Innovatori Europei

Significativamente Oltre

Resoconto Convegno di Futurlab “Sussidiarietà: alle radici della vita pubblica – Io e la comunità” tenutosi a Giugno ad Acireale

di Antonio La Ferrara, Presidente Futurlab

Il 4 giugno 2016 nella Sala Convegni del Credito Siciliano di Acireale ha avuto luogo il Convegno “Sussidiarietà: alle radici della vita pubblica – Io e la comunità”. L’evento è stato organizzato dall’Associazione Futurlab – Costruiamo il futuro, associazione della quale sono il presidente. Futurlab è un’associazione no profit che ha iniziato ufficialmente le sue attività con un convegno presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Catania, sul tema: “Le migrazioni e la pace nel Mediterraneo”; successivamente, in un convegno organizzato a Palermo il 30 maggio c.a. abbiamo analizzato i tre settori che avrebbero dovuto rappresentare un volano per la Sicilia e che invece sono rimasti inespressi, ovvero l’agroalimentare, i beni culturali ed il turismo. Tutti e tre gli eventi sono stati molto apprezzati ed hanno visto una grande partecipazione di pubblico (abbiamo superato sempre di gran lunga il centinaio di persone). L’Associazione Futurlab – Costruiamo il futuro – ” nasce dalla passione e determinazione di un gruppo di amici provenienti da realtà personali e professionali eterogenee, uomini e donne di buona volontà che tentano di intervenire sul sociale nel rispetto degli individui e delle Istituzioni”; in particolare l’ultimo convegno è stato sensibilmente apprezzato poiché ha apportato un valido contributo al dibattito sul tema che aggrega la “sussidiarietà” alla “solidarietà” e interpella lo Stato sollecitando il rispetto e l’applicazione degli articoli della Costituzione Italiana che sancisce forme e modi per venire incontro ai bisogni dei cittadini.

La dotta lezione del prof. Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, ha guidato gli interventi ad un’attenta lettura del problema sociale che interpella il singolo cittadino e le Istituzioni pubbliche. Le trasformazioni sociali della Nazione che diventa sempre più vecchia, per la diminuzione delle nascite e la mancanza di lavoro per i giovani, sollecitano una nuova cultura di “Welfare sussidiario” capace di  declinare l’impegno del singolo e la collaborazione pubblica a sostegno delle iniziative di sviluppo e di crescita del Paese. La ricca tradizione della dottrina sociale della Chiesa sostenuta, tra l’altro dall’azione sociale di Luigi Sturzo, sollecita una reale valorizzazione del capitale umano e che, anche attuando una politica di risparmio valorizza il no profit e produce lodevoli e qualificati servizi sociali per il bene della collettività. La proposta di utilizzare allo scopo dello sviluppo economico e a sostegno dell’imprenditoria giovanile, i “fondi dormienti” delle banche, apre nuovi orizzonti di buone prospettive per i giovani e per le iniziative che afferiscono al bene sociale.

Mentre prima la stabilità di una riforma economica aveva nel tempo i suoi benefici, oggi, la rapidità delle trasformazioni sociali che mutano nel giro di cinque anni, necessitano modifiche e adattamenti indispensabili per continuare a reggere il sistema economico e finanziario.

Tendere alla qualità dei servizi pubblici, compreso il servizio scolastico, risponde alla “cultura del desiderio “, anima e radice di ogni progetto, che come atto intenzionale favorisce la soddisfazione di un bisogno e nello specifico della scuola; si tratta di un bisogno educativo in risposta alla diffusa emergenza di valori educativi che vengono a mancare.

Gli aspetti giuridici della sussidiarietà sono stati trattati dal prof. Fabrizio Tigano, docente di Diritto Amministrativo alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Catania. Apprezzato è stato l’intervento del presidente del Volontariato Siciliano, Santo Carnazzo.

I lavori del convegno, da me introdotti, hanno avuto i saluti dell’Amministratore delegato del Credito Siciliano, Saverio Continella, del Viceprefetto della Prefettura di Catania, Enrico Gullotti, dell’Assessore Adele D’Anna del Comune di Acireale e sono stati coordinati dal Prof. Pierluigi Catalfo, docente di Economia aziendale all’Università di Catania; infine le conclusioni sono state affidate all’intervento del Vescovo di Acireale, Mons. Antonino Raspanti, il quale con chiarezza e forza ha denunciato la disattenzione delle Amministrazioni regionali e locali nei confronti dei lodevoli servizi prestati dalle opere cattoliche di volontariato e di servizio e in genere dal terzo settore.

Vorrei infine sottolineare che le finalità dell’associazione Futurlab sono, tra le altre, quelle di sostenere le Istituzioni nel cambiamento della mentalità operativa, tecnologica, culturale ed etica. E’ necessario investire in formazione poiché crediamo essa rappresenti la leva strategica del cambiamento al fine di creare una classe dirigente pubblica e privata in grado di costituire un fattore di competitività caratterizzato da efficacia ed efficienza; è necessario promuovere attività finalizzate a riattivare e rivitalizzare il mercato del lavoro e porre in essere ogni azione rivolta ad arrestare il fenomeno della “fuga dei cervelli”, soprattutto dal Meridione.

Non potrà esserci crescita nel nostro Paese se non aiutiamo le Regioni del Sud a crescere e a colmare il gap economico che drammaticamente constatiamo ogni giorno; è necessario utilizzare i fondi provenienti dall’UE fino all’ultimo euro, ed è fondamentale investire sull’agricoltura e sulle infrastrutture ormai in ritardo di decenni al Sud. In queste idee e finalità ci riconosciamo pienamente negli obiettivi e nell’azione degli Innovatori Europei e nella vision del suo presidente. Dobbiamo essere capaci di creare valore aggiunto, di sostenere processi di riforma e d’innovazione, di promuovere un’evoluzione socio-culturale, di realizzare eccellenza. In poche parole di essere quella potenza industriale che eravamo e, in questo, speriamo di essere al fianco degli Innovatori europei nelle attività concrete. Anche noi di Futurlab ci poniamo di fronte alle sfide di questi anni solo con l’intento di pensare al bene comune ed anche noi rappresentiamo un think thank dove le idee devono fiorire ma devono subito dopo prontamente concretizzarsi. In questo la Lectio Magistralis del prof. Vittadini ci ha aiutato ad aprire ancora di più la mente verso ulteriori soluzioni da porre in essere.

 

 

 

Il PD si è “schiantato” nelle città. Ora una nuova classe dirigente locale attorno alla nuova Forma Partito

di Massipdmo Preziuso

E’ successo quello che mi aspettavo, e di cui scrissi ad Aprile scorso.

Ripresentando all’elettore – cittadino italiano una classe dirigente locale chiusa al cambiamento e al rapporto con i nuovi ceti sociali, in assenza di quella nuova Forma Partito che poteva e può avviare un cambiamento nel rapporto tra centro e periferia (e tra Governo e Partito), il Partito Democratico si è “schiantato” nelle grandi città, anche nelle roccaforti dove è arrivato agilmente primo al primo turno, come a Bologna e Torino, ma rischia al secondo.

Ma è soprattutto a Napoli (11% di voti alla lista del Partito!) e a Roma (17%!) che il PD deve completamente rinnovare il proprio personale politico e tornare seriamente a costruire Progetti partecipati, se non vuole perdere anche la leadership nazionale a breve, in favore del Movimento Cinque Stelle. O di un un Centrodestra , frammentato e indefinito in tutta Italia, che a Milano (città in cui il PD a guida Sala è forte e competitivo) torna in pochi mesi competitivo, mettendo in campo una figura di manager – politico naturale come quella di Stefano Parisi, che potrebbe assumere facilmente il ruolo di leader e rinnovatore nazionale.

Bene allora la scelta di stamane di Matteo Renzi di commissionare il PD napoletano (e chiaro che a breve lo stesso andrà fatto per quello romano), ma solo se questo sarà preludio di rinnovamenti sostanziali e generali.

Il “sistema chiuso” dei Partiti nei territori non regge più, anche perché ieri nelle medie e grandi città è totalmente emerso il “nuovo elettore” italiano , che va al voto affamato di visioni, narrative e figure nuove, come quelle che Virginia Raggi e Luigi de Magistris hanno saputo raccontare.

Si apra allora una seria riflessione su come si mette in campo una competente e preparata classe dirigente locale e, in contemporanea, si dia attuazione alla nuova Forma Partito del Partito Democratico, con la quale riprendere a tessere il dialogo con la nuova società italiana, emersa pienamente ieri.

Gestire il Declino

declino

Alberto Forchielli, Mandarin Capital Partners

mi ha fatto molto piacere leggere sul Messaggero del 29 maggio l’editoriale DI Romano Prodi dove elabora le mie riflessioni fatte nella puntata di Piazza Pulita di inizio settimana. Fondo poi rilanciato anche dall’Ansa: «Doppia stoccata di Romano Prodi nell’editoriale domenicale pubblicato sul Messaggero. “Innovazione e investimenti per non finire come il Messico”, ha scritto commentando l’Assemblea annuale della Confindustria, spiegando che occorrono interventi d’emergenza per evitare “un’economia italiana sempre più anomala rispetto a quella degli altri Paesi europei”. […] A proposito del rischio Messico, Prodi cita un recente intervento di Alberto Forchielli, presidente e fondatore del fondo Mandarin Capital Partners, secondo cui il pericolo nasce dal fatto che l’Italia si sta “orientando verso una struttura simile a quella del Messico, dove convivono tre diverse organizzazioni economiche”. Eccole: “Una prima formata da imprese eccellenti che sfidano i mercati internazionali, una seconda che opera in un mercato informale sfruttando le imperfezioni del mercato e utilizzando una mano d’opera scarsamente specializzata” e una terza rappresentata da “una corposa parte del Paese” che “vive nell’evasione delle regole e nell’illegalità”.» Nonostante ciò, tenete presente che il Messico per alcuni aspetti è avanti a noi: le tasse sono molto più basse delle nostre, lo stato Messicano costa meno del nostro ed il loro rapporto debito PIL è al 43% rispetto al nostro al 133% e la loro disoccupazione è 2/3 più bassa della nostra. Se la “messicanizzazione” dell’Italia sarà affrontabile soltanto se sapremo gestire questo enorme Paese a tre teste, tenendolo bilanciato, il problema è ovviamente a monte, come sottolinea Prodi nel suo editoriale: «[…] penso che le tendenze che ci portano verso di esso debbano essere combattute con ogni mezzo, affermando in ogni circostanza la maestà della legge e operando sulla preparazione delle risorse umane che sono alla base del successo di ogni paese moderno. La lettura della realtà non è invece consolante perché i confronti sull’efficacia dei sistemi scolastici ci trovano costantemente in coda, intere realtà del paese operano sempre più nell’ombra e i dati sul progresso dell’illegalità e sulla penetrazione della criminalità nella vita economica e amministrativa sono allarmanti.»
Le risorse umane e il sistema scolastico, ecco uno dei nostri enormi problemi di sempre: la scuola italiana è sfasciata! Ho lasciato l’Università di Bologna nel 1978 e ci sono tornato a insegnare nei primi anni Duemila, per un triennio, quindi prima della crisi del 2009. E ho trovato le stesse aule, solo più fatiscenti. Con gli studenti che erano dieci volte quelli di un tempo e con i posti a disposizione per i neo-laureati che erano un decimo rispetto a una volta, perché nel frattempo le aziende sono fallite.
Non ci sono ricette miracolose per invertire la rotta. Servono percorsi lunghi. È necessario investire nella ricerca, ma è un lavoro almeno ventennale. Attenzione, non c’è niente di nuovo da inventare. L’esempio indicativo è il polo industriale bolognese, con le eccellenze che sono sempre le stesse di quando ero bambino: è stato costruito grazie al flusso costante di risorse umane in arrivo dalle scuole professionali Aldini Valeriani. D’altronde la Silicon Valley nasce intorno all’Università di Stanford e il polo biotecnologico di Boston è vicino a Mit e Harvard e non è un caso, perché è così che funziona: l’università scientifica è sempre al centro di tutti gli eco-sistemi innovativi.
Serve concretezza e strategia. Ma la faccio ancora più semplice. Basta lavorare di più e meglio. È questa la ricetta, ma nessuno la vuole applicare. Quando torno a Bologna la gente mi chiede sempre come facciamo a uscire dalla crisi. Io rispondo: servono sacrifici. Allora mi dicono: «Forchielli vai ben a far le pugnette, basta sacrifici!».
In questa antropologia sbagliata ci butto dentro anche il sindacato, che è stato un assurdo elemento frenante. In Italia ci sono comportamenti e benefici che si danno per acquisiti e che invece vanno ridiscussi a causa della globalizzazione.
Quindi se oggi mi “costringessero” a fare politica, be’ fonderei un partito o un movimento chiamato “Gestire il declino”, perché per avere una speranza di risollevarci dobbiamo rassegnarci a duri anni di abbassamento del nostro tenore di vita e dovremo combattere una crescente ondata di criminalità piccola e grande. Dopo quarant’anni che sento sempre le stesse cose, focalizziamoci su quelle poche che servono davvero. Per sopravvivere alla globalizzazione, per “messicanizzare” l’Italia il meno possibile stringiamoci per difendere la nostra comunità, riappropriamoci del significato vero del “senso del dovere” e rassegniamoci a lavorare di più e meglio.

 

Innovazione e investimenti per non finire come il Messico

di Romano Prodi su Il Messaggero

Mariachi Band Performing with Violins ca. July 1991 Puerto Vallarta, Mexico

Mariachi Band Performing with Violins ca. July 1991 Puerto Vallarta, Mexico

Riflessioni fiduciose e constatazioni amare sono state al centro dell’Assemblea annuale della Confindustria. La fiducia è nella constatazione che molte tra le imprese esportatrici sono state capaci di trasformarsi e, crescendo, si sono adeguate alle dure regole della globalizzazione.
Le constatazioni amare riguardano invece il fatto che, dopo una lunga crisi, la risalita è ancora “modesta e deludente” e, soprattutto, che la produttività del sistema Italia e dell’industria manifatturiera non tengono il passo con gli altri grandi paesi europei.
Alla perdita di velocità del sistema produttivo si è inoltre accompagnato un processo di selezione che ha provocato la scomparsa di quasi un quinto delle nostre aziende e di un peggioramento generale dei risultati economici delle imprese.
Il Presidente della Confindustria e il Ministro dello Sviluppo hanno accompagnato la lettura di questi dati con una serie di proposte destinate ad agire favorevolmente sulla dimensione delle imprese, sulle regole di governo delle imprese stesse, sull’alleggerimento del loro peso fiscale, sugli incentivi agli investimenti e su un rapporto più costruttivo con le banche e con la Pubblica Amministrazione.
Misure non solo utili ma necessarie per dare corpo ad una “risalita” finalmente robusta e veloce sulla quale tutti noi facciamo conto.
Alcune riflessioni aggiuntive sono tuttavia necessarie per capire quali sono gli elementi di fondo che rendono difficile questa “risalita”.
Partiamo da un dato molto semplice ma sorprendente. La lunga crisi di produttività ( e quindi di efficienza) del nostro sistema produttivo e la contemporanea crisi mortale di tante aziende sono state infatti accompagnate da un ottima tenuta della nostra bilancia commerciale, largamente attiva nel settore manifatturiero. Tutto questo mette in rilievo che, pur nella scomparsa delle nostre grandi imprese, abbiamo, centri di eccellenza che, nonostante tutti i nostri limiti, si affermano nei mercati internazionali vincendo i concorrenti tedeschi, cinesi e americani.
Se, nonostante queste affermazioni, la produttività non aumenta, questo significa che una parte troppo grande del nostro sistema economico non è capace di trasformarsi e vive cercando nicchie di mercato interno che si vanno sempre più restringendo, proprio per il cattivo andamento dei nostri consumi e dei nostri investimenti e per la pervasività della globalizzazione.
Se a questi dati aggiungiamo quelli che l’ISTAT regolarmente ci fornisce riguardo alla fortissima crescita dell’economia illegale, ci troviamo di fronte a un’economia italiana sempre più anomala rispetto a quella degli altri paesi europei.
Usando l’esagerazione come strumento didattico Alberto Forchielli, in un recente confronto televisivo, traeva le conseguenze di questi dati affermando che l’Italia si va orientando verso una struttura simile a quella del Messico, dove convivono tre diverse organizzazioni economiche. Una prima formata da imprese eccellenti che sfidano i mercati internazionali, una seconda che opera in un mercato informale, sfruttando le imperfezioni del mercato e utilizzando mano d’opera scarsamente specializzata ed ancora più scarsamente garantita e remunerata. Infine una corposa parte del Paese vive nell’evasione delle regole e nell’illegalità.
Non credo che questo sia fatalmente il nostro destino ma penso che le tendenze che ci portano verso di esso debbano essere combattute con ogni mezzo, affermando in ogni circostanza la maestà della legge e operando sulla preparazione delle risorse umane che sono alla base del successo di ogni paese moderno.
La lettura della realtà non è invece consolante perché i confronti sull’efficacia dei sistemi scolastici ci trovano costantemente in coda, intere realtà del paese operano sempre più nell’ombra e i dati sul progresso dell’illegalità e sulla penetrazione della criminalità nella vita economica e amministrativa sono allarmanti. Credo tuttavia che noi abbiamo ancora la capacità di reagire con successo, dimostrando di avere obiettivi comuni e condivisi.
Il compito di dettare e di imporre la rotta per vincere la sfida spetta naturalmente al governo ma, come si usa dire in Gran Bretagna, la regina si aspetta che ciascuno faccia il proprio dovere.
Dato che queste riflessioni partono dall’analisi di quanto è stato detto nell’assemblea della più autorevole rappresentanza del mondo industriale voglio quindi aggiungere che, mentre mi sono amareggiato ma non sorpreso di vedere molte delle nostre più grandi e floride imprese cadere in mani straniere, mi sono amareggiato e sorpreso nel vedere che i ricavi di queste vendite non sono stati per niente investiti nel fare progredire le nostre strutture produttive.
Dobbiamo cioè concludere che se i generali sentono il dovere di combattere, nemmeno gli incitamenti della regina saranno certo in grado di farci vincere la durissima battaglia che deciderà il nostro futuro.

La fine dell’Italia. Messico e nuvole.

di Alberto Forchielli, Mandarin Capital Partners

È come dice la famosa canzone: “Messico e nuvole, / la faccia triste dell’America / e il vento suona la sua armonica / che voglia di piangere ho…”

Ma non bisogna cedere allo sconforto, anche se non ci sono alternative, come ho detto a “Piazza Pulita” dello scorso 23 maggio. Tanti amici sui social si sono lamentati che i cinque minuti di intervista con il bravo Corrado Formigli sono troppo pochi. Ma datemi retta, per la mia poca pazienza è meglio un faccia a faccia di cinque minuti tra me e lui che due ore seduto accanto a un manipolo di politici “cioccapiatti” che si urlano in faccia le loro opinioni farneticanti.

Ribadisco quello che ho detto a Formigli sugli effetti della globalizzazione per il nostro Paese. Inevitabilmente in Italia avremo un grosso settore economico del tutto informale dove ritroveremo le filande con duemila emigrati che lavoreranno con l’imprenditore straniero. Ossia, l’Italia come il modello Messico. Da qui la famosa canzone “Messico e nuvole”.

Mi spiego. Nell’Italia del futuro ci sarà un settore moderno, fatto di eccellenze, come l’oleodinamica a Modena, le macchine impacchettatrici a Bologna, i vini della Franciacorta, eccetera, eccetera. Poi avremo una grossa area di “nero”, con grandi aziende al suo interno e con le forze dell’ordine che chiuderanno gli occhi per far sì che la gente non vada a delinquere. Infine ci sarà il terzo settore che sarà a fortissima criminalità. E l’unica possibilità che abbiamo dinanzi a questo scenario futuro sarà quello di cercare di tenere bilanciate queste tre macro-realtà. Il Messico di oggi funziona così. E questa, purtroppo, è l’Italia di domani. E non chiedetemi di essere ottimista.

Anche se questo quadro è a tinte fosche ed è inevitabile non dobbiamo però piangerci addosso. Dobbiamo invece cavalcarlo e cercare di bilanciarlo.

L’inevitabilità è legata al fatto che ormai non ce la facciamo più a tornare nel mondo che corre. Quello, per intenderci, dell’innovazione e dell’alto valore aggiunto. In questo ambito elitario si salva un pezzo di Germania. Si salvano i Paesi Scandinavi. Si salva l’Inghilterra perché è finanza. Si salvano in parte gli Stati Uniti d’America perché hanno questi grandi ecosistemi innovativi. Viene fuori l’Asia, anche sotto l’aspetto innovativo grazie a Singapore, Shenzhen e Pechino in Cina e al distretto indiano di Bangalore. La Francia non so se riuscirà a salvarsi ma il Sud Europa e i Balcani sono segnati perché non hanno più da tempo la capacità di innovare.

In sintesi, l’Europa è spaccata in due: il nord si salva e il sud affonda verso la Turchia. Con l’Italia che conterà qualche distretto d’eccellenza, isole felici, che però vivranno all’interno di parchi industriali controllati.

Mentre il governo fa quello che può, ma non può bastare, il problema Italia è più antropologico che politico. È come perdere una partita 7 a 0 e fare 2 gol a dieci minuti dalla fine. La partita è persa. Dobbiamo avere la consapevolezza che sopravvivremo soltanto se sapremo gestire questo enorme Paese a tre teste, tenendolo bilanciato. E l’ordine pubblico e la lotta alla criminalità grande e piccola, in tutto questo, avranno un ruolo fondamentale affinché l’Italia non venga travolta dalle diseguaglianze che la globalizzazione porterà sempre di più o divorata dalle mafie, perché la dittatura che veramente temo è quella del Capo Cosca. Il controllo del territorio è decisivo.

Quindi, in conclusione, dovremo tollerare e cavalcare un sistema informale dell’economia che diventerà sistemico e organizzato. Il mondo è disumano, gli interessi in ballo sono enormi, e noi siamo formiche. Insomma, Messico e nuvole. Con moltissime nuvole all’orizzonte.

Le mosse inevitabili del prossimo presidente USA

di Alberto Forchielli, Mandarin Capital Partners

I problemi degli Stati Uniti d’America sono noti e riassumibili con la frase chi vuole consumare non ha i soldi per farlo mentre chi è in cima alla piramide sociale non sa più cosa comprare. E la campagna elettorale, a colpi di slogan, ha lanciato soluzioni d’impatto, immaginando un’economia che funzioni per tutti – e non soltanto per l’1%della popolazione più ricca – e ipotizzando assistenza sanitaria universale, college e università pubblica gratis e che ricchi e corporation paghino la giusta parte di tasse. Per un Paese che ha un mercato del lavoro molto flessibile e che ormai ha perso definitivamente la sua celeberrima vocazione industriale.

Dopo il mio recente soggiorno a Washington, tra frequentazione del Congresso e di alcuni interessanti “think tank”, posso dire di non avere dubbi sul fatto che le questioni principali dell’agenda statunitense seguiranno l’orientamento populistico e isolazionistico che l’opinione pubblica americana auspica da qualche tempo e che indipendentemente da chi sarà il successore di Obama alla Casa Bianca, questo è ciò che non potrà non accadere.

Innanzitutto sgombriamo il campo da equivoci. Con il sistema bicamerale a stelle e strisce, la premessa da fare è che il vincitore non potrà cambiare radicalmente le leggi del Paese perché se anche il senato tornasse ad essere democratico, la camera rimarrà repubblicana e il nuovo presidente non potrà avere mano libera ma dovrà gestire comunque il consenso in modo bipartisan.

Detto ciò, un “must” in arrivo è la svalutazione del dollaro. Siccome aumentare le tariffe e costringere le aziende a ricollocare la produzione negli USA rappresentano, sia tecnicamente sia politicamente, soluzioni impraticabili, l’unica mossa che l’Amministrazione potrà fare per limitare il crescente aumento del deficit commerciale sarà svalutare la propria moneta. E poi, finalmente, si affronterà la questione delle infrastrutture, che dovranno essere ammodernate “per forza”. Esse difatti sono datate e il loro mancato ammodernamento costerà migliaia di miliardi di dollari all’economia statunitense in termini di calo della produzione. Per esempio, uno studio dell’American Society of Civil Engineers, rivela che il danno sul PIL sarà pari a 4mila miliardi di dollari fra il 2016 e il 2025 in termini di vendite e attività produttive perse. Per 2,5 milioni di posti di lavoro in meno. E secondo lo stesso rapporto, sarebbero necessari investimenti in infrastrutture per 3.320 miliardi di dollari. Così oggi la questione non è più rimandabile e ammodernare le infrastrutture, dopo averle trascurate per 50 anni, darà vigore all’economia USA, liberando investimenti e creando occupazione.

Per quanto concerne le questioni internazionali, si farà il “rammendo russo”. Nel senso che agli USA della crisi ucraina e del delicato rapporto tra Russia e Unione Europea interessa ben poco e quindi sarà più che plausibile un tentativo di riavviare da parte americana i rapporti economici con la Russia. Prevedo quindi una fine delle sanzioni abbastanza rapida.

Sempre sul fronte “esteri” vedo un paio di “disimpegni” in termini geo-politici-militari tanto importanti quanto inevitabili.

Il primo è verso l’Asia, con Washington che ha preso atto dell’esito fallimentare del progetto “Pivot to Asia” di Obama – frutto dell’egemonia americana dell’ultimo quarantennio come “poliziotto” del mondo – e perciò si rassegna a lasciare alla Cina il suo spazio vitale nel continente asiatico giocando solo di rimessa sostenendo Giappone, Filippine e Vietnam. Mentre, sul piano economico (precisamente su commercio e investimenti), con la Cina, al contrario di quanto speravano i Cinesi, non firmerà nessun accordo bilaterale sugli investimenti (al contrario di ciò che scioccamente si accinge a fare la EU) perché gli USA non intendono subire l’andata di investimento cinese cui è sottoposta l’Europa è certamente non daranno ai cinesi lo status di “economia di mercato” dopo che loro hanno disatteso tutte le regole del WTO (cosa che la Commissione EU pensava di fare prima di essere bocciata dall’euro-parlamento).

Il secondo “disimpegno” è nei confronti delle crisi mediorientali, che, semplicemente, lasceranno sbrigare alla UE. Gli Stati Uniti si sono resi conto che in Medio Oriente il problema è irrisolvibile. Con il risultato che noi europei ci troveremo sempre più soli e con meno appoggio militare. E la conseguenza? Riguarda proprio noi. Perché dovremo imparare a cavarcela da soli, anche e soprattutto militarmente. E non sarà facile.

L’estrema destra ha rotto l’argine

Norbert Hofer

di Gianni Pittella – “L’Unità”, 23 maggio 2016

A prescindere dall’esito finale e della tenuta del blocco europeista, l’argine si è rotto e per la prima volta dal 1945 una estrema destra che proviene direttamente dal nazismo ha sfondato. A prescindere dai decimali di differenza. È un terremoto.
Un dato forse non così sorprendente e che conferma una tendenza ormai consolidata in praticamente tutto il vecchio continente: una crescente marginalizzazione delle forze conservatrici e socialdemocratiche tradizionali a favore di partiti o movimenti che di volta in volta assumono le sembianze di populisti, radicali, estremisti di destra o sinistra, antiglobalisti o xenophobi, comunque anti-sistema.
Le ragioni dell’avanzamento delle forze anti-sistema ovviamente variano da Paese a Paese ma si possono sintetizzare nell’incapacità o nell’esaurirsi della forza propulsiva delle forze tradizionali di riformare e riformarsi a livello nazionale e europeo, rendendosi così incapaci quando non corresponsabili delle gravi crisi del nostro tempo, dalla sfida migratoria alla minaccia del terrorismo, dalla stagnazione economica alla fine di un certo mondo produttivo e sociale sotto i colpi della globalizzazione.
Ecco perché, prendendo a termine di paragone il complicato contesto europeo, l’opera riformatrice e innovatrice del Governo Renzi (riforma costituzionale, Jobs Act e i patti d’investimento per il Sud per citare solo qualche esempio) rappresenta una manna dal cielo per contrastare e frenare l’avanzata dei vari Salvini o Grillo.
Ecco perché anche le proposte lanciate dal premier Renzi a livello europeo (migration compact, il superministro delle Finanze dell’Eurozona, una garanzia comune per i depositi bancari, un fondo europeo contro la disoccupazione, il completamento dell’Unione bancaria) sono la giusta strada da seguire per rinnovare l’Unione europea e renderla finalmente capace di dare risposte efficaci alla grave crisi attuale.
L’esito del voto in Austria, dove per la prima volta nel dopoguerra la destra e sinistra storica sono rimaste fuori dal ballottaggio, avrà immediate ripercussioni per l’Italia e nel lungo periodo anche per l’Europa.
Per l’Italia è facile immaginarsi che sull’onda della falsa paura sugli immigrati, Vienna radicalizzerà la sua posizione arrivando forse anche alla completa chiusura del Brennero, contro ogni regola di Schengen e contro ogni ragionevolezza a livello economico e commerciale. L’Italia dovrà essere intransigente nel richiedere a livello bilaterale e comunitario il comune rispetto delle regole.
A livello europeo, in prospettiva, lo sfondamento della destra estrema austriaca potrebbe dare ulteriore spinta ai movimenti radicali nel resto dell’Ue. Possibilità alquanto preoccupante in vista del voto in Francia, Germania e Spagna.
Il rischio è che da subito si rafforzi in seno al Consiglio europeo il fronte populista/estremista rendendo de facto impossibile prendere decisioni comuni a sfide comuni.
Ecco perché l’Italia di Renzi rappresenta oggi un baluardo per l’Europa intera, ecco perché nel Parlamento europeo noi Socialisti e Democratici continueremo a lottare non solo per difendere l’Europa comunitaria ma per riformarla ed innovarla. Perché senza riforme, senza rinnovo, in Italia come in Europa, forse non oggi ma di certo domani rischiamo di consegnare le chiavi del nostro futuro agli Hofer di turno

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