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La seconda fase dello sviluppo cinese offre nuove opportunità per l’Italia (nella Sanità)

 

 La sanità, ultimo treno per l’Italia verso la Cina

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 08 febbraio 2014

È ormai un luogo comune parlare con preoccupazione del rallentamento della crescita cinese. Anche qui a Pechino si scrive con un certo allarmismo che l’aumento dello scorso anno è stato il più basso dal 1990 e che peggiorerà ancora nell’anno in corso. Quando tuttavia analizziamo a fondo i dati statistici, vediamo che la crescita è stata nel 2014 del 7,4% e che, nell’anno in corso si manterrà al di sopra del 7%, anche secondo le più pessimistiche previsioni. Per un paese che ha raggiunto un livello di reddito abbastanza elevato questi dati valgono più della crescita a due cifre che ha accompagnato la prima fase dello sviluppo cinese.

Le preoccupazioni non possono perciò nascere dal tasso di crescita del PIL che, nonostante il suo rallentamento, fa invidia a tutti, ma dalle decisioni politiche che il paese deve affrontare nel prossimo futuro per proseguire a correre a ritmo sostenuto e completare quindi il processo di modernizzazione iniziato quasi quarant’anni fa.

Il governo cinese si è recentemente imposto il compito di cambiare quello che noi definiamo un “modello di sviluppo” fondato sugli investimenti e sulle esportazioni, per passare ad una crescita più equilibrata, con un aumento dei consumi e del ruolo del mercato interno.

L’inizio di questa nuova strategia ha comportato una politica monetaria più prudente e un controllo di una “bolla immobiliare” che rischiava di fare salire al cielo il tasso di inflazione. Il governo ha perciò dovuto mettere mano al freno.

Il crollo del prezzo del petrolio e delle materie prime, delle quali la Cina è il massimo importatore, ha reso più facile questo riequilibrio dell’economia e, nello stesso tempo, ha provocato un progressivo rallentamento dell’aumento dei prezzi. L’inflazione è oggi al livello minimo da molti anni, per cui sono oggi possibili gli stimoli all’economia che fino a poche settimane fa rischiavano di innestare un processo inflazionistico.

Anche se può sembrare strano, un ulteriore elemento ha influito sulla minore crescita degli ultimi mesi: la lotta contro la corruzione, iniziata in grande stile dal presidente Xi. Una lotta che ha portato ad una diminuzione degli acquisti di un’ampia gamma di beni di lusso che costituivano uno dei rifugi più praticati dei proventi della corruzione.

Una lotta contro la corruzione che non solo esercita i suoi effetti nelle boutique dei beni di pregio ma che è l’oggetto principale delle conversazioni di Pechino, perché ha già portato veri e propri sconvolgimenti nelle cariche dello stato, nell’alta burocrazia e nel potente ambiente dei dirigenti delle imprese pubbliche. Una guerra fondata sulla convinzione che la corruzione era così diffusa da divenire un impedimento per lo stesso sviluppo economico della Cina. Una guerra, tuttavia, che può essere definitivamente vinta solo attraverso una maggiore indipendenza della magistratura dal potere politico. Un obiettivo solennemente annunciato dal Presidente Xi ma che si presenta ancora di difficile attuazione.

Dato per condiviso il fatto che la nuova fase di crescita non può consolidarsi senza un aumento dei consumi interni, è anche diventata dottrina comune che, senza un miglioramento della protezione pensionistica e sanitaria, i cittadini cinesi saranno ancora obbligati a risparmiare e non a spendere.

Si aprono quindi, almeno in teoria, nuove forme di possibili collaborazioni con noi europei, dato che il sistema sanitario americano, che fino ad ora è stato ed è ancora il principale se non esclusivo punto di riferimento dei cinesi, è intollerabilmente costoso, pur non offrendo una copertura universale, che è invece il fondamento dei migliori sistemi sanitari europei.

Se vogliamo fare un confronto che tocca direttamente il nostro paese dobbiamo ancora una volta ricordare che, nonostante tutti i rilievi che si possono compiere, il costo della sanità italiana è tra i più bassi d’Europa (spendiamo infatti tra il 7 e l’8% del nostro PIL) e noi italiani viviamo in media quasi quattro anni di più degli americani che spendono invece intorno al 17-18%.

Ebbene in questi giorni è in visita ufficiale a Pechino il primo ministro francese Valls e leggiamo che, nel contorno di questa visita, si è intensamente parlato di una strategia di cooperazione fra il sistema sanitario francese e quello cinese.

In Cina, per la debolezza delle nostre strutture, abbiamo lasciato agli altri ( cominciando dai nostri amici francesi) l’organizzazione delle moderne catene distributive. Non siamo ovviamente presenti nelle strutture alberghiere dove americani, asiatici e altri europei fanno da padroni e siamo quasi assenti dalle organizzazioni professionali e di consulenza che raggiungono ormai fatturati astronomici. Mentre cioè le nuove realtà, a partire da quella cinese, fondano la seconda fase del loro sviluppo sui servizi, noi praticamente non esistiamo, anche se i più alti profitti si realizzano soprattutto nel settore terziario. Non vedo tuttavia perché l’Italia non cerchi di recuperare parte del terreno perduto almeno nei campi, come quello sanitario, nei quali vi è ancora spazio per una nostra presenza. Non si tratta solo di prestigio (anche se il settore sanitario contribuisce tanto all’immagine di un paese) ma di una realtà che mobilita enormi ricadute economiche.

Certo tutte le nostre regioni (che hanno la competenza in materia sanitaria) hanno una dimensione nettamente inferiore a quella di una qualsiasi metropoli cinese, ma si dovrà pure trovare il modo di essere presenti con l’intero pese nei settori nei quali si può entrare solo se si opera in modo efficiente, integrato e capace di dialogare in modo paritario con le strutture pubbliche cinesi.

Operando in modo disperso e senza un sistema distributivo alle spalle abbiamo fino ad ora perso anche la gara del mercato del vino. La nostra insufficiente presenza in Cina è soprattutto affidata ad alcune medie imprese specializzate nella loro nicchia di mercato. Pur nei limiti della loro dimensione queste imprese stanno facendo grandi cose. È tuttavia ora di affrontare anche le sfide nelle quali si deve impegnare l’intero paese. La sanità, pur con infinite difficoltà, è ancora una sfida alla nostra portata.

«Questa Ue non va, ha paura del futuro»

Intervista di Romano Provi ad Avvenire

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Parte da un’immagine Romano Prodi.  Davanti a lui c’è un gruppo di studenti cinesi, uno alza la mano e lo interroga: cos’è l’Europa?  È un laboratorio oppure è un museo? Prodi pesca nella memoria  e risponde oggi come rispose allora: «È il più grande laboratorio politico della storia, ma troppo spesso è incapace di guardare al futuro. È un laboratorio smarrito, timido, timoroso, e il rischio è girare  il volto all’indietro come fosse  un museo». Quando il treno Roma-  Bologna comincia a correre, l’ex presidente della Commissione Ue ci racconta vizi e virtù del Grande Progetto.  Con realismo e con durezza. «È stato  un percorso straordinario. Siamo partiti  con sei Paesi, siamo arrivati a ventotto.  Paesi che hanno unito un pezzo importante  del loro futuro…». Una pausa leggera  precede una nuova riflessione: «… Ora  è come se avessero paura del futuro stesso. Ma la scommessa è andare avanti,
non arretrare».
Ci crede?
Negli ultimi anni non è stato così e non sono  ottimista. L’economia non ha girato e non gira: siamo stati il malato del mondo, siamo cresciuti poco, non abbiamo offerto  lavoro ai giovani, le disparità tra i Paesi  e all’interno dei Paesi sono aumentate. Sì, spesso penso ai giovani, a quei giovani che sono sempre anche nei pensieri del Papa. Vorrei raccontare l’Europa cominciando  con la pace, ma loro vogliono risposte  sul futuro e capiscono di più temi come crescita e solidarietà. In quelle due parole c’è la loro vita.
C’erano quelle parole nel Dna della Ue…
C’era la volontà di far camminare parallelamente  sviluppo e solidarietà nella testa  dei padri fondatori. Ma oggi dov’è la solidarietà se i leader europei dicono che spendere così tanto per il welfare è la condanna  dell’Europa? La difesa del più debole  era tra i principi fondamentali dell’Unione  e oggi? Si sta tradendo un disegno, è un voltafaccia terribile e pericoloso.
È quasi un atto d’accusa?
Serve verità per voltare pagina. Tutti ci vedono  come una società vecchia,  chiusa in se stessa, raggomitolata  sul passato. Ora o  respingiamo questa analisi ma  a me pare terribilmente difficile  – o cominciamo davvero  a riflettere e cerchiamo i rimedi  per trasformare l’Europa in  laboratorio. Se poi lei mi da elementi  per dire che l’Europa  in questo momento è dinamica,  solidale, con un disegno comune,  io cambio giudizio. Ma  lei non può darmi questi elementi  e allora insisto: bisogna riflettere sulle mancanze di oggi per preparare il salto in avanti che ci permetta di fare bene  domani. Se non ci rendiamo conto della  realtà non possiamo nemmeno avere l’urgenza necessaria per vincere egoismi e differenze di interesse.
Crede che la nuova commissione possa imprimere il cambio di passo?
Vedo elementi di conservazione. Tanti, troppi. Quando penso che le politiche più coraggiose vengono prese da un organismo  tecnico come la Bce vuol dire che la politica ha paura di fare fino in fondo il suo mestiere. Molto non va. I falchi del rigore hanno ancora molto potere e non si rendono  conto che proprio il rigore sarebbe una grande virtù se accompagnato da una  condivisione di obiettivi per avanzare verso il futuro. Non è così. E soprattutto non è più il momento di fare i maestrini, di dimostrare che si è meglio dagli altri; è il momento del Progetto e della Solidarietà.
Però il laboratorio è smarrito. E intanto l’Europa dà anche l’impressione di arretrare  sui valori, di non difendere la vita.
Sono 28 Paesi con valori diversi, con sensibilità  diverse: nel complicato Parlamento  trovare linee comuni, convergenti,  sembra una sfida impossibile. Una riflessione  culturale collettiva su questi temi  è ancora più complicata, ma il Papa anche su questo può offrire spunti di riflessione  forti. Richiamare ai valori fondamentali  è decisivo. Non si può pensare  a una condivisione immediata, ma l’Europa ha un disperato bisogno di riflettere,  di interrogarsi, di riscoprire la solidarietà.  C’è bisogno di parole profetiche,  ma anche cariche di concretezza. Per strappare la scena a contrapposizioni  astratte e spostare il dibattito sui destini dell’uomo.

La scossa di Prodi al premier: non abbia paura, ora tenti una sortita

Romano Prodi (Epa)Romano Prodi (Epa)

BOLOGNA – Professor Prodi, l’Italia vive uno dei momenti peggiori del dopoguerra. E il sogno europeo appare infranto, con la Germania che vuole farla da padrone. «Non è che vuole: la Germania la fa da padrone. E continua per la sua strada, anche se molti osservatori, tedeschi e non tedeschi, pensano che l’eccessivo surplus renda il rapporto di cambio dell’euro insopportabile per gli altri Paesi. Un surplus minore aiuterebbe l’economia di tutta l’Europa».
L’euro è troppo forte per noi? «Oggi siamo quasi a 1,40 sul dollaro. Fossimo a 1,10, anche 1,20, saremmo in una situazione ben diversa».
L’euro era stato pensato per valere un dollaro? «Più o meno. Ricordo, quand’ero presidente della Commissione europea, gli incontri annuali con il presidente cinese Jiang Zemin. Avevamo dossier alti una spanna, ma a lui interessava solo l’euro. Gli consigliai di comprarne come riserva. All’inizio il valore dell’euro crollò a 0,89 rispetto al dollaro e, quando tornai da Jiang, avevo la coda fra le gambe. Ma lui mi rasserenò subito: “Lei pensa di avermi dato un cattivo consiglio, ma io continuerò a investire in euro. Perché l’euro salirà. E perché non mi piace un mondo con un solo padrone: sono felice che accanto al dollaro ci sia un’altra moneta”. A causa degli errori europei, l’altra moneta accanto al dollaro sta diventando lo yuan. Le divisioni europee ci hanno fatto perdere occasioni enormi. Vai in Medio Oriente e ti senti dire: “Siete il primo esportatore e il primo investitore, ma non contate nulla”. Non c’è un grande problema internazionale in cui l’Europa abbia contato qualcosa».
Alle elezioni del 25 maggio si profila un successo delle forze antieuropee. Può essere una scossa? «Lo sarà senz’altro. Questa del resto è la storia d’Europa. L’Unione ha sempre avuto uno scatto dopo le crisi. La prima volta accadde con la “sedia vuota” di De Gaulle. Oggi la sensazione è ancora più forte perché abbiamo sul collo il fiato della Cina, dove fortunatamente il costo del lavoro continua a crescere. Anche se rimangono ancora grandi differenze nel costo della mano d’opera standard, oggi Unicredit paga i neolaureati di Shanghai come quelli di Milano. Dobbiamo ritrovare una politica europea comune, se vogliamo avere ancora una leadership. Occorre ribaltare la situazione. Nelle svolte del mondo bisogna essere i primi a capirle».
L’Italia si impoverisce. Eppure non c’è rivolta sociale. Perché? «Perché la perdita del lavoro avviene goccia a goccia: infinite gocce che fanno molto più di un fiume, ma non fanno una rivoluzione. È un fenomeno mondiale: la frantumazione della classe media; la jobless society ».
La società senza lavoro. «Si distruggono i lavori di medio livello. Disegnatori. Segretarie. Praticanti degli studi legali. Cassieri. Impiegati delle agenzie di viaggio o degli sportelli bancari e assicurativi. L’altro giorno parlavo con il responsabile di una grande banca. Gli ho chiesto se tra dieci anni i dipendenti saranno più o meno della metà rispetto a oggi. Mi ha risposto che saranno molto meno della metà. Aumenta la disoccupazione diffusa, cui si cerca rimedio con i “minijobs”: spezzoni di lavoro pagati sotto la soglia di sussistenza. Ma quando tagli la fascia media, si distanziano non soltanto i redditi; si distanziano due parti della società. Si salvano solo gli innovatori. Non a caso gli Stati Uniti, patria dell’innovazione, vanno meglio di noi».
Perché proprio l’Italia è il grande malato d’Europa? «Perché non agisce come un Paese unito. I problemi aperti esigono una risposta corale. Invece la società è frammentata. Il governo ha una cronica mancanza di autorità. I sindacati si saltano gli uni con gli altri, sono divisi anche all’interno della stessa organizzazione, e la Confindustria è stata sempre ben contenta di dividerli. Tra sindacato e grandi imprese ci sono tensioni, come alla Fiat, che non si sono viste in nessuno stabilimento europeo. Il problema non è il costo del lavoro: in Spagna è inferiore di appena il 7%; in Germania è superiore di oltre il 50%. Il problema è il modo in cui si lavora. È la paralisi del sistema produttivo. È la mancanza di una politica industriale».
Che valutazione dà del Jobs Act di Renzi? «La direzione è quella buona. Ma bisogna tradurla in decisioni concrete. Devono capirlo tutti: il potere politico, i sindacati, le imprese. In questi anni si sono aperti molti tavoli di concertazione; la frammentazione li ha uccisi tutti».
Voi varaste il pacchetto Treu. «Sì, noi usavamo l’italiano e lo chiamammo pacchetto». Oggi a Palazzo Chigi c’è un suo allievo, Enrico Letta. Quale consiglio gli darebbe? «Di tentare una sortita. Di prendere iniziative anche contestate. Di non avere paura di mettersi in una controversia».
In un articolo sul «Messaggero » lei ha ricordato che il potere pubblico è intervenuto ovunque in difesa dell’industria dell’automobile, dalla Spagna agli Stati Uniti, tranne che in Italia. «È oggettivo che l’affare Fiat si sia concluso senza la voce del governo. E sull’Electrolux c’è stata solo una mediazione a posteriori».
Perché è andato a votare alle primarie del Pd? «Ho deciso il giorno dopo la sentenza della Consulta. Perché ho avuto paura che riemergesse una legge elettorale che rendesse impossibile governare il Paese».
La nuova legge le piace? Cosa pensa dell’attivismo di Renzi? «Non rispondo a questa domanda. Ho sentito il dovere di votare alle primarie come risposta a un’emergenza, non come scelta di tornare alla partecipazione. Il ruolo elettorale è un dovere civico, non significa proporsi o essere disponibili ad accettare una carica. Ho ritenuto che il Pd fosse indispensabile per evitare lo sfascio totale. Dopo di che non ho più preso parte alla politica attiva. Sarei solo di disturbo».
Perché? «Perché ogni azione sarebbe interpretata come appoggio all’uno o all’altro, come un disegno personale per un futuro che non esiste».
Non vuole fare il presidente della Repubblica? «No. Mi pare di averlo già chiarito in più di un’occasione. Il Paese è cambiato. C’è un nuovo mondo. Occorrono persone nuove che lo interpretino. La nuova politica, per linguaggio, contenuto, velocità, supera la mia capacità di comprensione. Non sono un uomo 2.0».
Lei ha raccontato una telefonata con D’Alema, nel giorno dei 101 franchi tiratori, da cui dedusse che sarebbe finita male. Come andò? «Fu anche divertente. Ero in riunione a Bamako, in Mali. C’era un’atmosfera distesa. France Presse scriveva che stavo diventando presidente della Repubblica, tutti i capi di Stato africani mi facevano il pollice alzato. Io rispondevo con il pollice verso, perché sapevo già come sarebbe andata a finire. Avevo fatto le telefonate di dovere. Prima a Marini, poi a D’Alema, che mi disse che certe candidature non si possono fare in modo così improvvisato. Fu allora che chiamai mia moglie Flavia in Italia, per dirle di andare pure alla sua riunione, tanto non sarebbe accaduto nulla. Poi telefonai a Monti, che mi avvisò che non mi avrebbe votato perché ero “divisivo”. Infine telefonai a Napolitano perché ormai era chiaro come sarebbe andata a finire. Anche se mi aspettavo 60 defezioni, non 120: perché furono più di 101».
È stato scritto che lei è in contatto con Grillo e Casaleggio. È vero? «Mai avuto rapporti politici di nessun tipo, salvo quello di spettatore divertito. Grillo venne a trovarmi nell’81 a Nomisma, per discutere gli aspetti economici dei suoi testi. Nel 2007 mi fece un’intervista strumentale a Palazzo Chigi: all’uscita disse che dormivo. Avevo invece risposto a tutte le sue domande, spesso con gli occhi chiusi, come faccio d’abitudine quando penso, e il filmato lo dimostra. Casaleggio è venuto una volta a salutarmi a un convegno pubblico a Milano. Stop».
Come valuta il successo dei Cinque Stelle? «È un movimento di protesta che si manifesta in varie forme in tutti i Paesi europei, tranne che in Germania. La Merkel è stata molto abile ad assorbire il populismo, riassicurando i tedeschi a scapito del resto d’Europa. Anche per questo Italia, Francia e Spagna dovrebbero reagire presentando un programma alternativo nei confronti della Germania. Noi abbiamo gli stessi interessi, ma ognuno pensa di essere più bravo degli altri. Dai consigli europei si esce con le stesse decisioni con cui si è entrati».
La sua immagine pubblica è legata alla bonomia, alla fiducia. È raro trovarla così pessimista. «Io sono pessimista per poter essere ottimista. Il passaggio dal pessimismo all’ottimismo si ha solo attraverso un’azione politica forte e coraggiosa. L’unico fatto positivo di questa crisi drammatica è che sta maturando la consapevolezza dell’emergenza, e della necessità di cambiare. Sempre più ci si rende conto che c’è troppa gente che soffre. Finora la sofferenza arrivava alla Caritas. Ora si è affacciata persino al Forum di Davos. Anche se la finanza ha ripreso a operare come prima».
C’è il rischio di un’altra bolla e di un altro crollo? «Non ci sono state riforme fondamentali nel sistema finanziario. C’è più paura e quindi più consapevolezza ma non ci sono veri strumenti nuovi».
Nella storia italiana recente, e quindi nel declino del Paese, anche lei ha avuto un ruolo. C’è qualche errore che non rifarebbe? «Questa è una domanda inutile. Ci sono sfide che si affrontano sapendo perfettamente che si incontrerà la resistenza e la reazione del sistema, e quindi con buone possibilità di fallimento; eppure sono sfide che affronterei di nuovo».
Faccia un esempio. «La privatizzazione dell’Alfa Romeo. Trattai con Ford perché ritenevo necessario che ci fosse concorrenza. Arrivammo ad un progetto di accordo di grande respiro, però avvertii i negoziatori: se si mette di mezzo la Fiat, salterà tutto, perché si muoveranno i sindacati, le autorità ecclesiastiche, gli enti locali, insomma il Paese. Fu proprio quello che accadde. È vero che la Fiat offrì qualche soldo in più ma, in ogni caso, non vi furono alternative. I negoziatori della Ford conclusero dicendo: “Ci spiace molto; lei però ci aveva detto la verità”».
Le chiedevo di farmi l’esempio di un errore. «È un errore sopravvalutare le proprie forze. Ma penso che oggi l’Italia abbia bisogno di essere messa di fronte alle sue sfide. Per questo parlo di “sortita”. Verrà il momento in cui le sfide non si potranno non affrontare. Se hai un disegno, devi anche rischiare. E io credo di aver rischiato sempre. Non a caso, sia il primo sia il secondo governo Prodi sono stati fatti saltare. Anche se tra le due cadute c’è una bella differenza».
Quale differenza? «Nel 2008 il mio governo è caduto a causa della frammentazione politica e dei personali interessi di alcuni suoi membri ma, in ogni caso, era un cammino faticoso. Nel 1998 il mio primo governo è caduto perché andava bene. Non solo hanno buttato giù un ottimo governo, con Ciampi all’Economia, Andreatta alla Difesa, Napolitano agli Interni, Bersani all’Industria e poi Flick e Treu… Peggio ancora: hanno distrutto l’entusiasmo. E ci vuole più di una vita per ricostruire l’entusiasmo».
Rifarebbe pure il Pd? «Il Pd è l’unico punto di solidità del Paese. Ma se fosse andato avanti l’Ulivo avremmo avuto il Pd già quindici anni fa, e l’Italia non sarebbe sprofondata in questa crisi politica».

Collaborazione Europa-Russia per energia e innovazione

La Russia protagonista e la partita dell’energia

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 26 novembre 2013

E’ un Putin in piena forma quello che è arrivato in Italia. Non solo perché i rapporti fra Italia e Russia non sono mai stati intensi come oggi ma soprattutto perché il leader russo ha conquistato in poche settimane il ruolo internazionale che il suo paese aveva perduto dopo la caduta dell’Unione Sovietica.

Già da tempo era infatti tramontato il controllo sugli ex stati satelliti dell’Europa orientale, la maggiore parte dei quali ha trovato le porte aperte da parte dell’Unione Europea in quella che è stata l’ultima grande operazione di politica estera dell’Unione stessa.

Contemporaneamente era entrata in crisi la politica estera russa a livello globale, con una progressiva perdita di presenza anche nelle aree verso le quali l’influenza era stata maggiore fin dai tempi della guerra fredda, e cioè l’Africa e il Medio Oriente. La Russia sembrava essere fatalmente relegata al livello di potenza regionale di secondo grado.

Col colpo di fulmine della proposta di mediazione del caso siriano Putin si è improvvisamente reinserito nel grande gioco internazionale e lo ha fatto evitando gli aspetti conflittuali che avevano caratterizzato molte delle sue decisioni precedenti. E’ infatti rientrato attivamente al vertice della politica mondiale offrendo nello stesso tempo una via di uscita alla diplomazia americana che, da un lato, aveva posto un ultimatum a Bashar al-Assad riguardo all’uso delle armi chimiche ma, dall’altro, era riluttante ad aprire una nuova guerra, essendo gli Stati Uniti forti militarmente ma molto provati dai ripetuti conflitti nei quali l’America si era trovata coinvolta dalla guerra in Iraq in poi.

Una politica di ricostruzione del ruolo russo, ma senza aggiungere ulteriori tensioni rispetto a quelle, non certo secondarie, che esistevano con gli Stati Uniti e l’Unione Europea.

Una fase di collaborazione attiva che si è ripetuta nella ricerca di un accordo sull’infinito problema iraniano che, dopo decenni di attesa, ha trovato finalmente l’inizio di una soluzione non attraverso le sanzioni ma sul tavolo delle trattative.

Reso fiducioso da questi successi Putin ha iniziato un braccio di ferro con l’Unione Europea sul problema ucraino, forzando il governo di quel paese a non firmare gli accordi che dovrebbero essere sottoscritti nei prossimi giorni a Vilnius, accordi che Putin ritiene essere in contrasto con un’unione doganale che egli sta costruendo attorno alla Russia.

Su questa decisione mi sento di dissentire non solo perché, anche se alcune clausole sono da adattare profondamente, non ritengo affatto che le proposte europee e quelle russe nei confronti dell’Ucraina siano tra di loro incompatibili nel lungo periodo. Sono invece profondamente convinto che sia interesse di tutti (e soprattutto del popolo ucraino) che questo glorioso paese non sia oggetto di conflitto ma sia un ponte su cui fare correre i futuri rapporti tra Russia e Unione Europea, tanto sono profondi i legami dell’Ucraina sia con la nuova Europa che con la madre Russia.

Certo per arrivare a mettere in pratica quest’elementare verità bisogna che Russia ed Unione Europea si convincano della loro crescente complementarietà.

Si tratta di una complementarità che emerge forte ed evidente da una semplice analisi della realtà. Non vi è certo bisogno di sottolineare quanto noi dipendiamo dalla Russia per le fonti di energia ma credo che in modo altrettanto profondo (o forse ancora più profondo) la Russia dipenda dall’Europa.

I progressi economici del nostro immenso vicino sono infatti indubbi ma la dipendenza dall’energia è ancora troppo elevata per un paese che ha grandi ambizioni di trasformazioni interne e vuole giocare stabilmente un ruolo di attore internazionale. La modernizzazione delle sue imprese, in modo da utilizzare economicamente il grande patrimonio scientifico del Paese, si può ottenere soltanto con un rapporto di collaborazione con i paesi europei, così come questo rapporto è indispensabile per portare a termine la necessaria apertura del sistema finanziario.

Un grande paese come la Russia non può vedere condizionato il proprio futuro dai prezzi del petrolio e del gas che ora salgono e ora scendono e che potrebbero in futuro scendere anche per effetto del possibile rientro in gioco della produzione iraniana.

A questo si aggiunge il problema demografico che vede una prospettiva di forte diminuzione della popolazione russa, di fronte alla quale la modernizzazione del sistema produttivo diventa una necessità imprescindibile.

Ho già troppe volte ripetuto che Europa e Russia stanno insieme come la Vodka e il Caviale e che le tensioni come quelle create in questi giorni sull’Ucraina non giovano a nessuno, soprattutto se pesano sulle spalle di un popolo che ha già tanto sofferto in passato e che, non solo per le proprie tensioni interne ma anche a causa della partita internazionale che si gioca sulla sua testa, di sofferenze ne dovrà affrontare tante anche in futuro.

Proprio perché si sono aperte tante speranze e proprio perché vi sono ancora tanti problemi sul tavolo, l’incontro di oggi a Trieste tra Letta e Putin è molto importante, anche se probabilmente, dopo la colazione, la grappa prenderà il posto della Vodka.

Romano Prodi pone il tema della revisione del Fiscal Compact. Adesso, chi lo segue?

Romano-Prodi-300x177In una intervista di oggi al Quotidiano Nazionale, il presidente Prodi pone la questione della necessità della revisione del Fiscal Compact e della fine della politica di austerità.
Noi poniamo il tema della irrazionalità del Fiscal Compact – insieme a pochi altri gruppi associativi – fin dal suo voto “silenziato” alle Camere.
Ora è interessante verificare chi – a cominciare da PD e PDL – rilancerà questa “proposta” nel momento in cui la crisi dei mercati è al momento allentato e questa austerità non ha proprio più senso, quando ormai ha portato l’Europa alla deflazione.
Speriamo in tanti.

Bersani “segue” la linea Innovatori Europei: Romano Prodi Presidente della Repubblica

 di Massimo Preziuso

Sta andando a finire come qui dicevamo da mesi.
Bersani porta il Partito Democratico sulla linea del protagonismo.
Lo fa dopo essere passato, in maniera strategica, per “potenziali” scelte condivise, che erano chiaramente non fattibili.
Arriva alla candidatura di Romano Prodi alla Presidenza della Repubblica.
E con questa mossa finale ricongiunge le varie anime del Partito Democratico, date per disperse un giorno prima, che votano la sua proposta all’unanimità.
Per noi Innovatori Europei questa è una notizia straordinaria ed importante: la aspettavamo da mesi e la abbiamo chiesta in più luoghi.
Tra poche ore avremo il ritorno del fondatore del PD, nostro riferimento politico fin dal 2005-6, in Italia, al Quirinale.
E sembra che Prodi sarà votato anche da (almeno parte di) M5S e Scelta Civica. Un fatto importantissimo.
E mai direi mai che il supporto non arrivi anche da parte del PDL e della Lega.
E adesso il PD arriva al centro della scena, quale calamita attrattiva dei processi di cambiamento ed innovazione del Paese.
Finalmente!
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