacciosa, e la sinistra su un ceto borghese avanzato , illuminato e globalista. La prima è larga maggioranza numerica, la seconda a volte è egemone culturalmente.

Non a caso in questi giorni dinanzi ai morti egiziani la sinistra tace , per la prima volta, in tutte le sue varianti: PD, renziani, radicali, pacifisti, arabisti, terzomondisti: tutti uniti nel silenzio.

da qui bisogna ripartire, altro che le bubbole sulle regole del congresso: democrazia o egemonia? conquista di consenso vasto e pluralista, con una proposta popolare o arroccarsi in una estetica della competizione, concentrandoci sui ceti trainanti? sono due prospettive eticamente equipollenti. In nessuno dei due casi si prevede di rimanere legati a ceti corporativi, urbani, protetti e minoritari, come sono oggi i lavoratori del ciclo tradizionale.

Quella figura non compare su nessun palcoscenico citato. Proprio perché, come spiega Manuel Castells, i movimenti moderni, che innestano conflitti reali e duraturi, sono basati ed alimentati dalla domanda di autonomia degli individui rispetto alla distribuzione di sapere. La potenza di questa autonomia produce innovazione , mentre il prevalere delle identità produce stabilità. Scegliamo. Adesso e lavoriamoci su.

Finanziamento pubblico e democrazia interna dei partiti: non facciamo ingannare. Frosinone, 10 Luglio

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Rete La Fenice e Fondazione Etica invitano i cittadini al dibattito aperto su

Finanziamento pubblico e democrazia interna dei partiti: non facciamoci ingannare

Mercoledì 10 luglio – ore 17.00

Frosinone – Palazzo dell’Amministrazione Provinciale, in Piazza Gramsci 13

Dopo i saluti di Giuseppe Patrizi, Commissario Straordinario Provincia di Frosinone, interverranno:

Paola Caporossi, Vicepresidentessa Fondazione Etica;

Gregorio Gitti, Deputato Scelta Civica- Responsabile Nazionale Enti Locali;

Gennaro Migliore, Capogruppo Sel alla Camera;

Arturo Parisi, già Ministro della Difesa.

Modererà Giuseppina Bonaviri.

Seguirà ampio dibattito con la massima partecipazione dei cittadini.

Per confermare la propria partecipazione, scrivere a: info@fondazionetica.it.

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