Significativamente Oltre

Eni

Chimica, ultima chiamata per l’Italia: senza “big player” non c’è futuro

di Leonardo Maugeri su la Repubblica – Affari & Finanza del 4 aprile 2016

L’Eni si avvia a vendere Versalis, ovvero quel che rimane della grande chimica italiana, sollevando interrogativi e preoccupazioni. Per molti dovrebbe rinunciare all’operazione e impegnarsi essa stessa nel rilancio della chimica, evitando di cederla a un soggetto finanziario straniero piccolo e senza una storia di grandi operazioni alle spalle; per altri, la vendita a un soggetto apparentemente interessato a occuparsi davvero di chimica è di per sé una buona cosa, indipendentemente dalla nazionalità e dalle dimensioni del soggetto stesso. Per altri ancora l’Eni dovrebbe impegnarsi nella ricerca di acquirenti con le spalle più larghe.

A rendere più teso il confronto c’è poi la storia di speranze e fallimenti, parabole politico-industriali, successi, follie e malversazioni proprie della chimica italiana – ma anche una domanda che aleggia come una Spada di Damocle: è ancora “strategico” per un paese avanzato avere un’industria chimica forte, incentrata su un grande soggetto nazionale e in grado di catalizzare lo sviluppo di tante piccole e medie imprese? Affrontare questi temi richiede di ripercorrere brevemente il passato, per poi guardare alla realtà presente e alle possibilità del futuro.

LA STORIA. Quello che oggi rimane della chimica Eni non è stato il frutto di un disegno industriale perseguito dall’Eni stessa. All’inizio, negli anni ’50, il suo sviluppo scaturì soprattutto dalla insensata competizione tra Enrico

Mattei e l’industria privata che lo avversava – a partire dalla Montecatini, che della chimica italiana rappresentava la vera eccellenza (dalla Montecatini vennero, tra l’altro, alcuni dei fertilizzanti chimici di Giacomo Fauser che rivoluzionarono l’agricoltura, e il Nobel per Giulio Natta per quello che commercialmente sarebbe passato alla storia come Moplen). Purtroppo, la guerra tra Eni, Montecatini, Edison e altre società portò alla moltiplicazione di impianti troppo piccoli, spesso costruiti in aree contigue, già deboli a livello internazionale ma capaci di canniba-lizzarsi l’un l’altro. A fare le prime spese di quella guerra fu la migliore, la Montecatini, risucchiata dalla Edison nell’operazione da cui nacque Montedison (1966). La competizione andò avanti, alimentata oltremodo dalle leggi che incentivarono l’industrializzazione delle aree depresse del Paese – soprattutto al sud e nelle isole: siti industriali che non avevano alcun senso economico e logistico sorsero come funghi, mentre gli operatori rimanevano comunque troppo piccoli. La crisi economica degli anni ’70 mandò tutto in frantumi. Società private che avevano beneficiato di copiosi finanziamenti pubblici – come la Sir di Nino Rovelli o la Liquigas di Raffaele Ursini – andarono a gambe all’aria, insieme a società più piccole. Per ovviare al disastro occupazionale, fu imposto all’Eni – allora ente di stato – di incorporare i siti petrolchimici delle società fallite (mentre i loro proprietari, finiti in guai giudiziari, fuggivano all’estero con un cospicuo bottino). Molti dei siti petrolchimici ancora in capo all’Eni sono l’eredità di quell’imposizione di stato, cui sono legati anche gli oneri di danno ambientale e risanamento che ancora oggi gravano sull’Eni stessa. Tra gli anni ’80 e i primi anni ’90, poi, si ebbero altre operazioni insensate – culminate nella disastrosa fusione tra Eni e Montedison da cui nacque Enimont, la “madre di tutte le tangenti” dell’era Tangentopoli. L’impatto economico di quelle operazioni fu devastante, tanto da rischiare di far deragliare l’intera Eni agli inizi degli anni ’90.

IL MOSTRO. Non si può prescindere da questa storia di lacrime e sangue per valutare il successivo atteggiamento dell’Eni post-Tangentopoli nei confronti della chimica. Per quanto vi fossero dei gioielli che meritavano attenzione, l’impulso immediato di chi aveva attraversato tutte quelle vicende fu di disfarsi dei tanti pezzi senza andar troppo per il sottile – anche perché la chimica rimaneva oggetto di continue interferenze politiche, rappresentando un bacino di voti e di affari sul territorio (cosa che, per esempio, non valeva per gas e petrolio). In breve, la chimica divenne una sorta di “mostro” da confinare in un angolo remoto come un malato da accompagnare a lungo in una lenta eutanasia. Negli stessi anni, d’altra parte, l’Eni cominciò a volare, macinando utili crescenti e perfino impressionanti fino alla prima metà degli anni 2000 – quando il greggio stava a livelli di poco superiori a quelli di oggi: nel 2005, con un prezzo medio del greggio di 54 dollari a barile l’utile netto dell’Eni fu di 8.8 miliardi di dollari – un record ineguagliato rispetto al valore del greggio. Nel frattempo, però, l’ordalia della chimica Eni continuò, con vendite continue di altri pezzi, perdite sanguinose, massicce ondate di tagli dei costi e razionalizzazioni. Parlare di grande chimica italiana in riferimento a quella dell’Eni, pertanto, è fuori luogo. Eppure, sebbene offuscata dai tanti problemi di siti petrolchimici critici (ritornerò su questo tema), essa ha mantenuto la co-leadership mondiale nelle tecnologie per gli elastomeri (gomme sintetiche) e gli stirenici (una delle maggiori categorie di plastiche), ricercatori e manager di eccellente livello, lavoratori tra i più competenti, dediti e appassionati che l’industria italiana conosca. Avendo ben presente la realtà con le sue tante ombre, è da queste luci che bisogna ripartire se si vuole pensare ancora a costruire una chimica italiana grande e di successo.

IL RUOLO DELLA CHIMICA. Al di là dell’information technology, tutti i più grandi cambiamenti nelle economie avanzate riguardano settori (dai nuovi materiali all’energia, dalle biotecnologie all’ambiente, e via dicendo) che hanno in comune l’incrocio tra chimica, fisica e ingegneria – un intreccio che è tipico della grande industria chimica. Da questo intreccio deriva una possibilità infinita di fertilizzazioni incrociate: sovente, studiando molecole per un certo uso, se ne scoprono altre per impieghi che non si erano nemmeno immaginati, e si aprono campi completamente nuovi di applicazione industriale. In teoria, questo è possibile anche per gruppi di ricerca indipendenti o piccole e medie imprese italiane, che nel tempo hanno dimostrato eccellenza nell’innovazione. Il loro problema è come finanziare e sviluppare le fasi successive all’invenzione uscita dal laboratorio.

PICCOLO NON È BELLO. Il primo ostacolo si presenta già al momento di coprire con brevetti internazionali l’invenzione che, per molti, presenta già costi insormontabili. Le difficoltà aumentano esponenzialmente nel momento in cui l’invenzione deve essere testata su un progetto pilota – un piccolo impianto il cui costo può raggiungere qualche decina di milioni di euro. Gran parte delle piccole imprese italiane è costretta a arrendersi. Infine, se il progetto pilota supera l’esame, è necessario passare alla prima applicazione su scala industriale, che può comportare investimenti anche dell’ordine di molte decine o di qualche centinaio di milioni. Questo percorso accidentato può spianarsi quando il “piccolo” può contare su un grande partner industriale, con cui abbia facilità di relazione e sintonia culturale: il primo diventa il volano del secondo, magari tramite un’alleanza in forma di joint venture. Per questo nel mondo anglosassone i grandi gruppi industriali vengono considerati uno dei “pilastri” dello sviluppo tecnologico di un sistema paese, sia che facciano ricerca in proprio o fertilizzino quella di terzi. Questo stesso modello fu sperimentato, con straordinario successo, negli anni gloriosi della Montecatini. Le tante invenzioni rivoluzionarie di Fauser furono sviluppate attraverso una joint venture tra la piccola società creata da Fauser stesso – che aveva pochi mezzi – e la Montecatini, guidata allora dal genio di Guido Donegani, che fornì a Fauser risorse finanziarie e quant’altro necessario per il successo finale. Per tutte queste ragioni, penso che una grande industria chimica italiana potrebbe fornire un contributo importantissimo allo sviluppo economico e industriale futuro del nostro Paese. Ma il percorso non è facile.

L’EUROPA AI MARGINI. La chimica sta vivendo una rivoluzione che lascia l’Europa ai margini. Da un lato, Stati Uniti e Golfo Persico, avvantaggiati dalla disponibilità di materia prima a basso costo, stanno costruendo impianti di grande scala che aumenteranno l’offerta di prodotti nei prossimi anni – col rischio di esportazioni a basso costo che potrebbero abbattersi anche sull’Europa. Lo stesso avviene in Asia, e soprattutto in Cina – in questo caso, per far fronte a una domanda interna che cresce in modo rigoglioso e necessita comunque di importazioni. La speranza dei produttori europei è che l’export americano e mediorientale si indirizzi verso l’Asia senza compromettere la già minor competitività di gran parte della petrolchimica europea – che non dispone di materia prima in loco né di una forte domanda interna. La situazione dell’Italia è ancora peggiore.

I SITI ITALIANI. Molti siti petrolchimici italiani – a partire da quelli dell’Eni – sono piccoli e non integrati con quelli di raffinazione; talvolta la logistica è pessima. Alcuni aspetti assurdi della nostra legislazione, in gran parte derivanti da inaccettabili oneri di sistema, rendono i costi dell’energia (una delle componenti più importanti dei costi di produzione) i più alti d’Europa. Le normative ambientali sono così severe e onerose (per chi intende rispettarle) da rendere impossibile un risanamento di aree inquinate simile a quello realizzato dalla Germania nel bacino della Ruhr – che Berlino vanta sempre come esempio da seguire. Lo stesso apparato normativo italiano rende arduo realizzare investimenti in tempi accettabili anche all’interno di siti industriali già esistenti: troppe autorità (nazionali, regionali, locali) si sovrappongono con poteri di autorizzazione o di veto. Cito sempre un esempio: nell’anno e poco più in cui fui a capo della petrolchimica Eni mi venne presentata una lista di ben 51 (!) autorizzazioni necessarie per sostituire una piccola centrale elettrica (delle dimensioni di due roulotte) in un sito di interesse nazionale; se tutto fosse andato bene, sarebbero occorsi tre anni e mezzo per averla in funzione.

COME RICOSTRUIRE. Per tutte queste ragioni, occorre grande realismo nel pensare al futuro della chimica italiana, evitando improvvisazioni e – soprattutto – pericolosi voli di Icaro. Eppure un futuro di successo è possibile, lavorando su tre pilastri. Il primo, naturalmente, è costituito dalla ricerca e dallo sviluppo tecnologico – che già a breve, ma soprattutto a medio-lungo termine, possono rivitalizzare completamente la chimica. Si tratta però di indirizzare bene la ricerca, di collegarla alle necessità del mondo che cambia rifuggendo dallo slogan sterile per cui la ricerca è sempre utile. Il secondo pilastro, che è parte del primo, è la chimica verde, potenzialmente capace di garantire all’Italia una leadership internazionale, essendo ancora un settore di nicchia con molti concorrenti ma senza protagonisti già definiti. Anche in questo caso, però, attenzione ai facili slogan e a entusiasmi ingiustificati: parliamo di un futuro a medio-lungo termine. E’ bene ricordare, infatti, che occorrono almeno 5 anni per passare da un’idea a una realizzazione industriale. Se tutto va bene, pertanto, una solida transizione verso la chimica verde richiede almeno un decennio, forse più: come tutte le nuove frontiere, infatti, la chimica verde sembra avere a portata di mano cose che non lo sono, e purtroppo vengono spesso sbandierate come possibili già oggi da chi poco comprende di processi chimici o di evoluzione dei mercati. Gettarsi a capofitto in queste vere e proprie trappole significherebbe bruciare risorse per la ricerca e per investimenti che meritino davvero d’essere effettuati.

IL FUTURO. La costruzione del futuro fondata sui due pilastri che ho appena sintetizzato, tuttavia, passa inevitabilmente dal puntellare e mettere in sicurezza un terzo pilastro – che sorregge anche i precedenti. È quello che presenta le maggiori difficoltà, essendo costituito dai siti petrolchimici esistenti, con i loro problemi e le loro opportunità: senza gestirli al meglio, senza fare tutto ciò che è necessario per renderli più competitivi nell’ambito del possibile – magari con sviluppi e riconversioni mirate in modo chirurgico, ove conveniente – tutto il sistema che ho prefigurato imploderebbe, perché le perdite della chimica tradizionale toglierebbero ogni possibilità di sviluppo alla ricerca, alla tecnologia e alla chimica verde. Pensare di ricostruire una chimica italiana di grande valore mondiale partendo da quello che rimane oggi nell’Eni è quindi difficile, ma possibile. Per farlo, però, occorrono conoscenza adeguata delle specificità spesso assai singolari del sistema italiano e visione strategica globale, fede nell’innovazione continua, grande conoscenza di processi e impianti industriali complessi. Occorrono, soprattutto, una passione e un’anima imprenditoriali già declinati in un record comprovato di salvataggi quasi impossibili di realtà industriali che sembravano prossime al capolinea. La porta è strettissima, ma credo (e ho sentore) che ci siano ancora soggetti nazionali in grado di gettarsi in questa missione. Viceversa, tendo a pensare che essa rappresenti una proposizione impossibile per un piccolo fondo semisconosciuto, con pochissime persone e mezzi finanziari, senza una tradizione di grandi e importanti operazioni industriali alle spalle. Qualunque sia la sua nazionalità.

Se si può trivellare e rispettare l’ambiente

maugeri di Leonardo Maugeri su Il Sole 24 Ore

Il decreto Sblocca-Italia sta creando una forte contrapposizione tra Governo, enti locali e larghe fatte della popolazione su un tema delicato, che non si presta a facili semplificazioni: è giusto dare libertà di trivellazione per produrre più petrolio e gas dal sottosuolo italiano ? E soprattutto, i rischi sono compensati da innegabili vantaggi ? Il tema è complicato da posizioni ideologiche e dati manipolati dalle parti che si confrontano al calor bianco, principalmente l’industria petrolifera e i vari movimenti ambientalisti.

Cercare di far ordine, pertanto, rischia di provocare attacchi violenti dall’uno e dall’altro schieramento.   Partiamo dal dire che, comunque si mettano le cose, l’Italia ha una dotazione molto modesta di idrocarburi. Allo stato delle attuali conoscenze, le uniche riserve di una certa consistenza si trovano nell’Alto Adriatico (gas naturale) e Basilicata (petrolio). Per il resto parliamo di piccoli giacimenti che in nessun modo potrebbero contribuire a rendere l’Italia meno dipendente dal petrolio e dal gas importati. Peraltro, dal punto di vista della sicurezza energetica, almeno nel caso del petrolio ha poco senso affannarsi nello sfruttamento di risorse interne poiché il mercato internazionale è aperto e ricco di fornitori e si può tranquillamente coprire il fabbisogno interno con importazioni. Diverso è il caso del gas, dove il mercato è in mano a pochi fornitori – Russia in testa – le cui forniture possono venire a mancare in momenti delicati. In questo caso, meglio sarebbe poter disporre di una riserva strategica del gas europeo, cioè di gas acquistato e stoccato in giacimenti esauriti e pronto per essere utilizzato in caso di emergenza. Si potrebbe obiettare: sì, ma per quanto limitato, lo sfruttamento di risorse interne crea posti di lavoro, investimenti e gettito fiscale. È vero, ma in modo più modesto di quanto sostenuto da alcune parti.

Anzitutto, l’industria del petrolio non è ad alta intensità di lavoro. Si pensi, per esempio, che la Saudi Aramco, il gigante di stato saudita che controlla le intere riserve e produzioni di petrolio e gas dell’Arabia Saudita, impiega circa 50.000 persone (molte delle quali solo per motivi sociali) per gestire una capacità produttiva che, nel petrolio, è oltre sette volte il consumo italiano, mentre nel gas è superiore del 40% al fabbisogno nazionale. Inoltre, le possibili produzioni italiane cui dare mano libera sarebbero vantaggiose (aldilà degli aspetti fiscali) solo se si tengono sotto stretto controllo i costi, e quindi si limita l’assunzione di personale. Infine, gran parte dei siti produttivi si controllano con poche persone, in molti casi da postazioni remote. Anche nel caso di un via libera generalizzato alle trivelle, quindi, è alquanto dubbio che si possano creare i posti di lavoro di cui si è parlato (25.000): forse il numero sarebbe di poche migliaia.

Inchiesta Centro Oli. Modificati i dati delle centraline Eni? Il sospetto degli investigatori della Dda

di Leo Amato (su Il Quotidiano di Basilicata)

Modificati i dati delle centraline Eni?<br /><br /><br /><br />
Il sospetto degli investigatori della DdaL’ad Eni, Paolo Scaroni

POTENZA – E’ possibile che i dati rilevati dalle centraline dell’Eni sui camini del Centro oli siano stati modificati di proposito prima di arrivare negli uffici deputati al controllo delle emissioni?

Stanno cercando di appurare anche questo gli investigatori dell’Antimafia di Potenza che martedì hanno “scoperto” il secondo filone dell’inchiesta sull’inquinamento prodotto dal principale impianto della compagnia del cane a sei zampe in Val d’Agri.

L’acquisizione di tutti i dati contenuti nei server che regolano il funzionamento delle centraline interne servirebbe proprio a questo. Lo stesso vale per quelli archiviati dalla ditta che ha realizzato il software gestionale utilizzato e li convalida prima di avviare le comunicazioni di rito.

Si tratta della Ebc di Potenza, un’impresa attiva da anni nel settore delle tecnologie ambientali che vanta proprio la capacità «di acquisire dati provenienti da sistemi di monitoraggio ambientale, rilevando con esattezza la quantità di emissioni ed immissioni nell’atmosfera di gas potenzialmente dannosi».

I militari del Noe dei carabinieri sono stati anche nei suoi uffici in via dell’Edilizia e hanno effettuato tutte le operazioni necessarie sotto le direttive impartite dall’ultimo consulente incaricato dai pm Laura Triassi e Francesco Basentini.

Per conoscere i risultati anche di questa attività, e del confronto tra il dato “grezzo” prelevato dai server e quello comunicato in via ufficiale occorrerà diverso tempo. D’altronde si è ancora in attesa di quelli delle analisi sui campioni di reflui di produzione prelevati durante il primo blitz nel Centro oli.

A suggerire agli inquirenti le operazioni da svolgere per verificare i dubbi su un traffico illecito di rifiuti in partenza da Viggiano verso il depuratore di Tecnoparco, a Pisticci, erano stati due nomi che hanno già causato diversi problemi ai vertici della compagnia di San Donato. In particolare all’amministratore delegato Paolo Scaroni, che anche a causa loro, stando a quanto si maligna nella capitale, rischia di perdere il posto nel prossimo giro di nomine del Governo.

Paolo Rabitti e Alfredo Pini, sono infatti gli stessi ingegneri che per conto della procura di Rovigo si erano occupati dell’inquinamento della centrale Enel di Porto Tolle. Proprio l’inchiesta per cui il 31 marzo gli ex amministratori delegati della società, Scaroni e Franco Tatò, sono stati condannati in primo grado a tre anni di reclusione più 5 d’interdizione dai pubblici uffici. L’accusa: disastro ambientale, per aver gestito la centrale senza adeguati meccanismi di contenimento delle emissioni che hanno messo in pericolo la pubblica incolumità.

Possibile che una contestazione del genere venga mossa anche ai vertici di Eni per i gas sprigionati dal Centro oli? Nel decreto di perquisizione esibito martedì mattina dai carabinieri al comando del capitano Luigi Vaglio si parla ancora di traffico di rifiuti, ma è ragionevole credere che nel fascicolo in procura si siano già aggiunte altre ipotesi di reato. Se non è comparso anche qualche altro nome rispetto agli 11 indagati che hanno già ricevuto un avviso di garanzia, tra cui il responsabile della Divisione Sud di Eni Ruggero Gheller e il presidente di Confindustria Basilicata, ai vertici di Tecnoparco Valbasento.

Stando a quanto prescrive l’autorizzazione integrata ambientale all’impianto della compagnia di San Donato,  concessa dalla Regione con una delibera di giunta nei primi mesi del 2011, al suo interno devono essere monitorati in continuo «i volumi di gas diretti alle torce» e «tutte le emissioni di processo ai camini». Quanto agli «eventuali superamenti dei limiti emissivi imposti» spetta ad Eni autodenunciarsi comunicandoli «entro 8 ore dall’evento a Comune di Viggiano, Provincia di Potenza e Arpab».

Inoltre esiste un sistema di monitoraggio ambientale «condiviso con gli Enti di controllo (Arpab e Regione Basilicata)» che è composto da 6 centraline “esterne” per ulteriori verifiche sulla qualità dell’aria: 5 sono dell’Arpab («di cui 4 realizzate da Eni e cedute all’Agenzia»), mentre una è dell’Eni. Questo è quanto hanno riferito i rappresentanti della compagnia alla Commissione ambiente della Camera durante la visita a Viggiano di ottobre.

Un meccanismo che vive di leale collaborazione tra le parti. Per capirsi. Proprio quella che gli inquirenti sospettano che possa essere stata tradita, alterando i dati su cui  controllore e controllato si confrontano ogni giorno. A scapito dell’ambiente circostante.

l.amato@luedi.it

Per rinnovare il Paese, un nuovo management è urgente adesso

aziende pubblichedi Innovatori Europei

Nelle prossime settimane il governo Renzi nominerà i nuovi managers delle grandi aziende controllate dallo Stato.

Come sempre capita in questi casi, non vi è discussione pubblica a riguardo, nonostante l’importanza cruciale di queste scelte per provare a rimettere in campo il Paese – in ginocchio dopo un decennio pieno di crisi – disegnando nuove politiche industriali e nuove alleanze internazionali.

Evidente infatti quanto le grandi aziende italiane (ENI, Enel, Finmeccanica, Telecom e le altre) contribuiscono a definire quello che è il presente e quello che potrebbe essere il futuro del Paese.

In questo passaggio cruciale, il governo ha la possibilità di definirsi “innovatore”, nel rinnovare con nuove personalità e competenze di caratura internazionale i management di queste grandi aziende, per poter ragionare insieme ad essi sulle nuove sfide di natura industriale e politica, emerse nell’ultimo decennio, che possono essere affrontate e vinte dal nostro Paese.

E con un nuovo management dare il senso del cambiamento di prospettiva e di visione ad un intero Paese, con effetti positivi – politici e sociali – a cascata che sono immaginabili.

Per il momento, le attese suscitate dal Governo Renzi sono sicuramente positive e l’idea di cambiare la totalità dei top-manager attuali delle grandi imprese dopo molti anni di governo di quelle imprese e risultati a volte modesti (come documentato per la più grande società italiana, l’Eni, da un ottimo articolo di Milena Gabanelli sul Corriere della Sera) è presupposto fondamentale per continuare incisivamente la sua azione riformatrice.

A leggere la stampa delle ultime settimane, anche il Tesoro, con il competente neo ministro Padoan, sembra volere puntare dritto in questa direzione.

Come qui doverosamente già evidenziato alcuni giorni fa, l’unico elemento di perplessità in questa vicenda riguarda il lavoro di uno dei cacciatori di teste scelti a suo tempo dal precedente Governo proprio per collaborare proprio con il Tesoro alla selezione dei nomi per la guida delle grandi imprese partecipate. Ci riferiamo a Spencer & Stuart, i cui requisiti di indipendenza in questo caso rischiano di essere offuscati in quanto sembra essere consulente proprio delle grandi imprese il cui management dovrebbe contribuire a cambiare. E dalla presenza nel suo advisory board della figura politica di Gianni Letta, che fu evidentemente uno dei protagonisti principali delle nomine degli attuali vertici delle imprese di stato.

Tutte notizie che oggi risultano confermate anche da L’Espresso, con un articolo della sua importante firma Denise Pardo.

Viene allora da chiedersi: possibile che, anche per motivi di opportunità, non potesse essere individuato un altro cacciatore di teste al suo posto?

Verso le europee. Un PD più innovativo possibile. Adesso o mai più

Europee-2014di Massimo Preziuso su L’Unità

Per il Partito Democratico è tempo di spingere nel solco di quel cambiamento innovativo invocato da Matteo Renzi, per ora avviato nella comunicazione e nella forma.

Con il declino netto del Partito Socialista francese alle amministrative di ieri, a due mesi da elezioni europee  “costituenti”, fondamentali per il rilancio del Sud Europa, non si può davvero scherzare.

Soprattutto se si pensa che, dopo anni di tentennamenti, il PD a guida Renzi ha deciso di entrare nella famiglia socialista solo qualche settimana fa, dando vita ad una chiara contraddizione politica: quella del giovane premier rinnovatore, formatosi nella Margherita, che aderisce ad una famiglia politica piena di valori sedimentati nel tempo, in alcuni casi meno innovativi e attuali di qualche anno fa.

Una scelta rischiosa, dunque, come si è poi visto con i risultati di ieri. Che si sommano al precedente annuncio del mancato supporto dei laburisti inglesi al candidato socialista alla presidenza della Commissione Europea Schulz.

E allora per ovviare al rischio di una débâcle alle europee, il Partito Democratico ha una sola via possibile: quella di tradurre le speranze di rinnovamento e riformismo riposti nella carica comunicativa e di leadership di Matteo in cambiamenti concreti da qui a maggio.

Tre sono i livelli su cui operare:

– Riforme. Il PD sostenga Renzi a migliorare e approvare quella elettorale e avvii una sostanziosa spending review che dia forza ai consumi italiani, con un aumento dei salari netti degli italiani tutti (non solo i dipendenti!).

– Alleanze elettorali. La sensazione è che il PD non possa più permettersi le alleanze storiche. Fortunatamente, il “Centro Democratico” è andato ad avventurarsi nell’ALDE italiana. Ma è evidente che anche la alleanza con un “SEL” statico e pieno di contraddizioni non regge più. Essa è in forte contrasto con la visione che gli italiani e gli elettori democratici hanno di questo nuovo PD.

– Persone e competenze. Il Partito di Renzi ha finalmente la forza di aprire la porta ai  Talenti italiani presenti nel mondo, che oggi han voglia di “ricostruire” il Paese, disegnando con il governo nuove politiche industriali competitive. Lo può fare a partire dalle nomine delle aziende quotate di cui si discute in questo periodo.  Può non  farlo, riconfermando il molte volte vetusto management attuale, o imponendo figure politiche senza riguardo al merito, dando in quel caso il via ad una slavina. Evidentemente lo stesso ragionamento è applicabile nella scelta dei candidati alle europee.

In conclusione: il PD diventi più “innovativo” possibile. Faccia sua, con fatti netti e svelti, la voglia di cambiamento politico e progettuale presente nel Paese. Attui le prime soluzioni anticrisi. Altrimenti, rimanendo in una sorta di limbo tra visioni socialiste e rinnovamenti annunciati, i suoi risultati elettorali alle europee saranno sicuramente deludenti. Con effetti sulla stabilità del governo, e del Partito, immaginabili.

 

Perché l’Italia non innova più

di Leonardo Maugeri (su Il Sole 24 Ore)

In questi ultimi mesi mi sto occupando di trovare finanziamenti negli Stati Uniti per alcune start-up molto innovative in settori in cui le loro invenzioni avrebbero un’immediata e dirompente applicabilità – se di successo. La relativa facilità sia del contesto, sia di trovare interlocutori pronti a rischiare il loro denaro, mi ha spinto a un amaro parallelo con quanto avviene in Italia.

Mentre l’America continua a rigenerarsi e a uscire da ogni crisi grazie a moti periodici di innovazione, l’Italia non inventa più da troppi anni. E questa è una causa del suo declino economico.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, il miracolo economico italiano fu sostenuto dalla straordinaria inventiva di un popolo che non aveva grandi capitali: eppure, dalla chimica all’industria dei trasporti, dagli elettrodomestici alla meccanica di precisione, il nostro era un Paese che inventava, brevettava e trasformava in industria il risultato delle sue scoperte. Ricercatori innovativi trovavano capitani d’industria (allora era giusto chiamarli così) culturalmente pronti a sposare l’innovazione, a investirci sopra, a scommettere su nuovi prodotti che avrebbero cambiato il mercato e consentito di generare ricchezza e lavoro. Questo connubio naturale tra ricerca e industria, peraltro, rendeva la prima più concentrata sui bisogni e le aspettative della seconda, evitando così di disperdere risorse su filoni che non avevano prospettive commerciali. Di quel terreno fertile, è rimasto poco o niente. I ricercatori italiani sono di ottimo livello internazionale, nonostante siano pagati malissimo e siano dimenticati da tutti. Anche per questo, il numero dei brevetti italiani si è più che dimezzato rispetto agli anni Sessanta, e i brevetti di oggi spesso rappresentano solo migliorie all’esistente, non innovazioni tali da introdurre discontinuità di mercato. Molte università non hanno nemmeno un ufficio brevetti e – se lo hanno – non hanno alcuna idea di come valorizzare un brevetto. Nella mia esperienza industriale ho avuto esempi deprimenti di questa mancanza, su cui è meglio stendere un velo pietoso. Allo stesso tempo, i capitani d’industria dell’Italia post-bellica hanno lasciato il campo a grigi manager capaci di tarare le loro azioni solo sull’esistente e per un orizzonte temporale non superiore a tre anni, quello che – per il codice civile – esaurisce il loro mandato.
Per tutti loro, la ricerca è fondamentale solo a parole, in termini di comunicazione e immagine. Eppure, senza la capacità di generare nuove attività economiche basate sull’innovazione, le possibilità di crescita di un Paese sono nulle, e l’unica via è quella di competere sul costo del lavoro. Scelta che ci porterebbe verso il terzo mondo. E’ possibile cambiare questo stato di cose? Forse.
Ma occorre agire all’unisono su almeno sette fronti.
Primo: occorre liberare dalle tante vessazioni che li opprimono e dare un ruolo preminente a fondi di investimenti privato, private equity, venture capital etc. disponibili a investire nelle piccole società innovative. Nelle aree più produttive di idee degli Stati Uniti, come la Silicon Valley o Boston, ne esistono a centinaia, spesso migliaia. In Italia, secondo i dati di “Start Up Italia”, esistono solo 1.127 start up innovative, di cui solo 113 finanziate, per un misero totale di poco più di 110 milioni investiti nel 2013. Niente, rispetto agli oltre 10 miliardi di dollari che – nel 2013 – i soli venture capital statunitensi hanno trainato su start-up americane. Nel complesso, esistono (dati Aifi – Associazione Italiana Private Equity e Venture Capital) non più di 13 venture capital (contro i quasi 2.000 degli Stati Uniti o gli 800 della Germania). Ugualmente misero è il numero delle società di private equity. Con questi numeri non si va da nessuna parte. Un’ampia presenza di fondi privati e venture capital, invece, è fondamentale in quanto da noi manca una grande industria le cui articolazioni possano svolgere il ruolo di “pillar companies” – società pilastro, in grado esse stesse di finanziarie e aiutare le start-up nel loro percorso di crescita. Tuttavia, i pochi investitori nell’innovazione sono sottoposti (in quanto raccolgono capitali privati) a un sistema di vigilanza spesso vessatorio, che andrebbe drasticamente ridimensionato.
Secondo: i fondi privati dovrebbero godere di tassazioni agevolate, in particolare sugli investimenti in conto capitale. Per la fase iniziale della loro vita, si potrebbe addirittura pensare a annullare o rendere minimi tutte quegli esborsi (oneri di costituzione e registrazione, etc.) in modo da rendere attraente anche per fondi stranieri l’ingresso nel nostro Paese. Si tenga presente l’investimento in piccole società innovative è a altissimo rischio, in quanto la percentuale di start-up che muoiono prima di arrivare alla commercializzazione di un prodotto supera di gran lunga quella di quante hanno successo. Secondo un recente studio di Harvard, per esempio, solo il 25 percento delle start-up americane ha successo, nel senso che produce innovazioni vere e reddito per chi ci ha investito: ma è proprio quel 25 percento che rappresenta l’onda di continuo rinnovamento dell’economia americana. In un sistema perfetto, nessun problema: il tipico investitore si attende che i profitti realizzati su due delle dieci start-up su cui ha messo soldi eccedano di gran lunga gli investimenti complessivi. Ma in un sistema che deve decollare, come quello italiano, senza forti incentivi (e con le tante vessazioni di cui ho parlato) è difficile pensare che il capitale di rischio si muova agevolmente.
Terzo: bisogna smettere di pensare che tutta la ricerca sia utile, e quindi degna di finanziamento. In assoluto può essere anche vero, ma in pratica – per un Paese che deve ripartire – è un’idea velleitaria e dannosa. Occorre puntare su quei filoni che, in questo decennio, possono avere una grande potenzialità di mercato e in cui le barriere d’ingresso e i vantaggi accumulati dai concorrenti non siano già insormontabili. Queste caratteristiche, per esempio, escludono l’energia nucleare, ma non l’energia solare, le biotecnologie, la remediation ambientale, la chimica verde, il riutilizzo dell’acqua, i nuovi materiali a basso impatto energetico e ambientale, e molto altro ancora.
Quarto: la ricerca deve essere collegata al mercato e confrontarsi con esso. In realtà, questo aspetto è un corollario del precedente. Il ricercatore deve capire di che cosa ha bisogno il mondo che gli sta intorno e cercare di trovare delle risposte. Allo stesso tempo, deve essere in grado di presentare un business plan articolato a potenziali investitori. Pochissimi sono preparati su quest’ultimo aspetto: le università che fanno ricerca dovrebbero introdurre dei corsi specifici sull’argomento.
Quinto: tra università e l’universo di fondi e società che finanziano piccole società innovative deve esistere una sorta di simbiosi. Non a caso, grandi società, venture capital, private equity assediano letteralmente i campus del MIT o di Harvard. Da noi, come ho già osservato, gran parte delle università ha perfino difficoltà a dare valore alla proprietà intellettuale che produce, e non prepara i propri ricercatori a mettersi sul mercato. Tra i parametri di finanziamento della ricerca nelle università italiane, pertanto, dovrebbe entrare un meccanismo che consenta di misurare quel valore. Questo renderebbe più agevole e auspicabile l’erogazione di fondi di ricerca all’università – sia pubblici sia privati – e consentirebbe alle stesse università di creare fondi per finanziare spin-off e start-up da cui trarre royalty con cui finanziare altra ricerca (come fanno le grandi università americane), o per vendere le loro quote nel momento più propizio, anche attraverso periodiche esposizioni aperte agli investitori (vere e proprie mostre) delle ricerche più interessanti in atto, come fanno Harvard e MIT.
Sesto: lo stato dovrebbe limitarsi a finanziare la ricerca di base, una volta individuati i filoni di ricerca che meritano finanziamento. Chi riceve il finanziamento dovrebbe comunque presentare dei piani in cui siano presenti le tappe fondamentali che si vogliono conseguire con la ricerca, i tempi previsti per ciascuna tappa, l’originalità e la potenziale competitività di ciò su cui si lavora. Periodicamente, tutti questi aspetti dovrebbero essere rendicontati per evitare che si continuino a gettare soldi al vento per anni senza alcun controllo. Potrebbe partecipare anche al capitale di rischio dei fondi creati da università o soggetti privati.
Settimo: la proprietà intellettuale va difesa. In Italia lo si fa pochissimo, cosicché la possibilità di “scippi” di idee innovative è sempre in agguato. Il problema investe la scarsa specializzazione di studi legali e di altre organizzazioni professionali specializzate in materia. Visto che il mercato da solo non può dare in brevi tempi una risposta a questo problema, forse sarebbe più utile che lo stato o le regioni creasse questo tipo di organizzazioni sul territorio.

 

Riforma dell’Arpab sì, ma verso una maggiore autonomia

di Prof. Albina Colella (Università della Basilicata)

Si vuole riformare l’ARPAB, ma è necessario riformare anche e soprattutto la Politica Ambientale della Basilicata. Il Governatore lucano Marcello Pittella in un articolo della Nuova del Sud ha dichiarato di voler promuovere la riforma dell’ARPAB, perché diventi organismo affidabile e super partes. Mi auguro che realmente la politica metta l’ARPAB nelle condizioni di divenire tale, concedendogli la necessaria autonomia decisionale, finanziaria e di comunicazione, ovvero che venga garantito che i dati ambientali non siano sottoposti a “filtri” vari prima di essere pubblicati. E’ bene ricordare che il compito istituzionale dell’ARPAB è semplicemente “diagnostico”, ovvero di controllo delle condizioni ambientali del territorio attraverso analisi e monitoraggi, i cui dati sono forniti poi al Dipartimento Ambiente: il resto compete alla politica. Ed è qui che casca l’asino, perché l’ARPAB ha rischiato e rischia di diventare il capro espiatorio di responsabilità che competono invece alla politica. Se la Basilicata oggi si trova ad affrontare tanti disastri ambientali e i conseguenti problemi di salute dei cittadini, è perchè mancano alcuni strumenti di pianificazione territoriale di cui deve farsi carico la politica. In Basilicata manca ad esempio il Piano di Tutela delle Acque, nonostante la presenza di attività petrolifera e i rischi connessi. È grazie all’assenza di un Piano delle aree di Salvaguardia delle acque superficiali e sotterranee destinate al consumo umano che in Val d’Agri le società petrolifere hanno potuto perforare anche nelle aree di ricarica degli acquiferi, o a due passi dagli invasi, aree cioè molto vulnerabili all’inquinamento, aree dove in altre regioni non è permesso. E’ grazie a questa inadempienza che l’oleodotto del pozzo petrolifero Pergola1 rischia di essere realizzato in un territorio non solo ad alto rischio sismico, idraulico e di frana, ma anche nelle aree di ricarica di alcuni preziosi acquiferi della Val d’Agri. In Basilicata manca anche il Piano dei Rifiuti, mancano i Piani di zonizzazione degli Idrocarburi, dei Nitrati, dei Fitofarmaci, degli Interferenti Endocrini, delle Diossine, ecc.. Oggi si pensa ottimisticamente che la bonifica delle falde acquifere della Val Basento possa risolvere l’inquinamento, senza sapere che, oltre ad essere lunga, non è affatto garantito il risultato, sempre che i bandi non siano stati bocciati dal Ministero, come qualcuno sussurra.

In passato sono stata molto critica nei confronti dell’operato dell’ARPAB, al punto da condividere anche delle denunce, ma oggi devo ammettere che negli ultimi tre anni sono stati fatti passi da gigante, considerando la gravità dei problemi ereditati dalla nuova gestione. Ho appreso del ridotto staff tecnico di laboratorio, della necessità di risanare debiti per circa 6 milioni di euro, situazione che ha impedito l’adeguamento dei laboratori, e del mancato introito delle risorse ENI: a quanto pare non sarebbe stata attivata dal Dipartimento Ambiente l’intesa ENI-Regione, che prevedeva oltre alle royalty anche 3 milioni di euro l’anno per i monitoraggi della Val d’Agri a cura dell’ARPAB a partire dal 2004-2005. Con la gestione del Direttore Raffaele Vita il debito è stato sanato, l’entrata dei ricercatori dell’Agrobios ha portato nuova linfa potenziando il settore di ricerca, la diagnostica è aumentata e sono state analizzate per la prima volta le diossine, i laboratori lavorano in qualità, sono state acquistate nuove apparecchiature, come il laboratorio mobile per le diossine, si sono attivati nuovi laboratori e se ne stanno allestendo altri. Sotto state attivate anche collaborazioni scientifiche mediante convenzioni, come quella con l’ARPA Puglia per le diossine, e se ne stanno attivando altre con l’università e altri centri di ricerca, il sito internet dell’ARPAB si è arricchito di dati ambientali di vario tipo, e sono state prontamente recepite le istanze provenienti dal territorio, come ad esempio la misura degli idrocarburi nelle acque e nei sedimenti del Pertusillo, dopo che ne avevamo denunciato la presenza. Si può dunque affermare che il cambiamento sia in atto. E ora si parla di riforma dell’ARPAB. Non è che per caso si ritorna indietro ? Mi auguro che se riforma ci sarà, questa sia volta a promuovere lo sforzo di autonomia e indipendenza dagli organi politici: solo così l’ARPAB sarà credibile.

 

Interview to Prof Leonardo Maugeri, italian talent at Harvard

ENIby Massimo Preziuso on R-Innovamenti

Good morning, Professor. First of all, thanks for this opportunity. You are a clear example of an “exported” italian talent. After a brilliant career in the giant ENI, in 2011, yet in your forties, you decided to change and go back to the academy. Today you teach at the prestigious Harvard University, you are also an Advisor of the U.S. government on energy issues, and author of several books, including a best-selling book I read these days (“With all the energy possible”), and much more.

1) Why this so sudden and radical change?

I prefer that time sediments before answering this question.

2) Italy Vs United States: who wins?

There is no competition. For years, I agree with the judgment of Bill Emmott on Italy, and now unfortunately our country has reached a level of no return. Dominated by a pathological corruption and a ruling class completely inadequate, but self-sustaining with the mechanism of co-optation, no credible growth can be prospected. The country dropped out of research and high-level training, the first engines of development of each nation, and with no more than a handful of large industrial groups, it fails to produce technology or innovation, and on a small scale it is incapable of critical mass.

In the United States, with all the problems that do exist, there is a surprising vitality. Research, innovation, continuous transformation, are still factors supporting the country. Here it is still true that a total stranger, without family or possibility behind, can use all the great strength of his ideas or his talent. In addition, the country still manages to attract – especially thanks to its universities and its research centers – the best talent in the world.

3) How do you feel as an Italian talent in the United States, in these so turbulent years, while our country really needs skilled people like you to survive and “live”?

Mine it is certainly not a unique case. Simply put, those who have talent must find other ways away from Italy, because the talent is not within the selection criteria of our country. Acquaintances, memberships, willingness to accept the rules of a sick system are the only factors that count.

4) How to create real bridges of opportunity between Italy and United States? Which is the possible role for “ambassadors” like you?

If the country does not change radically, it is impossible for anyone to build real bridges of opportunity.
One has to wonder: why an American company should have an interest in investing in Italy, compared to all the other opportunities available in the world? What is our added value? Americans love Italy as a holiday place, not as a place of investment.

5) Competition Vs Equality: how to solve this “trade-off” of world views?

In my view, the coexistence of a competitive society and a society of equality is the main factor that made the West stronger than the rest of the world in the 20th century. A society has a need for equality of departure, because only in this way can bring out the best talent. The wealth generated by a society that feeds of competition, on the other hand, generates wealth and growth that – with fair and wise policies of redistribution – can support the most needs of the part of population which can be left behind and offer means for equality of departure. In poor societies this possibility does not exist.

6) Workers and Producers: what a way to make them work together to renew and rebuild this beautiful country?

There is a common interest: to focus the attention of the legislator in facilitating investment, reducing the bureaucracy that now prevents companies to invest and operate, cutting off the corruption that makes the game artificial, lowering over time taxes on companies. At the same time, the legislator should abandon the sterile question of scaling of workers’ rights. Try to ask why a foreign company does not invest in Italy, where it will close after a few years laying off all the workers ..

7) Energy policies: what a sustainable future? Do you believe to the opportunities, proposed by Monti government, that should come with the establishment of a gas hub in the Mediterranean, centred in Basilicata?

I believe that, for some decades to come, fossil fuels will constitute a large part of the energy needs of humanity, because their energy density has yet to find substitutes. At the same time, I think that the first decades of the century shall constitute the “workshop” that will produce the technologies needed to break down the role of fossil fuels in the future. For this scientific research is essential and, given what is happening in countries like the United States, I expect great technological breakthroughs – especially in solar energy – in the coming years.

As for Italy gas hub, It continues to feed many doubts to me for a number of reasons. First of all, I saw that the Antitrust now highlights a risk that I pointed out for years. For a gas hub (and a spot market) there must be an overabundance of infrastructure, functional to allow a high variability of flows of gas under different market conditions: who pays for this infrastructure (pipelines, pumping stations, storage)? Of course, the consumer pays the bill. May be fine, but the consumer is aware of? I doubt it. Furthermore, in a market characterized by a gas bubble (an excess of supply over demand, which I had already forecast years ago) as the European one, the pipelines in excess could go to a minimum capacity, but the consumer should pay the same the cost of their construction. With such advantages? And for who?

8 ) As Innovatori Europei, along with other environmental organizations, we are studying the theme “Sustainable Taranto” and the opportunity for the next Italian government to facilitate a smooth transition in the industrial production of “electric cars.” What do you think about that?

Look, I conceived and initiated the implementation of one of the most ambitious industrial reconversion of Italy, that of the petrochemical plant of Porto Torres in Sardinia, orienting it to green chemistry. When I did it, I first analyzed the economic prospects of a certain type of green chemistry, to be sure not to create another industrial illusion doomed to fail with time. Only once some of the economics came true, my company at that time called Polymers Europe, today Versalis – the Eni company in the chemistry,  started up the project.

That of electric cars is a good idea, but needs first of all a strict economic analysis. I believe in the future of the electric car, and I also think that this future will come from Asia, not the old world. In Italy, the fundamental problem is that there are not enough distribution networks, and build them would cost billions of euro. To foster the electric car market, it would take specific regulations, even at no cost, but very hard, for example, prohibit the movement of conventional cars with a certain age in the inner cities.

I should study more thoroughly the issue. Perhaps, at the stage where we are, it would be more feasible to offer a big producer – best if asian – special conditions to build plants for hybrid cars, which are starting to have a certain market and are really fantastic. Even many Americans are starting to change. For special conditions I mean radical fiscal conditions (for example, zero taxes in the first 5 years). It would always be less than the direct intervention of the state, and then the taxpayer.

9) Innovatori Europei wants to become a “bridge” for project opportunities and political relations between Italy, Europe and the World. Among others, we are twinned with an innovative political reality operating in North America. Is the idea of ​​putting together the Italian communities in the world around an intellectual and political project interesting for your opinion?

Yes, especially to the extent that he could reconnect many Italians of great value that have left Italy because there were no spaces and have then also experienced a great success. They are a heritage for the future Italy. But this is a project that takes time and a patient and focussed building process. There were already too many initiatives improvised and ephemeral in the recent past.

Thank you.

Thanks.

Intervista al Prof. Leonardo Maugeri, talento da esportazione ad Harvard

ENIdi Massimo Preziuso su R-Innovamenti

Buongiorno Professore. Grazie per l’opportunità, innanzitutto. Lei è un chiaro esempio di talento italiano da esportazione. Dopo una carriera folgorante nel colosso ENI, nel 2011, ancora quarantenne, ha deciso di cambiare e tornare all’accademia. Oggi insegna nella prestigiosa Harvard University, è consigliere del governo americano sui temi energetici, è autore di vari libri, tra cui un best-seller che ho letto in questi giorni (“Con tutta l’energia possibile”), e tanto altro.

1) Perché questo cambiamento così  improvviso e radicale?

Preferisco che il tempo si sedimenti prima di rispondere a questa domanda.

2) Italia Vs Stati Uniti: chi vince?

Non c’è competizione. Da anni, condivido il giudizio di Bill Emmott sull’Italia: purtroppo il nostro Paese è giunto a un livello di non ritorno. Sovrastato da una corruzione patologica e da una classe dirigente del tutto inadeguata, che però si autosostiene con il meccanismo della cooptazione, non ha credibili prospettive di crescita. Ha abbandonato la ricerca e la formazione di alto livello, primi motori di sviluppo di ogni paese, non ha più che un manipolo di grandi gruppi industriali, non riesce a produrre tecnologia né innovazione, se non su piccola scala incapace di fare massa critica.

Negli Stati Uniti, con tutti i problemi che pure esistono, c’è una vitalità sorprendente. Ricerca, innovazione, trasformazione continua, sono ancora i fattori portanti del paese. Qui è ancora vero che un totale sconosciuto, senza famiglia né possibilità alle spalle, può diventare tutto grande alla forza delle sue idee o del suo talento. Inoltre, il paese riesce ancora a attrarre – soprattutto grazie alle sue università e ai suoi centri di ricerca – i migliori talenti del mondo.

3) Come si sente un talento italiano negli Stati Uniti, in questi anni così turbolenti, in cui il nostro Paese ha proprio bisogno di personalità come la Sua per tornare a “vivere”?

Non sono certo un caso unico. Semplicemente, chi ha talento deve cercare altre strade lontane dall’Italia, perché il talento non rientra nei criteri di selezione del nostro Paese. Contano solo frequentazioni, appartenenze, disponibilità a accettare le regole di un sistema malato.

4) Come creare veri ponti di opportunità tra Italia a America? Quale appunto il ruolo possibile per “ambasciatori” come Lei?

Se il Paese non cambia radicalmente, è impossibile per chiunque costruire veri ponti di opportunità.
Bisogna chiedersi: perché una società americana dovrebbe avere interesse a investire in Italia, rispetto a tutte le altre opportunità disponibili nel mondo? Qual è il nostro valore aggiunto? Gli americani adorano l’Italia come posto per le vacanze, non come luogo d’investimento.

5) Competizione Vs Uguaglianza: come risolvere una volta per tutte questo ”trade off” di visioni del mondo?

A mio modo di vedere, la convivenza tra società del merito (competitiva) e società dell’uguaglianza e del bisogno è la sintesi che ha reso l’occidente superiore al resto del mondo, nel 20° secolo. La società del merito ha bisogno di uguaglianza di partenza, perché solo così possono emergere i migliori talenti. La ricchezza generata da una società che si alimenta di merito, d’altra parte, genera la ricchezza e la crescita che – con eque e sagge politiche di redistribuzione – possono sostenere la parte più bisognosa della popolazione, quella che può rimanere indietro e offrire i mezzi per l’uguaglianza di partenza. Nelle società povere questa possibilità non esiste.

6) Lavoratori e Produttori: quale il modo per metterli a lavoro insieme per rinnovare e ricostruire il Belpaese?

C’è un interesse comune: concentrare l’attenzione del legislatore nel facilitare gli investimenti, abbattendo la burocrazia che oggi impedisce alle imprese di investire e operare, stroncando la corruzione che rende il gioco economico artificioso, abbassando nel tempo le tasse sulle imprese stesse. Allo stesso tempo, il legislatore dovrebbe abbandonare la sterile questione del ridimensionamento dei diritti dei lavoratori. Provate a chiedere ad un’impresa straniera perché non investe in Italia, dove potrebbe chiudere dopo qualche anno licenziando tutti i lavoratori..

7) Politiche energetiche: quale il futuro sostenibile? Lei ci crede alla opportunità, proposta dal governo Monti, della costituzione di un hub del gas mediterraneo in Italia, con baricentro in Basilicata?

Io credo che, per alcuni decenni ancora, i combustibili fossili costituiranno gran parte del fabbisogno energetico dell’umanità, perché la loro densità di energia non ha ancora trovato sostituti. Al tempo stesso, credo che i primi decenni del secolo costituiranno “l’officina” che produrrà le tecnologie necessarie ad abbattere il ruolo dei combustibili fossili nel futuro. Per questo la ricerca scientifica è fondamentale e, visto quello che sta accadendo in paesi come gli Stati Uniti, mi aspetto grandi breakthrough tecnologici – soprattutto nell’energia solare – nei prossimi anni.

Quanto all’Italia hub del gas, continuo a nutrire molti dubbi per una serie di ragioni. Anzitutto, ho visto che anche l’Antitrust pone in evidenza un rischio che indico da anni. Per avere un hub del gas (e anche un mercato spot) occorre una sovrabbondanza di infrastrutture, funzionali a consentire una forte variabilità di flussi di gas in ragione delle condizioni di mercato: chi paga queste infrastrutture (gasdotti, stazioni di pompaggio, stoccaggio)? Naturalmente, le paga il consumatore in bolletta. Può andar bene, ma il consumatore ne è cosciente? Ne dubito. Inoltre, in un mercato del gas caratterizzato da una bolla (un eccesso di offerta rispetto alla domanda, che avevo già preconizzati anni fa) come quello europeo, i gasdotti in eccesso potrebbero andare al minimo di capacità, ma il consumatore dovrebbe lo stesso pagare i costi della loro costruzione. Con quali vantaggi? E per chi?

8 ) Come Innovatori Europei, insieme ad altre organizzazioni ambientaliste, stiamo studiando il tema “Taranto sostenibile” e l’ opportunità per il prossimo governo italiano di facilitare una transizione industriale nella produzione delle “auto elettriche”. Che ne pensa a riguardo?

Guardi, io ho concepito e avviato la realizzazione di una dei più importanti piani di riconversione industriale d’Italia, quello del sito petrolchimico di Porto Torres in Sardegna, orientandolo alla chimica verde. Quando lo feci, analizzai per prima cosa le prospettive economiche di un certo tipo di chimica verde, per essere certo di non creare un’altra illusione industriale destinata a fallire con il tempo. Solo una volta certo degli economics lanciai la mia società, al tempo Polimeri Europa, oggi Versalis – la società della chimica dell’Eni – nel progetto.

Quella delle auto elettriche è una bella idea, ma ha bisogno anzitutto di una rigida analisi economica. Io credo nel futuro dell’auto elettrica, e credo che questo futuro arriverà dall’Asia, non dal vecchio mondo. Da noi il problema fondamentale è che non esistono sufficienti reti di distribuzione, e costruirle costerebbe miliardi di euro. Per favorire un mercato dell’auto elettrica, ci vorrebbero delle normative specifiche, magari a costo zero, ma molto dure: per esempio, vietare la circolazione delle auto tradizionali con una certa età nei centri delle città.

Dovrei studiare in modo più approfondito la questione. Forse, nella fase in cui siamo, sarebbe più proponibile offrire a un grande produttore – meglio asiatico – condizioni speciali per costruire a Taranto stabilimenti di auto ibride, che cominciano ad avere un certo mercato e sono davvero fantastiche. Perfino tanti americani cominciano a convertirsi. Per condizioni speciali intendo condizioni fiscali radicali (per esempio, zero tasse nei primi 5 anni). Sarebbe sempre meno che un intervento diretto dello stato, e quindi dei contribuenti.

9) Innovatori Europei vuole sempre più diventare un “ponte” di opportunità progettuali e politiche tra Italia, Europa e Mondo. Tra le altre, siamo gemellati con una innovativa realtà politica operante in Nord America. Ritiene interessante l’idea di unire le comunità italiane nel mondo attorno ad un progetto intellettuale e politico come il nostro?

Si, soprattutto nella misura in cui riuscisse a riconnettere tanti italiani di grande valore che hanno abbandonato l’Italia perché non vi trovavano spazi e hanno poi avuto esperienze di grande successo. Sono un patrimonio possibile dell’Italia di domani. Ma è un progetto che richiede tempo e una costruzione mirata e paziente. Ci sono state già troppe iniziative improvvisate e effimere nel passato anche recente.

Grazie.

A Lei.

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