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L’Europa necessaria

di Massimo Preziuso (in “Synthesis” – Oseco)

europa

Con l’adozione del trattato di Lisbona, arrivata dopo una lunga e complessa fase di incertezza, si può di certo essere un po’ più felici in Europa: il processo di costruzione di una forte Unione Europea ha fatto un importante passo avanti.

Sembra dunque ormai chiaro a tutti che l’esistenza di una Unione Europea forte e coesa è fatto fondamentale, sia per gli stati europei, che per il mondo intero.

Vari fattori richiedono agli stati europei, soprattutto dopo l’attuale crisi economica internazionale, di unirsi sotto un unico cappello, e molti sono riconducibili al tema della competitività e dell’innovazione nel “secolo dei paesi emergenti e della sostenibilità energetico – ambientale”.

In questo nuovo contesto globale, che si va rapidamente delineando, i piccoli stati europei non hanno infatti più alcuna possibilità di gareggiare e rimanere a lungo nel gotha dell’economia mondiale, e questo fondamentalmente per problemi di scala (geografica, demografica ed economica): l’Unione Europea consente loro di diventare grandi ed affrontare con successo tali problemi, pur mantenendo le proprie diversità e specificità culturali, in accordo col principio di sussidiarietà che emerge centrale dal Trattato di Lisbona.

La tematica ambientale rappresenta poi il luogo in cui l’agire insieme, come Unione Europea, permette di sfruttare al massimo il potenziale insito nella variegata tradizione culturale e di innovazione che risiede nel vecchio continente, e nei suoi singoli paesi, che è oggi disperso nelle logiche e dispute nazionaliste, e altresì aiutare ad equilibrare l’annoso problema della sicurezza degli approvvigionamenti energetici che rappresenta, per un continente così povero di combustibili fossili, un serio problema per la propria stabilità economica e politica di medio periodo.

A Copenaghen si è tenuto il 15° vertice delle Nazioni Unite sul clima: nella trattativa per la definizione di un nuovo trattato internazionale ambientale sta emergendo il ruolo da protagonisti di Cina e Stati Uniti che, all’interno di un acceso dibattito sulle rispettive responsabilità passate e presenti, stanno così definendo il nuovo asse del potere mondiale, che vedrà al centro proprio le tematiche energetico – ambientali.

In questo scenario l’Unione Europea, protagonista fino ad oggi nell’attuazione del protocollo di Kyoto, e luogo di elaborazione della più ambiziosa e strutturata politica ambientale al mondo, rischia di perdere la propria leadership, proprio per l’incompletezza del processo di integrazione.

Ma, forte dell’approvazione del Trattato di Lisbona, è proprio da Copenaghen che il progetto europeo può trovare nuovo slancio, definendo un ancora più ambizioso e cadenzato programma di riduzione delle emissioni, anche in assenza di un accordo internazionale vincolante, rimettendosi così al centro delle future politiche ambientali ed economiche del pianeta.

Il continente europeo rappresenta una risorsa unica e fondamentale per gli equilibri dell’intero pianeta, perché sede di una storia unica di democrazia ed innovazione e perché unico possibile garante dello sviluppo armonico e condiviso del pianeta, di una “globalizzazione sostenibile”.

Anche per questo, l’Unione Europea può e deve diventare attore principale della nuova competizione globale, guidando e ri-definendo insieme ai due giganti – Stati Uniti e Cina – la nuova governance del pianeta.

Detto questo, risulta anche evidente che quello europeo rappresenta attualmente il progetto politico più complesso al mondo, e per questo richiede pazienza: al suo completarsi potrebbe infatti nascere l’attore politico più prospero dell’intero pianeta.

Il summit di Copenaghen sul clima: too big to fail

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Il Summit sul clima in corso a Copenaghen non potrà fallire, perche’ è “too big to fail”.

Non si arriverà alla definizione puntuale di un nuovo Trattato internazionale, come è normale che sia, ma credo che la giornata di domani sarà cruciale per lo sviluppo delle prime vere politiche globali, quelle sul clima appunto, che, va detto, rappresenteranno il primo vero “test” sugli effetti della globalizzazione e sulla stabilità delle nuove relazioni economiche e politiche del pianeta, in un mondo totalmente cambiato in un decennio o forse meno.

Detto questo, sull’argomento “clima” l’Italia risulta ancora impreparata.

Spero allora che, a breve, si cominci a prenderlo sul serio, definendo e strutturando competenze nuove nel Paese.

Mi riferisco, in particolare, alla necessità delle nostre piccole e medie aziende, così come delle piccole e medie amministrationi pubbliche, di vedere il “fattore ambientale” per quello che è: la piu’ importante leva di cambiamento ed innovazione per aziende, territori e sistemi-paese.

Spero, poi, a proposito di tariffe incentivanti alla diffusione di tecnologie verdi (Conto Energia et alia), che se ne rivedano i criteri di attribuzione anche in base a parametri di localizzazione e di sviluppo di attività imprenditoriali (e di lavoro), perchè altrimenti si rischia, come già oggi appare evidente, di trasformare una industria “labour intensive” – quella delle rinnovabili – in una industria “puramente finanziaria”, e questo sarebbe il più grave errore possibile.

Spero, infine, che anche i Partiti politici (in particolare il PD ) approfittino di questo “cambiamento di paradigma” per ripensare il modello “leggero” su cui stanno derivando (mi riferisco in particolare al nuovo PD di Bersani – che può e deve essere il Partito dell’ambiente e dell’ innovazione in Italia – che ha appena lanciato, in sostituzione dei classici “dipartimenti”, una serie di “forum tematici” su questi temi, denunciando una certa disattenzione) e trovare un nuovo baricentro di azione proprio attorno al nuovo corso della “sostenibilità”, ambientale e non solo, che sta inesorabilmente prendendo il centro della scena nel dibattito pubblico mondiale.

Ancora 24 ore e sapremo come va a finire – a Copenaghen – ma io sono ottimista, soprattutto per il dopo.

Massimo Preziuso

Da Copenaghen, a Dicembre, una grande spinta verso un futuro Low Carbon

Dope la forte apertura di Obama, appena comunicata dalla stampa (“Taglio alle emissioni di gas inquinanti del 17% dai livelli del 2005 entro il 2020, 30% entro il 2025 e 42% entro il 2030. Sono queste le cifre della proposta americana che il presidente Barack Obama porterà alla Conferenza Onu sul clima di Copenaghen”), perde forza la tesi dei tanti “scettici” che da qualche settimana dichiarano che il COP15 di Copenaghen sarà un fiasco.

Perche’ invece certamente non andrà cosi’, sebbene non ne uscirà un accordo globale vincolante, per il quale ci sarà tempo nel 2010.

La preparazione di questo appuntamento ha infatti permesso una seria ed approfondita riflessione sul tema “cambiamento climatico” al di fuori dell’Unione Europea, e i Paesi in via di sviluppo, la Cina e gli Stati Uniti hanno lavorato seriamente per trovare un compromesso tra le propie esigenze di crescita (aumentate da una crisi che ha segnato le economie mondiali) e sviluppo sostenibile.

L’annuncio di Obama ne è una prima prova chiara, e fa ben sperare che il “dopo Kyoto” comporterà, come previsto da tempo dagli “ottimisti”, la nascita di quell’auspicato Carbon Market globale che andrà lentamente ma certamente a ridisegnare lo sviluppo economico del pianeta e ad alleggerire quelle serie tensioni geopolitiche che arriveranno a breve dal mercato dei combustibili fossili – Petrolio e Gas, risolvendo insieme il problema ambientale e quello della sicurezza degli approvigionamenti energetici.

In questo percorso vi sarà poi la possibilità di cambiare, in meglio, quei modelli di consumo e culturali che hanno imperato negli ultimi 20 anni almeno, e che han fatto dimenticare a molti l’importanza di avere le radici nella cosiddetta economia reale.

In questo contesto rimane pero’ una nota dolente, e viene dall’Italia.

Nel nostro Paese, in questa legislatura, si continua ad osteggiare (e alla fine si resterà da soli in questo) questo cammino virtuoso di cambiamento: a proposito vi consiglio di leggere questo articolo dal titolo “Alla faccia di Copenaghen” che parla di alcuni emendamenti alla Finanziaria 2010 che cercano di azzoppare il mercato delle rinnovabili (proprio in una fase cosi’ delicata).

Massimo

La green economy un alibi per salvare un’idea di sviluppo energivora? I limiti di Copenaghen

di Fabio Travagliati

Un articolo come quello di Riccardo Petrella apparso sull’ultimo Monde Diplomatique testimonia la possibilità di un ambientalismo adeguato alla gravità della crisi ecologica attuale; capace non solo di vederne la disperata urgenza, ma di individuare la pressoché illimitata complessità di problemi che in essa si intrecciano, in un confronto finora squilibrato a favore dei poteri costituiti e delle idee dominanti, cioè degli stessi agenti che della crisi sono responsabili.

In vista della Conferenza sul clima programmata per dicembre a Copenaghen, Petrella innanzitutto analizza e duramente critica l’assurda contesa che, da un Summit all’altro, si riproduce praticamente invariata tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo, con ciascuno che pretende solo dall’altro drastici tagli alle emissioni di Co2.

 Una sceneggiata in cui, scontata l’evidente maggiore responsabilità dei «ricchi», è difficile anche assolvere i «poveri», non solo preoccupati esclusivamente della propria salvezza, ma ormai acquisiti al produttivismo occidentale e, come tutti, lontanissimi dall’auspicare un reale cambiamento del sistema operante: che è la causa prima sia dell’iniquità sociale di cui sono vittime, sia del collasso degli ecosistemi di cui anch’essi sono responsabili.

E in ciò Petrella merita la nostra gratitudine per affrontare il problema con un taglio che – tranne rare eccezioni – anche gli ambientalisti più impegnati ignorano. «I paesi potenti non hanno alcun interesse a modificare le cause strutturali del disastro climatico. Al contrario tutti sembrano ormai convinti, al Nord come al Sud, che la soluzione alla crisi mondiale passi per il rilancio della crescita, dell’economia di mercato, ma di colore verde (automobile verde, energia verde, abitazione verde…).

Nessuno potrebbe contestare l’importanza e l’urgenza di ‘mettere al verde’ le nostre economie. Tuttavia, colorare di verde il sistema economico senza modificarne i principi e le modalità di funzionamento che sono all’origine della crisi, ha poco senso (…).

Abbiamo davvero bisogno di altre centinaia di milioni di automobili e di camion, anche se verdi? Così milioni di abitazioni supplementari a energia passiva e attiva, a New York, Parigi, Francoforte, Osaka, Dubai, Los Angeles… non risolveranno niente per miliardi di persone povere, senz’acqua potabile né servizi sanitari, senza abitazione decente, senza accesso alla sanità e all’istruzione base».

Sono parole su cui dovrebbero riflettere i tanti ambientalisti che credono di poter arrestare il collasso degli ecosistemi affidandosi al «green business», di fatto identificando il problema ambiente soltanto con il mutamento climatico; il quale certo, nell’impazzimento delle stagioni e nel moltiplicarsi di fenomeni meteorologici «estremi», ne costituisce la conseguenza più grave, ma non può essere considerata la sola, col rischio di mancare l’intero obiettivo.

Come appunto dice Petrella, «la vampirizzazione» dell’agenda relativa all’ambiente da parte della questione energetica «costituisce un’evidente mistificazione delle priorità del mondo».

A cominciare dall’acqua, gigantesco problema di cui Petrella è studioso di fama mondiale. L’acqua dolce, necessaria garanzia della nostra salute e insostituibile alimento di ogni forma di vita, oggi va facendosi sempre più scarsa: certo a causa del riscaldamento atmosferico e conseguente scioglimento dei ghiacciai, ma anche (e questo quasi sempre si dimentica) per via del moltiplicarsi delle attività industriali, non soltanto forti consumatrici d’acqua, ma agenti di gravi forme di inquinamento.

Per continuare con la quotidiana produzione di miliardi di tonnellate di rifiuti non trattati e non trattabili, tra cui scorie tossiche e radioattive; con mari e oceani sistematicamente invasi da idrocarburi e immondizie di ogni tipo, sovente secondo criminali operazioni di lucro; con milioni di intossicati e migliaia di morti da pesticidi tra i lavoratori agricoli; con malformazioni e tumori che si moltiplicano specie tra i giovani nei territori a intensa industrializzazione; con tossicità diffusa anche sotto l’innocua apparenza di sostanze e oggetti d’uso quotidiano (plastiche, vernici, colle, conservanti, detersivi, additivi, ecc.).

E’ accettabile tacere tutto ciò e puntare solo sulla «green economy», creando l’ottimistica attesa di un futuro libero da inquinamento e da scarsità energetica, con sicuro rilancio di produzione e consumi?

 «Negoziare il futuro dell’umanità unicamente a partire dall’energia (…) è una grave colpa storica», è il duro, lucido, sacrosanto giudizio di Petrella. Il quale, proprio sulla base di queste verità avanza ben poco ottimistiche previsioni circa la prossima Conferenza di Copenhagen.

E al proposito commenta la recente convocazione da parte del governo danese di un World Business Summit, organizzato «per ottenere il sostegno delle imprese e della finanza». Al termine del quale è stata emessa una dichiarazione «i cui propositi sono tutti centrati sulla priorità da dare alle innovazioni tecnologiche, ai meccanismi di mercato e agli strumenti finanziari favorevoli al mondo dell’impresa privata», mentre è mancato qualsiasi altro impegno.

 «In queste condizioni – conclude Petrella – è difficile pensare che eventuali proposte contrarie agli orientamenti e agli interessi del mondo degli affari abbiano qualche possibilità di essere prese in considerazione». Di fatto i responsabili del nostro futuro «hanno di nuovo imposto le logiche economiche, soprattutto finanziarie, per risolvere il disastro ecologico.

 Una volta di più, insomma i cosiddetti «grandi» non solo sottovalutano la crisi ecologica e ignorano le vergognose iniquità che pure appartengono al mondo loro affidato, ma puntano a legittimare il dominio del capitalismo, il culto della ricchezza individuale, il primato del consumo.

Consumo «sempre energivoro, ma verde», ribadisce Petrella, mentre sembra abbandonare ogni speranza nella prossima Copenhagen.

Come dargli torto? E però, fra circoli culturali, gruppi pacifisti, centri ecologisti, organizzazioni femministe, ecc. si avverte un fermento, certo non chiaramente definito, ma presente e vivo, e – parrebbe – disponibile a un discorso radicale.

Forse il mio è solo un esorcismo, un’illusione scaramantica. Ma insomma, come immaginare che si continui a tollerare indefinitamente la sceneggiata di questi Summit che si susseguono senza senso né conseguenze di qualche utilità?

Voglio dire, una sorta di Seattle ecologista a Copenhagen sarebbe davvero impensabile?

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