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INTERVISTA AD ENRICO LETTA

di Luisa Patruno L’Adige, sabato 4 agosto 2007

“Il partito territoriale è una felice intuizione”

Letta: è complementare e non alternativo al Pd

“Creeremo le condizioni per una forte condivisione ideale”.

Enrico Letta, appena diventato sottosegretario alla presidenza del Consiglio, prese l’impegno di non parlare di politica ma solo dell’attività di governo. E infatti per oltre un anno ha fatto mancare la sua voce nel dibattito politico sul Partito democratico. Ora, che ha deciso di partecipare alla corsa per la segreteria, tutto è cambiato, soprattutto per il suo ufficio stampa sommerso di richieste di interviste, al quale il braccio destro di Prodi non si sottrae più, infilandole tra un impegno di governo e un incontro politico. Ed è con piacere che decide di parlare dell’amico Lorenzo Dellai e della situazione politica trentina, che conosce bene.

Enrico Letta «benedice» il tentativo del governatore Dellai e della Civica Margherita di dare vita a un partito territoriale confederato al Pd nazionale, anche se questo dovesse avvenire con tempi più lunghi, dopo le elezioni del 2008. Non lo considera affatto un’eresia o un tradimento e anzi lo definisce una «felice intuizione, del tutto complementare all’evoluzione politica nazionale».

Il sottosegretario, che in Trentino può contare nella sua sfida a Walter Veltroni e Rosy Bindi alle primarie del 14 ottobre sul sostegno di gran parte della Margherita, parla del suo rapporto con Lorenzo Dellai e spiega che non si può immaginare a livello locale un Partito democratico che non veda presenti sia i Ds che la Civica Margherita.

Onorevole Letta, nell’annunciare la sua candidatura alla guida del Partito democratico ha dichiarato di aver ricevuto dai territori, dal Nord al Sud, una spinta molto forte a mettersi in gioco e, in un’intervista al «Corriere della Sera», ha citato Lorenzo Dellai, definendolo «una delle persone con cui mi trovo più in sintonia». Che cosa vi unisce?

In primo luogo, grande simpatia e stima per Lorenzo. Mi piacciono la sua grande schiettezza, la competenza, il pragmatismo. Qualità queste che, così associate, mi sembrano oggi assai rare. Poi crediamo entrambi nel Partito democratico. Ed entrambi pensiamo che bisogna farlo bene. Senza disperdere le grandi tradizioni culturali e politiche che ciascuno di noi ha alle spalle, a cominciare dal popolarismo. Ma senza neanche trasformarle in elementi di divisione, in correnti vecchio stile. Se il Partito democratico sarà come lo vogliamo, le nostre identità verranno esaltate in una prospettiva più ampia e ambiziosa. Con Lorenzo siamo inoltre in sintonia nell’individuazione di molte delle priorità per il futuro del Paese. A cominciare dalla sostenibilità del nostro sistema di welfare, dalla bassa natalità, dalle politiche per la famiglia.

Quando venne a Levico in occasione della Festa nazionale della Cisl incontrò i vertici della Margherita trentina. E alla Civica piace pensare che la sua candidatura sia partita proprio da qui. Quale esigenza e preoccupazione ha raccolto dai margheritini trentini che hanno deciso, in larga parte, di sostenerla nella competizione contro Veltroni e Bindi?

Attenzione al territorio e principio di autonomia. Sono questi due concetti che stanno particolarmente a cuore alla Margherita trentina e che dovranno far parte integrante del Dna del Partito democratico. Il ruolo delle amministrazioni deve essere centrale in tutti i territori, ma ancor più deve esserlo in quei territori che hanno una grande tradizione di autonomia.

Pensa che il Partito democratico riuscirà a colmare la distanza che si è creata, come si è visto anche alle ultime elezioni amministrative di giugno, tra molti cittadini del Nord e il centrosinistra?
Sì, se il Partito democratico sarà aperto alla società, se sarà pragmatico. Sì, se saremo in grado di fornire risposte concrete per sciogliere alcuni nodi critici che penalizzano il Nord. Penso alla mobilità, alla logistica, ai servizi alle imprese. Io sono molto ottimista. Credo che l’esito delle ultime elezioni amministrative abbia accelerato un percorso di riflessione al riguardo che nel centrosinistra ha preso avvio già all’indomani delle politiche del ’96. Occorre continuare su questa linea, tornare a parlare al Nord, con linguaggio chiaro e proposte credibili.

La Margherita teme l’omologazione al modello nazionale del Pd, soprattutto in vista delle elezioni provinciali che cadono nell’autunno dell’anno prossimo. Dellai ha teorizzato il concetto della “doppia appartenenza”, ovvero partecipa alla fase costituente del Pd nazionale ma, per il livello locale, ha proposto la costituzione dopo il 2008 di un partito con caratteristiche originali, territoriale, diverso dal Partito democratico, sebbene collegato a questo con la forma della confederazione. Le sembra un percorso compatibile con il progetto nazionale?

Assolutamente sì. E c’è una ragione specifica: il Trentino ha raggiunto in questi anni una piena maturità della propria autonomia istituzionale, grazie a politiche di forte sostegno all’innovazione, unite ad un’attenzione particolare alla tradizione democratica di autogoverno e di coesione sociale che lo caratterizza da sempre. Lorenzo Dellai ha compreso che autonomia significa innanzitutto assunzione di responsabilità e lo ha dimostrato anche nella recente vertenza con il governo per l’attuazione del federalismo fiscale. Ecco dunque che mi pare del tutto legittimo ed anzi auspicabile che l’evoluzione politica accompagni questa maturazione istituzionale; è positivo cioè che si stiano costruendo le condizioni per una più marcata autonomia anche propriamente politica del Trentino rispetto al quadro nazionale. Il nuovo soggetto territoriale, a cui pensano gli amici trentini, è quindi espressione di una felice intuizione, del tutto complementare rispetto all’evoluzione politica nazionale e in alcun modo alternativa. Ed è proprio da questa complementarietà che deriva l’idea di un rapporto confederato con il Partito democratico: creeremo una relazione di forte condivisione ideale sul piano delle politiche di rilancio per il nostro Paese, ma saremo attenti e rispettosi della peculiarità del Trentino.

Si può immaginare, secondo lei, a livello locale un Partito democratico a cui partecipano i Ds, ma non la Margherita?

No, e come sarebbe possibile? Il Partito democratico nasce, culturalmente prima ancora che politicamente, dall’incontro dei filoni di pensiero riformista più fecondi della storia del nostro Paese: quello cattolico-popolare e quello socialdemocratico. Non potrebbe nascere un Partito democratico senza la Margherita, quindi. Ma sono convinto che la considerazione che tra pochi mesi nel Trentino vi sarà un’importante consultazione elettorale farà sì che tutti trovino le strade migliori per arrivare a risultati positivi per tutti.

La maggior parte dei diessini trentini si sono schierati pro Veltroni, viceversa quasi tutta la Margherita per la candidatura Letta. Solo Rosy Bindi è riuscita, fino ad ora, a mischiare un po’ le acque. Non ritiene che questa divisione quasi netta non vada nello spirito del Partito democratico? Pensa che si potrà superare il problema?

Non mi sembra, in realtà, che le divisioni siano eclatanti. Se così fosse verrebbero meno lo spirito del Partito democratico e l’essenza stessa delle primarie, che devono essere aperte alla competizione. Certo, è vero: buona parte della dirigenza dei Ds appoggia la candidatura di Walter. Ma non tutta e soprattutto non su tutti i territori. Per quanto riguarda la mia candidatura, ad esempio, posso contare sul sostegno e sulla collaborazione di Umberto Ranieri o di Gianni Pittella – che tra l’altro sarà il coordinatore della mia campagna per le primarie – oltre a numerosi altri esponenti e amministratori locali dei Ds. Voglio però ribadire un concetto: non immiseriamo il dibattito sulle primarie con discorsi sulle passate appartenenze. Quei partiti si sono sciolti. È stato un atto coraggioso, anche traumatico, se vogliamo. Ma assolutamente necessario.

È annunciata la sua presenza a fine agosto in Trentino per “veDrò”, un appuntamento rivolto alla generazione dei trenta-quarantenni. La questione generazionale è entrata a far parte anche del suo manifesto per il Pd. L’edizione di quest’anno di veDrò assumerà dunque una connotazione particolare a un mese e mezzo dal 14 ottobre?
VeDrò è una manifestazione arrivata alla terza edizione. È nata, cioè, quando non c’erano né il Partito democratico né la mia candidatura. Nel corso di questi anni è diventata un’esperienza che coinvolge un numero sempre maggiore di persone. Da sempre è stata caratterizzata da una grande trasversalità e così sarà anche quest’anno. Non c’è, dunque, alcun collegamento diretto con il Partito democratico e con la mia candidatura. Tra gli aderenti a veDrò ci sono persone che condividono le mie idee politiche, altre che militano in partiti diversi, altre (la maggioranza) che non militano in alcun partito e vengono a Drò per confrontarsi con coetanei appartenenti a mondi professionali differenti sui temi dell’Italia di oggi e soprattutto di domani.

PITTELLA PER LETTA SEGRETARIO

Ho deciso di sostenere Enrico Letta nelle elezioni primarie per la leadership del PD del prossimo 14 ottobre.

Il Video di Pittella su You Tube

Il Partito Democratico ora esiste e, per quanto mi riguarda, le identità culturali e politiche che in esso hanno deciso di confluirvi non possono non subire un processo di reale e dinamica contaminazione, senza lasciar spazio a nessun malinteso vecchio spirito di appartenenza. Nessun “richiamo della foresta”, dunque, nessun volgersi all’indietro, nessun “serrate le fila” tra ex qualcosa, in una parola: nessuna ipocrisia tra ciò che predichiamo e le nostre conseguenti azioni politiche quotidiane. Animato da tale spirito affrontai il passaggio della mia personale adesione ai Ds, provenendo dal PSI, e così affronto oggi quest’altra avvincente e complessa tappa della mia politica.

In questi dieci anni ho condiviso un lungo percorso ideale e programmatico con personalità provenienti da storie e culture diverse dalla mia,conducendo con loro tante battaglie politiche senza che mai avvertissi lontananza preconcetta o pregiudiziale tra le rispettive posizioni. Questo è il mio modo di partecipare alla costruzione del nuovo partito, e così continuo a pensarla ma, soprattutto, a viverla.

E con questo approccio, mi ritrovo oggi a sottoscrivere la candidatura di Enrico.

Abbiamo bisogno di un partito nuovo che parli il linguaggio della modernità e della complessità, senza che ciò significhi la fuorviante semplificazione a colpi di slogan e sondaggi. Un partito liberale e riformista, giovane, amico di chi fa e ha voglia di fare. Un partito nemico della cooptazione e dei corporativismi, che si batte per premiare il merito, le capacità, per sostituire le competenze alle relazioni, per valorizzare una nuova cultura civica dei diritti del cittadino che purtroppo non siamo riusciti ancora ad alimentare con il dovuto vigore. Insomma, una forza politica laica e contendibile, nei propri confini e dentro il sistema politico più complessivo, libera dai pregiudizi, che sappia affrontare in maniera credibile e profonda i grandi nodi della realtà che siamo chiamati a vivere e che prima di definire le alleanze, definisca su quali contenuti voglia costruirle. Un grande partito del e per il Mezzogiorno, affinché la questione meridionale – nelle diverse forme in cui oggi essa si presenta – torni al centro del dibattito pubblico e dell’agenda politica nazionale ed europea.

E credo che il nuovo partito non possa non avere un rapporto di solidarietà e intensa condivisione con la grande forza dei socialisti e dei riformisti europei e delle grandi organizzazioni socialiste e democratiche del mondo.

Questo è il perimetro dentro il quale dobbiamo muoverci, nella consapevolezza che avere più candidati ci darà la possibilità di mobilitare un maggior numero di idee, istanze, esigenze di rappresentanza, passioni, culture. Ovviamente tutte complementari tra loro, e non potrebbe che essere così: si tratta di primarie dentro lo stesso campo, il nuovo partito riformista, non di primarie per indicare la guida della coalizione di governo e quindi tra profili e forze politiche, purtroppo, ancora assai diverse tra loro.

Discuteremo con diversi accenti e sensibilità, ci confronteremo forse sulla costruzione di una agenda di priorità, ma saremo oggi e dopo il 14 ottobre tutti dentro la stessa agorà culturale e politica.

In questi quasi dieci anni trascorsi al Parlamento Europeo ho potuto constatare quotidianamente quanto il Partito Democratico esistesse già, nei fatti.

Si sia trattato di difendere la moneta unica o il processo di allargamento, di esprimere giudizi sui dossier più delicati in discussione o sulla politica estera e di cooperazione dell’Unione, di parlare di Trattato Costituzionale o Politica di Coesione, si è sempre riscontrata una quasi totale assonanza tra le due delegazioni nazionali di Ds e Dl.

Per questa ragione, quando qualcuno ha sollevato il tema della collocazione europea della nuova forza quale elemento dirimente a discapito del processo di costruzione del nuovo soggetto, ho sostenuto la posizione esattamente opposta: forse mai come sulla politica europea i due maggiori partiti costituenti hanno dato prova di unità, affinità di vedute e di identità, condivisione delle posizioni.

Sogno la costruzione di un vero partito melting pot tra culture e storie, e trovo sia un grande valore il fatto di aderirvi con questo spirito, e con lo stesso spirito sostenere il candidato leader con il profilo più simile al proprio.

Se riusciremo a farlo tutti, avremo iniziato bene il nostro nuovo percorso comune.

Gianni Pittella

Eurodeputato DS/PSE

ENRICO LETTA SCENDE IN CAMPO?

Martedì si dovrebbe candidare un altro nome importante che arricchisce la competizione per le elezioni di Ottobre.

«Io e i giovani targati anni ’80»

da Corriere.it

Enrico Letta scende in campo per il Pd Il sottosegretario scioglierà la riserva martedì: «Firmo per il referendum, il voto va cambiato»

ROMA — Enrico Letta ha vissuto un mese intenso. Durante la settimana, la trattativa sulle pensioni. Nei weekend, l’ascolto in giro per il Paese. Oggi firmerà il referendum: «Penso sia lo stimolo giusto perché il Parlamento approvi una legge elettorale sul modello tedesco, quello vero, con una soglia di sbarramento non fittizia». Dopodomani annuncerà la sua decisione sulla candidatura alla guida del partito democratico. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio ha davanti a sé le ultime 48 ore di riflessione, ma è evidente che ormai non potrà sottrarsi.

«È stato davvero un mese importante, decisivo — racconta dalla sua Pisa, di ritorno da Torino e Genova e in partenza per l’Abruzzo —. Non ho viaggiato solo nel Nord-Est, in Veneto e nel Trentino di Lorenzo Dellai, una delle persone con cui mi trovo più in sintonia; sono stato anche nel Mezzogiorno, a Bari e a Napoli. E poi in Lombardia, Emilia Romagna, Toscana. Devo dire che dappertutto, sia dagli imprenditori, sia dagli amministratori, e anche dai presidenti della Sardegna Soru, delle Marche Spacca e della Basilicata De Filippo, sia dai giovani è arrivata un’indicazione univoca: la richiesta di primarie vere. Dai miei interlocutori è venuta una spinta molto forte a decidere per il sì. Le primarie sono belle quando non c’è un leader designato, ma tante candidature. Certo: sarebbe faticoso. Si tratterebbe di trovare 2500 candidati in tutta Italia; se ho atteso a lungo, è anche perché ci sono grandi difficoltà organizzative da superare». Ma non è soltanto questo. «L’incertezza, il dubbio, sono una delle categorie umane più importanti e positive. Questo mese mi è servito anche a riflettere sulle attuali difficoltà del centrosinistra e su come dovrà essere il partito che nascerà il 14 ottobre». A chiedergli cosa lo divida da Veltroni, dalla Bindi, da Colombo, Letta risponde in due modi. Evitando la contrapposizione diretta. Ma distinguendosi, con un’idea del partito democratico legata alla propria formazione e anche alla propria generazione.

«Walter, Rosy, Furio hanno fatto benissimo. Sono loro grato. Decidendo di candidarsi hanno deciso di rischiare, e quindi ci hanno dato una lezione perché il rischio è il seme della politica. Sono tre personalità che stimo, pur avendo con loro rapporti e consuetudini diverse. Ma la logica delle primarie impone a chi pensa di aver qualcosa da dire in più, di avere qualcosa di positivo da portare, di farlo con la candidatura». Una lista con il proprio nome in appoggio a un altro può non essere sufficiente: «La via maestra è metterci la propria faccia. Prendiamo le primarie negli Stati Uniti. Se due anni fa i dirigenti del partito democratico americano si fossero riuniti e avessero designato, ad esempio, Hillary Clinton, convincendo gli altri candidati a ritirarsi, le primarie sarebbero state molto meno coinvolgenti di quanto non siano con Obama ed Edwards in campo».

Senza considerare che in Italia esiste una questione specifica, quella generazionale. «C’è una generazione tra i trenta e i quarant’anni che nella politica è poco rappresentata, come denuncia Adinolfi. Certo non mi rivolgo soltanto ai miei coetanei. Ma non mi chiamo fuori: di quella generazione faccio parte; e credo che abbia molto da dare, soprattutto al partito democratico. Perché il Pd è il primo partito postideologico. E noi siamo la prima generazione postideologica. Ci siamo formati negli anni Ottanta; anni bistrattati, che in realtà sono stati straordinari. E non soltanto per la musica, la tv, il cinema, il design. Non è vero che siano stati soltanto gli anni del riflusso; la formazione di chi era ragazzo allora è stata forse più equilibrata di quella della generazione precedente. Questo ci rende per certi aspetti più liberi». Gli esempi che si potrebbero fare sono molti. «Aver cominciato a seguire la vita pubblica dopo la crisi delle ideologie ci ha avvantaggiati. Non essendoci mai illusi, non abbiamo vissuto la fase della disillusione». Da qui un atteggiamento più equilibrato, anche nei confronti dell’America: «Prima di noi è cresciuta una generazione critica, e anche giustamente: erano gli anni del Vietnam. Qualcosa di simile sta accadendo ora con l’America di Bush che scatena la guerra in Iraq. Per noi l’America era il grande avversario dell’Unione sovietica, un Paese che davvero non esercitava su di noi alcuna attrattiva, così come la Cina postmaoista. Abbiamo amato gli Stati Uniti, fin da subito; e questo ci rende liberi, quando occorre, di criticarli». Letta si guarda dall’impostare il suo progetto sulla contrapposizione generazionale, tanto meno di ergersi a portabandiera di trentenni e quarantenni.

L’obiettivo è prendere il meglio di un’esperienza e di una formazione, e portarlo nel Pd. «Vorrei fare in modo che il nuovo partito sia costruito un po’ come l’enciclopedia Wikipedia, un po’ come un quadro di Van Gogh. Come accade con Wikipedia, anche nel Pd ognuno delle centinaia di migliaia di partecipanti deve portare il proprio contributo, le proprie competenze, che in certi campi sono di sicuro maggiori delle mie e di quelle dei leader del centrosinistra. E, come i quadri di Van Gogh, il nuovo partito deve avere tinte forti: un giallo che sia giallo, un blu che sia blu. Non deve porsi per prima la questione della mediazione, che è importante, ma dovrà seguire; il Pd deve innanzitutto dire la sua». Letta dirà la sua già oggi sul referendum. «Firmo». A ricordargli che in molti nel Pd hanno esitato a sostenere il referendum nel timore di destabilizzare il governo, risponde che «l’unico modo per indurre il Parlamento ad approvare una nuova legge elettorale è creare un vincolo esterno. Come accadde all’inizio del decennio scorso, quando il referendum costrinse le Camere a varare la legge Mattarella, di cui solo ora si comprende il valore. Magari la si potesse ripristinare. Purtroppo la legge Calderoli ha creato un sistema, con il Parlamento nominato dai capi partito anziché eletto dal popolo, che va assolutamente smantellato». E siccome la nuova legge avrà bisogno di un vasto consenso, «l’unico modello che può avere una larga maggioranza e nello stesso tempo combattere la frammentazione e difendere la governabilità è il sistema tedesco. Credo anche sia il modello che meglio si adatta alle esigenze del partito democratico». A chiedergli se la nuova leadership del Pd non indebolirà il governo in carica, Letta ha uno scatto: «L’accordo sulle pensioni dimostra che il governo Prodi c’è, eccome».

Letta ne è molto soddisfatto, anche pensando alla propria generazione: «È stata una prova di riformismo dei fatti, non delle parole. Certo, tutto è perfettibile. Ma abbiamo raggiunto tre obiettivi. Tutelare i giovani e i precari, con il riscatto della laurea, la totalizzazione dei contributi per evitare che un solo euro versato vada sprecato, e i contributi figurativi per garantire i collaboratori a progetto. Aumentare le pensioni più basse. E assicurare la tenuta del sistema previdenziale nel modo imposto dalla demografia, innalzando l’età pensionabile». Letta però non intende intestarsi il merito, pur rivendicando di non «aver mai mollato, non essermi mai alzato dal tavolo e aver sempre invitato gli altri a restarci».

È stato un lavoro di squadra, con i ministri Padoa Schioppa e Damiano. Ma il protagonista è stato il vituperatissimo Romano Prodi. «Parliamoci chiaro: la palla l’ha messa in porta lui. Anche nella notte finale, il ruolo decisivo è stato suo. Spero che la cosa sia chiara, e che se ne rendano conto tutti».

LETTA SI E’ CANDIDATO A NAPOLI!?

di Fabrizio Dell’Orefice – Il Tempo

Arriva a piedi. In giacca senza cravatta. Senza scorta. Una giornalista sull’uscio della stazione marittima di Napoli gli chiede nella mattinata assolata se davvero sta scaldando i muscoli. E lui: «Sono qui per ascoltare». E ascolterà Enrico Letta. Ascolterà. Prima parlerà però. Un discorso in cui non userà mai espressioni come «mi candido», «scendo in campo», o peggio ancora «sfido Veltroni alle primarie del Partito democratico». Ma così tutti indendono. E quei tutti sono i cento ragazzi della summer schol di Mezzogiorno Europa, la fondazione creata da Giorgio Napolitano. Cento ragazzi che sono ad asoltarlo mentre lì a fianco i traghetti portano gitanti e villeggianti verso le isole, il mare. Cento ragazzi che esploderanno in un fragoroso applauso quando uno dalla sala, nel giro delle domande, chiede esplicitamente: «Ma perché non si candida alle primarie? Più che una domanda è una richiesta». Battimani. Letta si porta la mano destra al volto con il pollice schiacciato sullo zigomo destro e l’indice su quello sinistro e il resto delle dita a nascondere una bocca sorridente. Sghignazzante. Sì, è stato anche un attimo imbarazzante. Perché è vero che la Mezzogiorno Europa è una fondazione un po’ trasversale, ma è la casa di Ranieri e De Giovanni, Geremicca e Pittella, Nicolais e un giovane Ivano Russo. Insomma, sono gli uomini del Presidente, sono quelli che un tempo erano la corrente migliorista del Pci e del Pds. Anche se la distinzione è sempre più difficile, qui è soprattutto una casa diessina più che margheritina. Dovrebbe essere veltroniana. Qui ha vinto un’altra logica, quella generazionale. Perché Letta si becca quell’appaluso? Che cosa aveva detto fino quel momento? Aveva detto che «in Italia a quarant’anni si è ancora considerati ragazzini» e aveva spiegato di sognare «una classe dirigente che si rinnova attraverso la competizione e non attraverso la cooptazione». Già, competizione: è la parola chiave del pensiero del giovane sottosegretario alla presidenza del Consiglio. «Se non c’è competizione – aveva spiegato – ognuno fissa il traguardo dove si trova. Invece la competizione fa bene, c’è bisogno di competizione per andare avanti». Si riferirà all’uomo solo al comando di Veltroni? Letta aveva insistito: «Nel campo dell’economia il monopolio distorce la concorrenza, non crea stimoli. Ma è ovvio che gli attori del mercato tendano a realizzare il monopolio, al massimo un duopolio». Il riferimento correva veloce alla situazione del Partito democratico, e parola dopo parola diventava sempre più esplicito: «C’è chi dice: “ma come, spendete tempo a fare a gara tra di voi invece di farla tutti assieme all’avversario?”. Io rispondo: “Sì, è bene che la competizione ci sia sempre”». E non a caso aveva citato il «meccanismo virtuoso» dell’elezione diretta dei sindaci come sistema di selezione della classe dirigente: «È stato così in Francia e in Germania, dove il governo del Paese è nato nelle esperienze locali». E allora proprio per questo «bisogna ricordarsi che tutti i grandi leader europei hanno prima lottato all’interno dei loro partiti prima di conquistarne la leadership e quindi prendere la guida del Paese: è successo a Zapatero, a Sarkozy che pure aveva contro l’oligarchia della sua formazione politica, a Blair». «In Italia, invece – aveva continuato Letta -, non esistono partiti “conquistabili”. Chi è in minoranza non ha altra strada che fare una scissione e fondare un altro partito. Il Pd è l’unica possibilità di rendere europeo il nostro sistema; deve avere un valore positivo di partecipazione e di competizione virtuosa; deve mettere in circolo energie nuove che si sentono escluse. Solo così renderà un grande servizio al Paese. Per questo auspico delle primarie sul modello europeo, è la modernizzazione della politica». Arrivavano le domande dei ragazzi sulla rissosità della politica e altro con l’applauso di investitura. E Letta si lasciava andare: «Si è appena aperta una porta. Infiliamoci il piede, sbarriamola, spalanchiamola. Mettiamoci tutti insieme da qui al 14 ottobre e proviamo a fare in modo che nel Pd non sia tutto già deciso, meglio primarie che si svolgano in modo aperto e coraggioso». Il finale era morettiano: «Ci sono politici che pensano ad affrontare le questioni e a risolverle, altri che pensano solo ai voti. Noi amiamo questi primi. Stamattina abbiamo aperto una discussione, manteniamoci in contatto, scriviamoci, continuiamo a discutere su internet. Facciamo entrare nuovo ossigeno in questo Pd». Applauso di saluto, arrivederci e grazie. Si riparte per Roma, c’è il tavolo delle pensioni. Ma nella sua puntatina partenopea Letta non ha detto che si candida. L’ha fatto.

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