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L’ALTRA FUGA DI CERVELLI

fuga-dei-cervellidi Ainhoa Agulló

Il fenomeno migratorio, attualmente al centro di numerosi e accesi dibattiti, non costituisce, invece, una realtà moderna, ma esso ha accompagnato, fin dalle origini della storia, l’essere umano. Secondo i dati dell’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) e dell’OCSE, agli inizi del secolo scorso, i migranti nel mondo erano il 3% della popolazione globale, percentuale che si è mantenuta costante finora.

Tuttavia il fenomeno migratorio, nell’attualità, deve essere collegato a quello della Globalizzazione che, trasformando i mercati del lavoro mondiali, ha incrementato le disuguaglianze economiche e sociali e ha così costretto le persone ad abbandonare le proprie nazioni. Infatti, la particolarità che contraddistingue questo periodo storico deriva dal fatto che il tasso di crescita annua dei migranti internazionali si è incrementato di quasi un 3%, e continua ad aumentare. Secondo l’OCSE, gli immigrati verso i maggiori Paesi industrializzati sono triplicati rispetto agli anni ’60 e costituiscono il 7,5% (75 milioni di persone) del totale della popolazione dei Paesi OCSE, nella fascia di età tra i 15 e i 64 anni.

Per quanto riguarda l’Europa, secondo le previsioni, tra una quarantina di anni, un terzo dei suoi cittadini supererà i 65 anni di età. Per questo motivo, comincia, da subito, ad avere bisogno sia di manodopera ma soprattutto di cervelli venuti dall’estero, disposti a trasferirsi e a lavorare nel continente europeo, in condizioni simili a quelle che può offrire la Silicon Valley in California o Sidney in Australia. Si deve tener conto, inoltre, che attualmente un alto numero dei cervelli “locali” europei sono in fuga verso i Paesi che investono in R&D&I, malgrado la Strategia di Lisbona, che cerca di creare le cosiddette “reti di contenimento territoriali”, volte a valorizzare il capitale umano e sociale, acquisito sul territorio dell’Unione. È questo il motivo reale per il quale l’Europa sta cercando di introdurre la cosiddetta Carta Blu europea, ovvero un permesso unico, di lavoro e di residenza, per gli immigrati altamente qualificati, in risposta alla famosa Green Card americana. La Carta Blu rientra perciò nella logica dei programmi di “immigrazione selettiva”, che mirano a soddisfare il fabbisogno sempre più pressante dei Paesi occidentali.

È ovvio che le migrazioni internazionali sono conseguenza, in molte occasioni, di conflitti interni, internazionali e/o di disastri ambientali. La maggioranza delle persone che decide, però, di abbandonare il proprio Paese, lo fa, in realtà, per motivi fondamentalmente di carattere economico. Perciò, all’interno del gruppo dei migranti “economici”, conviene fare un’ulteriore distinzione, fra le “semplici” migrazioni per lavoro (che costituiranno una manodopera più o meno specializzata) e la cosiddetta “fuga di cervelli”, più conosciuta con l’assettico termine di brain drain.

Malgrado il fenomeno non sia molto publicizzato, è ormai accertato che a tentare il “salto” verso l’Europa (e, più in generale verso i Paesi industrializzati) sono i più istruiti, sia tra gli immigrati regolari che tra quelli in situazione irregolare. In concreto, per quanto riguarda l’Italia, più del 41% degli immigrati dichiara di essere in possesso di un diploma di scuola superiore (mentre per gli italiani questo dato riguarda solo il 33% della popolazione) e il 12% ha seguito una istruzione universitaria (di fronte ad un 10% di italiani), nella fascia di età tra i 25 e i 64 anni. Lo stesso studio, visto da una prospettiva di genere, dimostra, inoltre, come le donne sono, in media, più istruite degli uomini, anche se con grandissime differenze da nazione a nazione.

Ci troviamo così di fronte ad un immenso spreco di capitale umano nel fenomeno migratorio, che si manifesta sotto due aspetti:

– da una parte il brain drain, che presuppone un impoverimento culturale per i Paesi di origine, che si vedono privati dei loro migliori cervelli;

– dall’altra (soprattutto tra gli immigrati in situazione irregolare), si produce un mancato utilizzo delle risorse umane qualificate, nei Paesi di destinazione, fenomeno conosciuto come brain waste.
La Banca Mondiale, fino a poco tempo fa, aveva fatto riferimento ad un aspetto positivo della fuga di cervelli, ovvero alla cosiddetta “Nuova Economia del Brain drain”, o, meglio, del brain gain, ossia del guadagno: secondo questa teoria, la richiesta di immigrati qualificati nei Paesi industrializzati avrebbe ripercussioni positive sui loro Paesi di origine, non solo in termini di rimesse, aspetto più evidente a tutti: i flussi di capitali provenienti dai migranti girerebbero attorno ai 150 miliardi di dollari, il doppio rispetto al 2000 e cinque volte di più rispetto al 1990; secondo questa teoria, i governi dei Paesi in via di sviluppo verrebbero sollecitati, attraverso le richieste di alti profili professionali, a migliorare i propri standard di istruzione, avendo, come conseguenza, un innalzamento complessivo del livello di vita del Paese stesso. Più recentemente, però, sempre la Banca Mondiale ha ammesso che ciò ha pure un impatto negativo, da un punto di vista eminentemente economico, se si tiene conto delle risorse investite nella loro istruzione, senza il tornaconto del loro utilizzo posteriore da parte del Paese che ha investito nella loro formazione.

Per questo motivo, negli ultimi anni, stanno acquistando particolare importanza le cosiddette diaspora options, che prevedono una brain circulation (o brain exchange), e collocano il migrante, in quanto conoscitore di territori, al centro dei progetti di cooperazione, volti a favorire uno sviluppo parallelo e sinergico tra i Paesi di origine e quelli di destinazione. Si richiede, perciò, l’implementazione di una interazione bidirezionale, che permetta, in tal modo, un movimento circolare. In questo senso, il Parlamento Europeo, in un suo rapporto sulle relazioni UE/Regione mediterranea (regione particolarmente colpita dai flussi migratori, a livello globale), già nel 2001, ha considerato che la politica migratoria deve avere la sua ragione di essere nell’organizzazione della circolazione di persone. Se non si risponde a tale domanda di organizzazione, si favorisce l’immigrazione clandestina. Per tale motivo, è necessario considerare le migrazioni al centro della cooperazione, elaborando una politica migratoria articolata sulle necessità di co-sviluppo. Bisogna tenere anche conto, nei Paesi di accoglienza, di un adeguato utilizzo delle professionalità e del bagaglio di studio dei migranti, giacché ciò permette di favorire la loro integrazione e di ridurre il rischio di fenomeni di rigetto nelle società di accoglienza.

Ciò, per quanto riguarda i cervelli in fuga, implica la necessità di creare un sistema che permetta agli emigrati di continuare a lavorare fuori casa (e perciò che li consenta di crescere, da un punto di vista professionale), senza che tale cosa produca un impatto negativo per il proprio Paese, e che, contemporaneamente, essi vengano considerati come un “contributo” dal Paese di accoglienza.
Alcuni dei cervelli in fuga, a tal fine, propongono che i Paesi di origine stabiliscano (attraverso le organizazioni internazionali di competenza in materia) il pagamento di una tassa per l’assunzione di personale qualificato nei Paesi industrializzati. Ma il dubbio che si pone è se tale proposta permetterebbe, veramente, ai Paesi di origine, di riassorbire i costi dell’istruzione, impedendo un acquisto “a costo zero” da parte dei Paesi che “importano” cervelli, come finora è avvenuto.

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