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Finanziamento pubblico e democrazia interna dei partiti: non facciamo ingannare. Frosinone, 10 Luglio

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Rete La Fenice e Fondazione Etica invitano i cittadini al dibattito aperto su

Finanziamento pubblico e democrazia interna dei partiti: non facciamoci ingannare

Mercoledì 10 luglio – ore 17.00

Frosinone – Palazzo dell’Amministrazione Provinciale, in Piazza Gramsci 13

Dopo i saluti di Giuseppe Patrizi, Commissario Straordinario Provincia di Frosinone, interverranno:

Paola Caporossi, Vicepresidentessa Fondazione Etica;

Gregorio Gitti, Deputato Scelta Civica- Responsabile Nazionale Enti Locali;

Gennaro Migliore, Capogruppo Sel alla Camera;

Arturo Parisi, già Ministro della Difesa.

Modererà Giuseppina Bonaviri.

Seguirà ampio dibattito con la massima partecipazione dei cittadini.

Per confermare la propria partecipazione, scrivere a: info@fondazionetica.it.

Scarica l’invito

L’Italia sperduta

Di Giuseppina Bonaviri

Presso la Fondazione Censis in Roma si è realizzato a giugno “Un mese di sociale”. Si è discusso della società impersonale estendendo il dibattito anche alla politica in un tempo presente che non ci rappresenta più. Non si percepisce, nella attuale società, il senso della convivenza umana ed il deperimento della funzione ideativa del pensiero porta a mancanza di consapevolezza critica fuori da un modello ormai divenuto evanescente. Paradossalmente la cosiddetta società democratica pone a fianco individui che non si conoscono facendoli abdicare dall’educazione e creando uno spazio virtuale dove elogio del moralismo , sfaldamento della polis, nostalgia di socialità lascia posto a modelli finzionali, alla mancanza di consapevolezza critica, alla caduta del ruolo domestico, al pensiero unico dominante dove la mobilitazione delle masse rimane pietrificata a favore di una società di mercato competitivo dentro il quale l’essere diventa mucillaggine.

Ogni protesta si consuma in pochi giorni, fallisce la classe politica, cala la partecipazione, si soffre la crisi. Una Italia che appare fatta di cera dove elogio della mediocrità e politica evanescente non consentono la costruzione di un tessuto comune e che invece sono accesso ed entroterra alla costruzione della società impersonale. Nella attuale società ci si riconosce solo per gli stili vita: stesso lavoro, stesso reddito, stessa fede religiosa, stesso genere, stessa chirurgia estetica oppure stessa sindrome paramafiosa che necessita di sapere “di che gruppo sei?” Si creano sottosistemi spettacolarizzanti che, fuori dal concetto di benessere della collettività, sono  parabola alla moltitudine sostenuta e fortificata dai mass-media omologanti nel concetto di “i media sono io”. Questa dimensione di non coinvolgimento fa si che dati, numeri, rating, indicatori, stime, sondaggi si sostituiscano al concetto di “personale” permettendo la trasformazione del “noi” in profili e modelli econometrici che mistificano, con effetti annunci, il nostro futuro e la produzione reale della nostra conoscenza del mondo.

Questa iniziativa, che il Censis ha organizzato per molte donne ed uomini di buona volontà, alla metà di un anno tormentoso e ostile alla cittadinanza attiva ci è apparsa in sintonia con il grande desiderio di innovazione e modernità di cui abbiamo fortemente bisogno anche nel nostro territorio . La nostra Provincia, schiacciata dalle logiche di un mercanteggiare politico che ci sta distruggendo, necessita di partecipazione ed azione. La nostra terra non è destinata al populismo del guardare ma all’impegno, alla consapevolezza, all’approfondimento che ci consente di cercare nuove sfide quelle che possono metterci alla prova e che ci permettono di riflettere su noi stessi, sulla nostra relazione con al realtà e soprattutto con gli altri. I problemi richiedono soluzioni complesse, progettate con cura, proiettate nel tempo, realizzate con pazienza. Ne deriva un bisogno di interpretazione, vero fulcro della coscienza collettiva al di là di ogni trasparenza e conoscenza.

La rivoluzione in Egitto

di Fabio Agostini

Egitto che succede? Gli USA non usano la parola golpe, perché?

Perché secondo la costituzione americana, gli USA non potrebbero poi finanziare un paese non “democratico”. Ma come mai gli USA non definiscono quello Egiziano golpe militare?

E’ forse perché la macchina militare Egiziana é di fatto una costola della macchina militare americana?

Due post del mio blog sulla situazione egiziana pubblicati nel 2011 che danno gli strumenti per capire e analizzare la situazione attuale.

http://ita-economiaepolitica-fabioagostini.blogspot.co.uk/2011/01/legitto-gli-stati-uniti-e-il-medio.html

http://ita-economiaepolitica-fabioagostini.blogspot.co.uk/2011/02/egitto-e-medio-oriente-possibili.html

L’Unione dei popoli

di Mario Coviello

Come è vista l’Unione Europea nel nostro paese e cosa effettivamente rappresenta oggi l’ Europa per i suoi abitanti?

La risposta cambia a secondo della latitudine e della longitudine in cui il nostro ipotetico cittadino europeo risiede e certamente anche in base al ruolo socio-economico che lo stesso occupa all’interno dello stato di appartenenza.

L’Italia rappresenta in larga parte un detrattore del sistema così congeniato.

Sistema perché l’Unione Europea è un ente dotato di personalità giuridica internazionale, che è demandata alle competenze specifiche riportate  nel testo costituente, senza disporre della sovranità completa sugli stati parte.

Il fatto principale è che oggi il cittadino europeo si fa i conti in tasca e, dunque – se è pur vero che i soldi non fanno la felicità – è anche vero che in paesi come l’Italia la costituzione di questa confederazione di Stati ha visto scemare le possibilità di condurre una vita adeguata alle aspettative ormai di più generazioni.

L’adeguamento al trattato di Maastricht nei termini di riduzione del debito pubblico, mentre accelera il fenomeno della globalizzazione e della delocalizzazione, rappresenta la croce da portare ,tra l’altro con un peso distribuito in maniera diseguale, in cambio di un contraltare di opportunità sempre minori e riservate a poche categorie professionali e ad aree geografiche meglio collegate.

L’Unione chiaramente non può e non deve essere vista solo in termini economici: essa ha infatti migliorato i rapporti tra tanti stati confinanti in continua disputa (ad es. Francia e Germania) ed ha portato sollievo a tante popolazioni sofferenti (come i paesi dell’ex Unione Sovietica), ma è anche vero che, al suo interno, il peso egemone lo posseggono i paesi del centro Europa dotati di un potere finanziario, industriale e organizzativo maggiore.

Sarebbe auspicabile un disegno condiviso tra i paesi dell’area anche perché è evidente che il futuro porta a due antitetiche soluzioni.

– La prima rimane una maggior coesione interna  attraverso un rafforzamento di sovranità che richieda però una tutela ed un alleggerimento in termini di austerity per l’area mediterranea .

– La seconda vedrebbe di contro i colossi dell’Europa centrale fagocitare le deboli realtà periferiche e alimentare una crescente volontà a ridiscutere i trattati sull’Unione, tra l’altro mentre si celebra l’allargamento verso oriente con l’ingresso della Croazia e forse un giorno anche della Turchia.

L’Unione Europea, intanto,  nonostante la crisi sta negoziando il grande accordo di libero scambio con gli Stati Uniti ed intrattiene un florido import export con la Cina, fatti che attestano il suo ruolo preminente nelle relazioni commerciali .

In tale prospettiva potrebbe migliorare la condizione di centinaia di migliaia di disoccupati  che  soffrono politiche inadeguate, nonostante essi siano cittadini e contributori del bilancio europeo.

For a european sustainable development plan

By Alfonso Iozzo (October 2011)

In today’s radically changing world, which is characterised by the participation of
increasingly large sections of the population in the processes of economic growth,
necessitating rational and efficient use of natural resources (food, energy), Europe must
implement a strict policy of control of resources, in order to bring about an equitable and
sustainable transformation of its economic and production system.
In this regard, Europe has already made fundamental choices in the right direction,
from the aims stated in the Lisbon Treaty to the European Council’s decisions for 2020.
The route of strict budgetary discipline (both for states and for individuals) and sustainable
development is one that can be followed only through a common European effort. Growth
can be resumed only through investments that make European businesses competitive,
reducing the consumption and costs of energy and raw materials, maximising the use of
information technologies, developing and spreading the knowledge society, and
rebalancing purchasing power.
The progressive increase in the per capita income of people in the developing
economies is giving Europe enormous scope for exporting its quality goods and services.
But unless it is made perfectly clear that it is possible to start moving towards a new and
different stage of development, this crucial opportunity to include the European economy
in the new global cycle will be lost.
The capacity to produce high-tech industrial goods, advanced services and cultural
goods is already widespread in many sectors and areas of the European economy, but
this capacity will not spread, increase and improve unless it is part of a specific strategic
choice.
The creation of the common market, and then the single market, allowed Europe to
enter long expansionary cycles. What is called for now is a similar choice, geared at
ensuring Europe’s full integration into the new global economy. Although the proposals
circulating in this difficult period for the European economy are often along the right lines,
the fact that they are restricted to the single national frameworks reduces their feasibility,
effectiveness and economic impact.
The 1992 single market programme aimed to tackle the costs of the market
fragmentation of Europe, referred to as “non-Europe”; today, nearly two decades on, the
solutions being proposed are still restricted by the costs that have to be borne as a result
of “non-Europe”. One need only consider the most outstanding example, that of
investments for research – especially in the field of new energy –, in order to appreciate
that purely national programmes, not integrated at European level, are an appalling waste
of resources, completely incompatible with the necessary austerity policy that is now
shaping budgets in the both public and the private sector.
It has become essential to launch a “European plan”, limited but decisive, in order
to show Europe’s economic and social actors the direction that has to be followed. It falls
to the European Commission primarily to put the necessary measures to the European
Parliament and the Council of Europe and to present them to Europe’s citizens and
political, economic and social forces.
This “plan” must also cover relations with those areas that, on account of their
geographical proximity, are most closely linked with the EU, especially the Mediterranean
countries that have recently started a process of radical political, economic and social
change.
The investment plan once proposed with great foresight by Jacques Delors must
now be realised in a form designed to create the conditions of competitiveness,
sustainability and social coherence on which Europe’s revival depends.
It is up to the Commission to indicate which projects to support, to make sure they
are feasible and to ensure that they are managed in a rigorous and transparent manner.
Ultimately, the European budget should be financed entirely by the EU’s own resources,
and the carbon tax, the tax on financial transactions, and the new European VAT should
be its key components. The proposals already put forward by the Commission with regard
to the carbon tax and the tax on financial transactions are, indeed, essential elements of
the “plan” and their adoption would secure it the funding it needs.
The carbon tax, moreover, could push the economic system in the direction of
sustainable choices; in addition, it is compatible with transitional measures aimed at
increasing the tax on goods imported from areas that have not adopted similar measures.
The tax on financial transactions, on the other hand, could be exploited as a means
to ensure that the change of economic system is socially sustainable in the transition
phase, as it would allow significant refinancing of the European Globalisation Adjustment
Fund (whose tasks would be redefined) and the shifting of at least part of the tax burden
from unskilled and precarious labour to financial income.
The launch of the “plan”, with its common European taxation measures, should be
accompanied by a reduction of the costs currently sustained by the single member states
in areas of joint action.
In order to guarantee that resources are used with the utmost transparency and
efficiency, it would be necessary, wherever possible and certainly in the field of research
into new energy sources, to activate specific programmes and, where appropriate, to
create agencies to oversee the use of the funds.
Since its main purpose would be to stimulate investment, the “plan” would have to
include major multiannual projects and the financing should cover a number of years. This
would mean starting to issue European project bonds and involving the EIB in the
preparation and management of the said investments. These would be implemented
through an “Assets Fund” which would retain ownership of the investments made (in areas
funded by the “plan”), thereby ensuring the availability of resources for future generations
– resources that would also be generated by deferred income on these investments.
Financial aspects
The tax on financial transactions would have to generate around EUR 30/40 billion
of additional resources for the European budget in order to guarantee adequate funds for
research and for the refinancing of the “fund “set up by the Commission in 2006 to cope
with the difficulties created by the adjustment of the labour market to globalisation. This
would bring the EU budget close to the ceiling (1.27 % of GDP) previously agreed
between the member states.
In past expansionary cycles Europe managed to create over 15 million new jobs.
The present “plan”, being designed to boost competitiveness, particularly of the services
sector, thereby halving the current unemployment rate, should allow the creation of at
least 20 million new jobs.
The investments envisaged by the “plan” should amount to at least EUR 300/500
billion, to be paid over 3/5 years. To cover the issuance, by the EU, of European project
bonds or guarantees, the carbon tax would have to be capable of generating income in
the order of at least EUR 50 billion/year. The use of the carbon tax to support the
investment plan in the start-up phase would be entirely justified by the fact that the tax
itself would tend to diminish as the European economy – also thanks to the proposed
“plan” – made greater use of non-CO2 generating energy sources.
At the end of the “plan” the Union would have assets probably worth at least twice
the investments made, thereby guaranteeing the upcoming generations adequate support,
rather in the way young Norwegians benefit from a state pension fund fed by oil revenues;
in this case, however, the revenues would come from the new energy sources created
under the “plan” through investments and research spending. In particular, the “Assets
Fund” could support the entry of young Europeans into the working world, through
community service projects aimed at young people who have come to the end of their
studies (along the lines of the “Erasmus” projects), training projects geared at eliminating
the phenomenon of insecure employment, and projects promoting self-employment and
the development of youth entrepreneurship.
Partial or complete activation of the “plan” by a group of member states
To guard against the possible emergence of insurmountable difficulties precluding
the participation of all the states, provision must be made for the possibility of a group of
states (probably the eurogroup and other interested member states) pressing ahead with
the “plan” without the others. This could be done by applying the rules on enhanced
cooperation, as already envisaged by the recent “Euro Plus” proposals on competitiveness
presented by the German government.

Il collo della Giraffa

di Michele Mezza

Perchè Renzi oggi è come Tony Negri ieri.

Ci si accapiglia sulle candidature all’interno del PD. In realtà è un pacchiano tentativo di qualche boiardo di posizionarsi di fronte al prossimo leader.Ma perchè Renzi appare irresistibile? e perchè nel caso solo Letta potrebbe in qualche modo contrapporsi? In sostanza perchè sembra esaurirsi la vena delle personalità provenienti dalla cultura comunista, o più in generale della sinistra del lavoro?

Io penso che si tratti di una svolta drastica, e inevitabile. Renzi oggi è forse il vessillifero di una leva di personalità che si distaccano dal tronco della sinistra in virtù della capacità di leggere e interpretare il nuovo.

Non è la prima volta che accade.

Togliatti usava per definire il PCI la metafora della Giraffa, come abbiamo rilevato nel libro Avevamo la Luna: un partito ben piantato nella società, con zampe forti, ma un lungo collo che gli permette di vedere lontano. Ad un certo punto questo collo sembra entrare in conflitto con le zampe.

Il momento in cui ciò diventa esplicito è proprio quello che nel libro chiamiamo il cronotopo del 62. In quell’anno virtuale che inizia nel gennaio del 1960,con la prima giunta di centro sinistra a Milano, continua con i moti del 60/62, con i ragazzi dalle magliette a strisce in piazza, si allunga nel concilio vaticano II, e poi nel convegno del Gramsci del marzo 62, per concludersi , il 31 agosto del 1964 con la cessione della divisione elettronica dell’Olivetti, il cui profeta Adriano, già nel 59 parlava di informatica come tecnologia di libertà, la sinistra italiana si trova spiazzata da uno sviluppo tecno sociale che indica chiaramente come la fabbrica non sia l’ordinatore del paese.

Sappiamo bene come andò allora: l’apparato ideologico del partito rimase al riparo della cultura togliattiana che intrecciava l’ideologismo piccolo borghese con una matrice di aristocrazia operaia sempre più anacronistica. Un equilibrio che salvaguardò il partito dalle degenerazioni sovietiste, guidandolo nei meandri di una geopolitica in cui si alternava il legame con Mosca alla natura nazionale del partito. Un capolavoro diplomatico che comportò la rottura dell’osso del collo. Infatti chiunque cercava di inerpicarsi lungo la propaghine della giraffa, veniva fatto ruzzolare.

Trentin a Magri , per citare i due più brillanti eterodossi disciplinati, che si piegano alla logica internazionale, e congelano le loro visioni sul neo capitalismo. Proprio Magri, nel suo Libro il Sarto di Ulm, riprendendo quel dibattito così riassume la sua posizione:
La più grande novità che il capitalismo ha introdotto nella storia della società riguarda certamente il lavoro: da un lato la progressiva trasformazione di tutto il lavoro vivo in salariato, l’incorporazione incessante del lavoro vivo in capitale sua incorporazione in un sistema di macchine. Un’occasione storica assolutamente nuova si offre per la liberazione umana: sia come liberazione dal lavoro che come liberazione del lavoro.

Un’intuizione costata cara a Magri. Ancora più cara costò la lucidissima intuizione di Romano Alquati che con i primi sociologi socialisti nel 62 aveva progettato una preveggente con ricerca sul lavoro operaio all’Olivetti, da cui si ricavava che nella nascente informatica ogni operaio tendeva a diventare auto-imprenditore di se stesso. E ancora più tardi Tony Negri, prima della deriva insurrezionalista, comincia a ragionare sulla dissoluzione della fabbrica e le nuove forme di conflitto capitale cittadino. Tutti questi colli di giraffa vengono mozzati, perchè insidiosi nella loro tenace intelligenza in grado di svelare che il re leninista era già nudo 40 anni fa. Non parliamo poi di quelle ridicole protesi in miniatura che furono i gruppi del decennio 70/80, che equivocarono il tramonto della centralità operaia per l’alba di una possibile rivoluzione in occidente, lasciando nel frattempo campo libero a chi, attraverso il vero scambio consumo consenso, cominciava a costruire il proprio impero, in America con il computer, in Italia con la TV. Ora siamo dinanzi ad un nuovo collo che si protende: Renzi infatti non appare molto diverso dal Tony Negri di metà degli anni 60: anch’egli intuisce un cambio di paradigma e dannunzianamente butta il suo cuore oltre l’ostacolo, perchè si vede solo.
Le zampe del partito di massa sono ormai tutte ingessate: questa è forse l’unica speranza che ci rimane per confidare che non finisca anche questa volta come 50 anni fa.

Oggi Renzi a differenza di Trentin, Magri, e Alquati, dispone di una base sociale diversa: intraprendente, autonoma e autoorganizzata con la rete. Non dispone ancora di un pensiero lungo, di un modello di valori e di conflitti adeguati. Sta a quello che rimane della sinistra giocare la partita: dare un’anima modernamente alternativa alla sensibilità digitale di Renzi. Senza rimpiangere giraffe e giaguari. Lo zoo è chiuso, per fortuna.

L’ipoteca dei centri per l’impiego sul lavoro

di Francesco Grillo

È di sicuro un grande successo per Enrico Letta quello di essere riuscito a mettere al centro dell’agenda della politica italiana ed europea la questione della emarginazione di milioni di giovani: del resto è questo il segno più negativo della situazione che viviamo, perché lo spreco di tanto capitale umano significa bruciare il futuro di tutti. Se non mettessimo, però, subito mano ad una profonda riorganizzazione della infrastruttura attraverso la quale la domanda e l’offerta di lavoro si incontrano, rischieremmo di ritrovarci nella posizione di chi vuole svuotare un mare di problemi con un secchiello con un buco sul fondo.

Se davvero il governo Letta vuole chiudere la fornace del nulla che ha ingoiato così tante speranze, la sfida da vincere è, adesso, quella della costruzione di un sistema di valutazione delle politiche per il lavoro che renda responsabile dei risultati chiunque gestisce le risorse che abbiamo così faticosamente aumentato, e lo Stato in grado di allocarle a chi le gestisce meglio. È questione più tecnica che politica ed è alla portata della competenza che il Ministro Giovannini esprime. Ma mette in discussione interessi diffusi e se non la risolviamo, il miliardo e mezzo messo a disposizione per la disoccupazione giovanile finirebbe con il far, tutt’al più, sopravvivere una rete di servizi per l’impiego e qualche agenzia di formazione che, soprattutto nel Mezzogiorno, serve solo ad evitare la disoccupazione di chi ci lavora.

In effetti, alla infrastruttura pubblica alla quale è affidato dal Consiglio Europeo la realizzazione della garanzia per i giovani, tocca un destino – comune a molte altre amministrazioni pubbliche – che è persino peggiore dell’essere semplicemente inefficienti: dei centri per l’impiego non ne sappiamo, infatti, praticamente nulla. Lo dimostra, del resto, un documento redatto dalla Commissione Europea nel Luglio del 2012 che confrontava le reti dei servizi per l’impiego di tutti i Paesi europei su una serie di indicatori: la riga degli indicatori relativi all’Italia è – assieme a quella di Malta e Romania – completamente vuota perché, si legge, “non esistono valutazioni sistematiche e le Regioni vanno ognuna per i fatti suoi”.

Qualcuno al Ministero sa che esistono cinquecentotre uffici del lavoro; in aggregato si sa che essi però contribuiscono alla creazione di meno del cinque per cento dei nuovi lavori; l’esperienza, infine, di chiunque abbia approcciato i servizi pubblici per l’impiego in Inghilterra o in Belgio e abbia fatto il confronto con l’Italia, racconta quanto sia forte il ritardo italiano in termini degli strumenti specifici (bilancio delle competenze degli individui, diagnosi dei bisogni delle imprese, sistemi informativi, formazione, ..) che altrove vengono usati per riportare giovani e anziani nel mondo di chi ha un impegno.

Questo ritardo spiega – molto di più della crisi – il record italiano nel numero di giovani completamente inattivi, visto che, del resto, tre quarti di chi è in questa situazione lo era anche prima dell’inizio della recessione. E, tuttavia, aldilà, della generica consapevolezza del problema, delle denunce periodiche da parte di magistrati, giornalisti e politici, non abbiamo nessuno dei parametri che servono per aggredire il problema.

Non sappiamo quante sono le persone che lavorano nei centri. Centri che, peraltro, furono qualche anno fa, per motivi oscuri, spostati dalla competenza del Ministero a quella di quelle Province che dovrebbero, prima o poi, scomparire. Non sappiamo quante ore di formazione o di consulenza individuale vengono erogate. In queste condizioni, nulla sappiamo evidentemente del costo unitario di un’ora di formazione distinguendo, eventualmente, per il tipo di competenza che si vuole trasmettere: anche se ciò sarebbe fondamentale per identificare sprechi e recuperare soldi da reinvestire altrove.

Ancora peggio, però, c’è che niente possiamo dire delle caratteristiche di chi usa la struttura pubblica. Nei Paesi del Nord Europa, le persone maggiormente occupabili si rivolgono ai privati, mentre al pubblico si avvicina, invece, chi ha maggiori problemi – i giovani che hanno rinunciato agli studi, gli immigrati, chi deve affrontare una situazione di disagio o di abilità limitata – e chiede, dunque, al pubblico competenze molto più sofisticate. Bisognerebbe organizzare un coordinamento tra soggetti pubblici e privati, e, però, mancano le informazioni necessarie per riuscirvi.

Infine, quasi niente sappiamo dei risultati finali. Pochissime Regioni (Piemonte, Emilia Romagna, ..) hanno gli strumenti per registrare il numero di persone che trovano lavoro dopo un corso di formazione, in maniera da poter considerare di selezionare e pagare i formatori sulla base dei risultati. E non più di complicati adempimenti burocratici che servono solo a spaccare il mercato in tanti, piccoli territori protetti.

Non sono molti mille euro in due anni per ciascuno del milione e settecentomila giovani italiani che non studiano e neppure lavorano per garantire, come chiede la risoluzione del Consiglio Europeo, a ognuno di essi almeno quattro mesi di assistenza. Usando, però, in maniera intelligente gli altri quindici miliardi di Fondo Sociale Europeo che le Regioni italiane dovranno cominciare a spendere a partire dal Gennaio 2014, tali risorse potrebbero moltiplicarsi se si rilevassero efficaci.  

La decisione del Consiglio si chiude, però, prescrivendo l’obbligo da parte della Commissione e degli Stati di monitorare l’efficace utilizzazione delle risorse messe a disposizione dei più giovani. Il Ministro del Lavoro Enrico Giovannini, ha nella propria esperienza professionale – prima all’OECD e poi come Presidente dell’ISTAT – la consapevolezza di quanto sia indispensabile valutare prima di poter spendere risorse pubbliche scarse su problemi così esplosivi. È questa la partita – più silenziosa e concreta di quella che si gioca ai vertici europei – che deve vincere chi volesse provare a riuscire dove sono falliti tutti i precedenti Governi negli ultimi vent’anni.

Verso gli Stati Generali degli Innovatori Europei

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Come promesso in conclusione della Assemblea nazionale di Febbraio,  stiamo cominciando ad organizzare gli Stati Generali degli Innovatori Europei, che si terranno alla fine di Settembre a Roma, probabilmente alla Camera dei Deputati.

Avevamo concluso dicendo che “rimanendo nell’area del centrosinistra, in cui è nato e cresciuto, Innovatori Europei apre al confronto con le tante realtà politiche portatrici di innovazione, rimandando agli Stati generali degli Innovatori Europei”. Così è stato.

Negli Stati Generali degli Innovatori Europei discuteremo le nostre proposte sulle politiche di innovazione necessarie al Paese, a partire dai temi che da sempre seguiamo, e su cui avevamo dibattuto a Febbraio:

 “Nuovo welfare nei territori”

 “Innovazione politica e istituzionale”

“Un futuro sostenibile per le città smart”

“Innovazione e made in Italy”

“Stati Uniti di Europa”

“La nuova Europa nel mediterraneo”

“Opportunità per le comunità italiane all’estero”

“Pluralismo radiotelevisivo e conflitto d’interessi”

“Italia e Paesi BRICS”

“Cultura e sviluppo”

e altre.

Stanno ripartendo tutti i gruppi di lavoro. Vi invitiamo a parteciparvi, scrivendoci a infoinnovatorieuropei@gmail.com

Il 13 luglio facciamo un primo brainstorm a Roma. Vi aspettiamo.

Gli Innovatori Europei

www.innovatorieuropei.org

#SGIE

Spaziando. L’innovazione sociale può salvare il nostro sistema socio-sanitario

di Giuseppina Bonaviri  su L’Inchiesta di Frosinone

La rimessa in discussione delle prestazioni sociali per i limiti imposti dai governi alla spesa pubblica richiede l’ottimizzazione delle risorse disponibili sia professionali che finanziarie e l’apertura all’innovazione dei modelli organizzativi che fin qui si sono utilizzati. Ipotizzare spazi di innovazione nel sociale significa poter intervenire su contesti diversificati: dalle condizioni di lavoro e formazione degli addetti, al ruolo del pubblico nel rapporto con le comunità locali chiamate a partecipare alla costruzione di una rete di servizi di base meglio conosciute come prossimità.

La trasformazione sta già avvenendo nel settore socio-sanitario e dell’assistenza domiciliare: sarà doveroso, per tutti i cittadini, prenderne consapevolezza anche per la quantità di risorse finanziarie che si immettono in questi servizi e per le prestazioni che garantiscono.

Nel Lazio sono numerose le esperienze innovative attive e che si sono ben innestate nel sistema sociale. Considerarle anche nel nostro contesto territoriale, non solo per ridurre i margini d’insuccesso che qualunque processo può comportare, vuol significare migliorare la conoscenza del  percorso di modernizzazione della società.

Si possono suddividere le suddette esperienze in due “ecosistemi” . 

Il primo costituito dalle organizzazioni non lucrative di carattere imprenditoriale che per missione operano in alcuni settori chiave del welfare: servizi socio-assistenziali e sanitari, educativi, inclusione sociale e lavorativa. Sono oltre 6.200 le organizzazioni che operano nella Regione Lazio attraverso le tre forme giuridiche di tipo non profit che con diversi livelli d’intensità hanno sostenuto lo sviluppo dell’imprenditoria sociale in ambito non profit. Si tratta di cooperative sociali (Cs), organizzazioni di volontariato (OdV) e associazioni di promozione sociale (APS). Il Lazio si caratterizza ad oggi soprattutto per lo sviluppo di cooperative sociali “miste” che operano sia producendo servizi che organizzando attività d’inserimento lavorativo.

Il secondo ecosistema considera, invece, una più ampia platea di fornitori di servizi rispetto alla quale i soggetti non profit rappresentano una parte con la compresenza di soggetti fornitori individuali o grandi multinazionali e che si articolano per la tipologia dei beni prodotti e i modelli di servizio: il “terziario sociale”. Secondo alcune rilevazioni che riguardano il III trimestre 2012 sono 115.000 le imprese che nel Lazio, operano nei principali settori di attività: il 52% produce beni e servizi di tipo culturale, artistico e ricreativo mentre il 27% si occupa di sanità ed assistenza ovvero  attività più prossime al welfare sociale; la parte restante opera in campo formativo-educazionale. Le dimensioni di questo fenomeno lasciano intravedere come l’impresa sociale agisce in qualità di reale agente d’innovazione e di sviluppo economico nel campo del welfare sociale. La sfida del sociale procede col suo tempo più impegnativo e urgente, adesso. La capacità di produrre senso e sintesi  sapendo coinvolgere le forze politiche‚ dai Comuni alla Regione per una salvaguardia qualitativa dell’azione‚ della dignità del lavoro, della equità dei diritti, delle famiglie saprà così meglio tutelare le aree di abbandonato umano anche mentre la crisi le impoverisce e ricatta.

 

Una riforma del lavoro che punisce la competenza è inaccettabile.

Dispiace dirlo ma questa della agevolazione per assunzioni con contratti a “tempo indeterminato” SOLO SE si è under 29 – over 50, senza alcuna riflessione sulle “competenze” dei lavoratori, non si capisce.

Anzi rischia di cacciare dal mercato le vere professionalità, che solitamente sono quasi sempre “a tempo determinato”, per puri ragionamenti di diminuzione di costi che da sempre attraggono i “saggi” imprenditori e datori di lavoro italiani, ancora di più in tempi di crisi.

Se poi è vero che le assunzioni (a tempo indeterminato!!) degli under 29 sono solo per chi” sia privo di impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi o sia privo di un diploma di scuola media superiore / professionale o vive solo o con una o più persone a carico”, in una knowledge based society a cui da decenni tendiamo inutilmente, questo è un brutto esempio di policy making.

Un po’ più interessante è l’idea di agevolare gli imprenditori che assumono lavoratori in cassa integrazione (non solo over 50, noi diremmo), in questo modo ragionando in ottica win-win tra Stato, impresa e lavoratore.

 
Speriamo allora che si corregga il tiro di questa riforma incompleta e si inserisca un “fattore competenza” in questa che, altrimenti, verrà ricordata come l’ennesima occasione sprecata o inutile.
 
E che si indirizzi questa riforma almeno ad un accenno di politica industriale orientata ai temi dello sviluppo sostenibile del Paese, ai lavori “verdi” e/o a quelli legati alle industrie tecnologiche del futuro.
 
Questo soprattutto quando, dalla Cina agli USA, passando per l’Europa, tutti riflettono sulla necessità di una nuova specializzazione produttiva legata alle competenze richieste dalle nuove industrie tecnologiche (si direbbe “hi tech“).
 
Ed in ultimo, diciamo pure che il problema italiano non è la mancanza dei contratti a tempo indeterminato. La nostra carenza ha a che fare con la competitività del sistema Paese, che è cosa molto più complessa, e richiede soluzioni di politica industriale ed economica strutturate e direzionate.

 

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