Renzi
L’uguaglianza estrema
di Raffaele Simone su La Repubblica
Una delle rivendicazioni più insistenti di tutti i movimenti populisti d’Europa è quella della parità totale tra eletti e elettori. Anche il M5S ne ha fatto una delle sue bandiere. Ma a poco a poco quest’atteggiamento egalitario si sta estendendo a tutte le forme di distinzione. Anzitutto quelle funzionali: il capo dello Stato può essere apostrofato come un amico di bevute, gli avversari dileggiati con battute e nomignoli da osteria, le istituzioni trattate come rottami. Tutte le distinzioni si appiattiscono in un’orizzontalità assoluta. Anche il campo delle valutazioni tecniche complesse è colpito dal vento del “tutti uguali!”.
Sebbene il movimento sembri non avere nessun think tank (salvo qualche professore rancoroso), il suo leader e numerosi membri si producono in impegnative esternazioni anche su temi difficili, come la politica monetaria o quella europea. Su che dati si basano queste opinioni? Su che studi? Dagli argomenti del capo, sembrerebbero basati su nulla più di quel che si legge sui giornali o si dice in giro. Insomma, in politica le opinioni generiche cominciano a pesare quanto il sapere tecnico.
Le società democratiche, pur riconoscendo ai cittadini uguaglianza giuridica, civile e di opportunità, preservano gelosamente una varietà di distinzioni tra ordini e ranghi. Il magistrato non può essere sostituito da un comitato di cittadini, il professore dal più bravo dei suoi alunni, il medico da un portantino. Lo spirito di uguaglianza che sta alla base delle democrazie deve dunque ammettere dei limiti. Il grande Montesquieu nell’ Esprit des lois (1748) indicava con folgorante preveggenza che due sono gli eccessi da cui le democrazie devono guardarsi: «Lo spirito di disuguaglianza» ma soprattutto «lo spirito di uguaglianza estrema». Quest’ultimo si ha quando chiunque vuole essere «uguale a colui che ha scelto per comandare. Allora il popolo, non riuscendo a sopportare il potere che esso stesso attribuisce, vuol fare tutto da solo: deliberare per il senato, eseguire le sentenze al posto dei magistrati e esautorare tutti i giudici». Nella «democrazia regolata» si è uguali solo come cittadini; in quella che regolata non è si è uguali anche come «magistrato, come senatore, come giudice…». È chiaro che la richiesta populista di parità senza distinzioni è una delle facce della “uguaglianza estrema” descritta da Montesquieu. Il guaio è che lo spirito di egalitarismo totale dorme nascosto nei tessuti della democrazia, della quale è uno dei “nemici intimi” (secondo la felice formula di Tzvetan Todorov). Il principio democratico contiene infatti un’utopia insopprimibile: l’idea che individui diversi per mille motivi siano uguali dal punto di vista civile, giuridico e politico. Ora, basta prendere quest’utopia alla lettera, non ammettere che si tratta di una “finzione” operativa, per attivare un circuito che porta a rifiutare ogni sorta di distinzione, quale che sia l’ambito a cui si applica. Questa è la fonte della richiesta di uguaglianza estrema che sta alla base del grillismo, in cui agisce anche l’insofferenza, tipica dei populismi, verso le regole della democrazia rappresentativa. In questo panorama qualunque intermediario (dal parlamentare all’amministratore pubblico) è visto come un opportunista, un impostore o un affarista, che lucra vantaggi profittando della delega che ha ricevuto dai cittadini. I populismi contengono infatti una contrapposizione tra il popolo (“noi”) e le élite, e il popolo se lo rappresentano come un’entità omogenea, monolitica, in cui non ci sono differenze di classe o di interesse. È questo popolo che deve esprimere le sue decisioni in politica, senza lasciarle ad altri. Questo è anche il motivo per cui il M5S è così avverso alla mancanza di vincolo di mandato prevista dalla Costituzione, che interpreta come una mera licenza per l’eletto di fare il proprio comodo. Ci sono motivi per considerare inquietante lo “spirito di uguaglianza estrema” già nella sua applicazione alla sfera della rappresentanza. Ma che cosa accadrebbe se la prospettiva disegnata da Montesquieu si realizzasse fino in fondo, se cioè il “popolo” pretendesse di fare non solo il senatore (a questo siamo già arrivati), ma anche il magistrato, il poliziotto, il docente, il giudice?
Le tecnologie del futuro e le città intelligenti
Nei giorni scorsi McKinsey ha pubblicato un interessante report dal titolo “Disruptive technologies: Advances that will transform life, business, and the global economy”. Il documento descrive le 12 tecnologie a maggiore impatto potenziale sull’economia mondiale nel 2025, selezionate in un campione di più di 100 potenziali.
Tabella: Stima del potenziale impatto economico delle nuove tecnologie nel 2025 (in migliaia di miliardi di dollari)
Fonte McKinsey (Maggio 2013)
Secondo McKinsey la rivoluzione tecnologica in corso da qui al 2025 sarà fortemente centrata sul “digitale” che permetterà – tra le altre cose – di creare business tramite “l’internet mobile” e la analisi dei “big data”, di automatizzare enormi volumi di lavoro manuale ed intellettuale tramite “robot”, di virtualizzare processi reali spostandoli dall’hardware alla “nuvola internet”, di portare la fabbrica in ogni casa con la “stampa 3D” e di connettere “internet” agli “oggetti” trasformandoli in fornitori di servizi.
La tecnologia digitale sta portando inoltre enormi innovazioni nel campo della genomica, con conseguenze potenzialmente illimitate sulla salute e la longevità degli individui.
Queste innovazioni tecnologiche renderanno obsolete grandi parti dell’industria tradizionale e larghe fette di lavoro manuale ed intellettuale, mentre creeranno nuovi business e nuovi lavori, altamente specializzati.
Il trasferimento di enormi potenze di calcolo nella “nuvola”, messe in rete con la pervasività del “mobile internet”, l’intelligenza presente negli oggetti, la presenza di aziende altamente automatizzate la diffusione di auto a guida automatica, alimentate da potenti “batterie” e da fonti rinnovabili, renderanno la città un ambiente dotato di elevata densità di informazioni, know – how, qualità della vita e creatività. In cui il lavoro si svolgerà in luoghi diversi e in modalità nuove e flessibili.
Un esempio viene dagli Stati Uniti, dove l’effetto dirompente del movimento dei makers è stato riconosciuto dal visionario presidente Barack Obama, che ha annunciato un piano di 3 miliardi di dollari per la creazione di istituti per l’innovazione, i FabLab nati al MIT dal lavoro di Neil Gershenfeld. Laboratori digitali e tecnologici “low cost” in cui si progettano e già si realizzano nuovi modelli di produzione manifatturiera. Dotati di competenze iper specialistiche messe in rete grazie al digitale, saranno questi i luoghi che porteranno alla nascita delle cosiddette “micro – multinationals” (“Race against the machine”, 2011), aziende a struttura operativa micro ma dotate di mercati di riferimento e fatturati di una multinazionale.
Il futuro vive già oggi nelle città intelligenti. Ma per trarne vantaggi netti, esso va compreso prima che arrivi. Soprattutto in paesi come l’Italia, dotati per storia di intelligenza e imprenditoria diffusa, che va finalmente messa a sistema. Grazie alle tecnologie dirompenti.
Che il PD apra il congresso al “popolo delle primarie”
Nelle scorse settimane si è discusso molto sulla presidenza della repubblica e sul tipo di governo possibile (o meno) per il Paese, visti i risultati elettorali.
Ma sembra passato in secondo piano il fatto che in autunno si terrà il congresso del Partito Democratico.
Un congresso storico per il futuro del partito e del Paese.
Si parla soprattutto poco della necessità che ad esso partecipi tutto il Popolo delle Primarie, e non solo quello dei “pochi” tesserati.
Questo è a nostro avviso un tema cruciale.
Comprensibile che vi siano parti del PD che vogliano chiudersi nel recinto del partito per provare a conservare equilibri di forza sedimentati, anche se ormai non produttivi ed inefficaci.
Ma con questa scelta si cancellerebbe nei fatti il percorso di innovazione politica fatto negli anni passati e, in particolare, nell’ultimo anno. Quello che porta a un partito aperto, permeabile alla società civile.
Noi crediamo non sia proprio il caso di vanificare il lavoro fatto per un “nuovo” PD, aperto a contributi esterni, con le primarie per la leadership e per la scelta dei parlamentari.
Noi invece crediamo si debba andare oltre. Verso un Partito ancora più aperto alla cittadinanza diffusa, quella senza tessere né appartenenze. E crediamo che la base vada maggiormente coinvolta sulle scelte programmatiche e politiche, e non solo quando si tratta di votare la leadership.
E’ giusto allora che gli “innovatori” che vogliono un congresso aperto che avvii un ridisegno e una ricostruzione seria e sostenibile del Partito Democratico si uniscano e chiedano ad alta voce una discussione e un cambiamento in tal senso.
Cambiamento necessario se non si vuole vedere il PD scendere a livelli di consenso elettorale che lo porterebbero ad uscire dalla scena principale.
Questo il nostro auspicio.
Massimo Preziuso
Paolo Sinigaglia
Antonio Diomede
Francesca Dionisi
Valeria Dionisi
Per firmare o per informazioni: infoinnovatorieuropei@gmail.com
Matteo Renzi nel Movimento 5 stelle
di Salvatore Viglia su Politicamente Corretto
La vera sterzata agli andazzi sconfortanti degli ultimi tempi che appaiono evidenti da un Bersani affranto, battuto e pessimista, la potrebbe dare Matteo Renzi passando al movimento 5 stelle. Quella che non sarebbe solo una notizia per eccellenza, diventerebbe presto una scopa che spazzerebbe via il vecchiume ideologico e le abitudini contrattualistiche dei partiti vecchio stampo. Il fatidico “Colpo di scena”. Quello destinato a cambiare e lavare, sino a renderla linda, la pagina sulla quale scrivere una nuova storia, un nuovo “Progetto Progressista” senza fronzoli. Sarebbe questa una mossa veramente definitiva che, nel lungo periodo, permetterebbe alla popolazione di adeguarsi ad un sistema inconsueto di fare politica ma efficiente. Il parossismo col quale si chiede con forza la costituzione di un governo, è più che altro, una becera retorica che poggia su deduzioni scontate. Ma questo paese pur avendo avuto governi in questi ultimi venti anni, non ha inciso né risolto i suoi problemi dimostrando che “il governo” inteso in questa guisa, non serve e non è necessario. La mossa di Renzi a lui fondamentalmente congeniale, può voler dire pensare al lungo periodo ed alla costituzione di un esecutivo deciso, snello, veloce e con una maggioranza insuperabile. Con Matteo Renzi ed il suo seguito che passasse al M5S, si aprirebbe un mondo intero di riposizionamenti politici significativi sturando quei condotti per troppo tempo chiusi dall’immobilismo più assoluto. Prima di bruciarsi con un partito democratico alla frutta, prima di rendersi compartecipe di una disfatta sacrosanta, Matteo ci pensi seriamente. Egli ha l’opportunità di scrivere una pagina di storia politica di primissimo piano. Oggi.
Primarie: Renzi credeva fosse Grillo ed invece era un”calesse”
di Salvatore Viglia (su L’Unità)
Se Bersani fallirà, saremo severi con lui. Su questo non ci piove. A ben vedere, la vittoria non giustificherà una nuova possibilità.
Nessun’altra possibilità neanche per il buon Matteo che ha tentato di incantarci però con un pacchetto ben assortito di demagogia e manierismo barocco forbito di parole, gesti, opere ed omissioni.
Non ci ha convinto neanche nel pieno del marasma ghiacciato della disillusione, non ci convincerà mai più allora. Ad un certo punto ha creduto d’essere il Grillo della sinistra ma invece si è accorto di essere un “calesse” come nel titolo di un film del compianto Troisi.
Un incrocio tra Grillo e Benigni, seppur nella pittoresca fusione delle tipologie, non poteva bastare a Renzi stante la mancanza di un “sacco” personale ed originale dal quale estrarre farina che fosse sua.
La politica e gli uomini devono cambiare e lo devono fare attraverso il processo e la parentesi Bersani. Pier Luigi è colui sul quale pesa la responsabilità delleresponsabilità, quella di traghettare e condurre il generale ed auspicato cambiamento del paese da una sponda all’altra del fiume.
E’ chiamato a disinnescare un ordigno nucleare a prezzo della sua stessa vita politica, del partito nel quale agisce e del destino prossimo futuro del paese. Parliamoci chiaro, e diciamolo una volta per tutte, qui in ballo c’è molto di più del default economico.
C’è assai di più del prestigio internazionale che lascia, in fin dei conti, il tempo che trova. Siamo chiamati a predisporre le forze sul campo per difendere la reputazione e la dignità di un intero popolo fucina di eccellenze umane senza precedenti che da Mani pulite ad oggi non solo non ha fatto progressi, ma è addirittura peggiorato. Da oggi pensiamo seriamente al da farsi, mettiamoci un punto. In bocca al lupo.
Bersani faccia “en plein”: un ticket con Matteo
Matteo Renzi, da rottamatore a rottamato?
di Massimo Preziuso (su L’Unità)
Aldilà delle promesse, Matteo Renzi alla fine non ha convogliato – in maniera sostanziale – nuovo elettorato nel PD e nel centrosinistra in queste primarie, e soprattutto non lo farebbe alle prossime politiche.
Bastano alcuni dati e fatti per capirlo.
– i 3,1 milioni di elettori alle primarie del centrosinistra evidenziano che l’elettorato è rimasto più o meno quello del 2007.
– i sondaggi che danno in queste ore una ipotetica, e non auspicata, Lista Matteo Renzi intorno al 4% raccontano di un leader, ad oggi, più mediatico che reale.
– Il sito web domenicavoto.it che, nonostante il mail-bombing e la massiccia pubblicità rottamatrice, porta a circa 100,000 richieste-email di registrazioni , denuncia la poca forza attrattiva del candidato toscano.
– La necessità, protratta fino a poche dal secondo turno, di richiamare al voto tutti gli Italiani, con modalità che vanno al di fuori di regole precedentemente concordate, narra di una presa di Matteo sul nuovo elettorato, che è più emozionale che reale.
Una campagna elettorale impostata sul “noi” e “loro”- sinusoidale nel rapporto del rottamatore con il centrosinistra e il concorrente vincitore del primo turno, Pierluigi Bersani – indica la volontà ferrea di creare qualcosa di nuovo nel panorama politico italiano, senza riuscirci.
Manca una linea politica chiara, e questo fatto trasmette agli italiani l’idea che la “rottamazione” renziana sia più una necessità mediatica che un racconto realistico.
Il team della comunicazione di Renzi, molto più del candidato, denuncia una cultura politica, infarcita di slogan ma carente di sostanza politica, che rischia di fare male al Partito Democratico, ma soprattutto al rottamatore.
E, alla fine di questo gran chiasso mediatico, Matteo Renzi rischia di essere dimenticato, perché la rottamazione da lui proposta è risultata scomposta e disordinata.
Un consiglio: che il rottamatore si allontani da subito dal corto circuito informativo che lo sta fagocitando, o da lunedì rischia di trasformarsi in rottamato.
Tanti voti, alla Berlusconi, però!
Il berlusconismo rappresenta un pericolo per la democrazia. E’ “sgradito” ed “inadatto”, indipendentemente dall’area politica di appartenenza del personaggio che lo esercita (e degli elettori che in buona o in cattiva fede lo sostengono). Senza “se” e senza “ma”.
Non si può parlare male del berlusconismo solo quando questo è esercitato da chi appartiene ad una certa area politica ed ha la faccia di Berlusconi. Come abbiamo visto, ormai, si può essere berlusconiani anche a sinistra e ciò non è un bene.
Essere contro il berlusconismo non è essere contro Berlusconi, ma essere contro un modello di proposta, di metodo, di atteggiamento verso la collettività.
Renzi è berlusconiano, senza per questo volerlo demonizzare. E senza dirlo per sponsorizzare un Bersani che ha tutto il mio apprezzamento, ma che non è il mio ideale di politico.
Mi è piaciuto e gli farei i complimenti di persona, se potessi. Ripeto, non per il merito ma per la capacità di essere politico, prima di tutto, nel comunicare con rispetto e correttezza verso chi ascolta.
C’è uno strappo in corso tra Renzi ed il resto del Partito Democratico. Quindi c’è anche uno strappo tra due gruppi (consistenti) di elettori del PD.
Nel mio piccolo vedo il sostenitore di Renzi decisamente imbestialito per la reazione del Comitato per le primarie allo stile stile “simil-berlusconiano”: qualcosa di più di un mal di pancia.
Questo “scontro” era previsto e voluto ed i relativi danni in termini di frattura erano previsti, ed anche auspicati, in un momento tra l’altro in cui il PD ha fatto vedere i denti e le unghie in termini di consenso, facendo evidentemente paura a più di qualcuno.
Scusi, dov’è il bagno?
Rinnovare la classe dirigente è una impellenza e per questo necessaria.
Ma non può proporsi all’improvviso sostituendo tutti i veterani in un colpo solo. Sarebbe da incoscienti oltre che da masochisti.
Certo che, occupare un dicastero da parte di chi non ha esperienze in questo senso neanche “adiacenti”, rappresentare un governo dalla poltrona della presidenza del consiglio da un momento all’altro, significherebbe cominciare da Adamo ed Eva a partire dalla conoscenza logistica dei servizi igienici.
Se una colpa è da imputare al PD è la disattenzione passata per la formazione in previsione di un ricambio generazionale ai vertici delle istituzioni. Una panchina avara di ricambi perché la scuola stessa non è stata mai istituita in tal senso.
Scuola soppiantata da un concetto di militanza sorpassato e superato dallo stesso Bersani perché dichiara che si rivolgerà ai cittadini comuni ed alle liste civiche quando si tratterà di stilare la squadra dei candidati.
Quindi Pier Luigi rappresenta il giusto passaggio da una storia all’altra senza azzardi. Saprà, anzi, dovrà rendersi interprete dei progressi in atto nel paese e tra i cittadini, nel modo di comunicare, di protestare e proporre.
Prendendo per oro colato le sue promesse, egli rappresenta la giusta sintesi che traghetterà l’esperienza nel rinnovamento approntando ogni precauzione possibile per evitare scosse e danni ulteriori.
Ciò che Matteo Renzi ignora
di Salvatore Viglia (pubblicato su L’Unità)
L’immagine comunicativa in manica di camicia stile Mormone della domenica piuttosto che look Obama da convention non può né riesce a colmare un vuoto sostanziale che lo separa da Bersani.
Non tanto nei contenuti, ma nella disinvoltura con la quale non considera i “conti” da fare nella formazione di una futura maggioranza di governo sta la mancanza.
Il suo vulnus è tutto qua se non si considera la critica a volte acerrima, lesionista di cui egli si fa paladino contro il “papà” Bersani come se parlasse ad un ministro del cavaliere.
E’ stato finanche troppo facile citare l’imbarazzo Casini perché Matteo prescinde troppo facilmente dal considerare situazioni nazionali politiche contingenti.
Altrettanto semplicistico è sembrato l’atteggiamento di poca analisi con la crisi globale che pospone irrimediabilmente le motivazioni ideologiche agli aggiustamenti urgenti del dissesto economico europeo.
Pur chiamato Matteo da Bersani, ha continuato a denominare, nel discorrere diretto, “segretario” Pier Luigi.
Anche questa questione non di poco conto dal momento che è un aspetto sottovalutato dal punto di vista dell’impatto mediatico.
Significa molto non alla stregua della cravatta nera su sfondo bianco, ma significativa di una impostazione partitica vecchia, antiquata, che contrasta con il nuovo e che è sintomatica di una formazione della quale egli non si è spogliato ancora nonostante l’assillo della rottamazione che auspica.