Politica
R-innovamenti secondo Bankitalia
di Massimo Preziuso (su L’Unità)
Torno da una bella mattinata passata al Quirinale, dove il Centro Studi Arel ha organizzato un dibattito incentrato sul tema “Giovani senza futuro?“, titolo di un libro scritto da più mani rappresentative del mondo giovanile, e curato da Dell’Aringa e Treu.
Stranamente la mattinata non mi ha colpito per i pure interessanti interventi della ampia rappresentanza del mondo dei giovani invitati a dibattere con il Presidente Napolitano.
Nemmeno per l’ottimo Presidente – di cui da tempo apprezzo la carica di umanità e capacità di analisi storica e del presente – nonostante la bellissima frase di chiusura della giornata (“Se le porte e le finestre le trovate chiuse, cercate di spalancarle, io non ho altre ricette da suggerirvi”).
Mi ha invece colpito enormemente ascoltare, senza avere la possibilità di criticarlo per nemmeno un istante, il nuovo Governatore della Bankitalia, Ignazio Visco.
Fino ad oggi ne avevo letto solo sui giornali e consociuto per il forte curriculum professionale, ma non avevo mai avuto modo di approfondirne lo spessore politico.
Nemmeno da un altro grande Governatore come Mario Draghi avevo mai ricevuto una sintesi così stimolante di rappresentazione della complessità e della novità che la nostra società vive e si trova a dover rapidamente affrontare.
Mai prima avevo sentito una figura istituzionale denunciare chiaramente l’analfabetismo proprio delle classi dirigenti attuali (i non giovani) rispetto alla complessità attuale (che i giovani molto meglio conoscono), che è riassunta nella Rete Internet (ma non solo), traducendo in maniera semplice concetti complessi come quello di “(in) adattamento funzionale” di un Paese come il nostro (da questo punto di vista ai livelli più bassi tra i Paesi avanzati).
Mai una figura di questo livello proporre ai giovani laureati italiani uno scambio tra maggiori livelli salariali e un’aumentata flessibilità dei contratti, prendendo spunto dai mercati del lavoro più dinamici e competitivi.
Oggi posso dire di aver ascoltato e conosciuto una altissima figura istituzionale calata perfettamente nell’Italia del 2012.
E’ anche grazie a scoperte come queste che ci si sente fieri comunque di vivere in Italia.
Rientri all’italiana – una sanità che affonda
di Francesco Zarrelli (IE Molise)
La spesa sanitaria, problema che esiste da circa 30 anni e che solo oggi, all’alba di una crisi economica senza precedenti, salta davanti agli occhi dei nostri amministratori e’ uno dei tanti talloni di achille del nostro budget nazionale. Bisogna correre ai ripari – giusta osservazione, bisognava farlo da tempo ma come si dice “meglio tardi che mai”.
La ricetta elaborata per poter pareggiare la spesa e’ semplice e rispondente al classico teorema italico del fare cassa – tagli lineari, blocchi del turnover del personale che va in pensione, stop delle assunzioni, tagli ai posti letto, rincari dei ticket sanitari e chi piu’ ne ha, piu’ ne metta.
In tutto questo questo chi e’ che paga il conto?
Inefficienze e spese folli in ambito sanitario vengono pagate ovviamente dai cittadini e soprattutto vengono pagate due volte da chi deve accedere al servizio sanitario nazionale, i quali non solo si ritrovano ad essere salassati da tasse regionali piu’ salate, ma anche da pesanti accise sui carburanti, i quali notoriamente di questi tempi costano poco. La cosa piu’ grave non e’ l’esborso al quale noi tutti siamo costretti per riordinare i conti ma il servizio inefficiente e totalmente insufficiente che spesso costringe molti, che per questioni di urgenza, sono costretti a doversi rivolgere a loro spese a strutture sanitarie private per poter tutelare la loro salute.
Lavorare nella sanita’ del rientro
Il piano di rientro cosi concepito, oltre a creare forti disservizi verso i pazienti, e’ generatore di forti malesseri nell’ambiente lavorativo. Contratti co.co.pro., incarichi temporanei, scarsita’ di personale, di strumentazione adeguata e di posti letto sono parte dominante della realta’ che si vive tutti i giorni negli ospedali italiani. Si perde a poco a poco il senso di quello che si fa’ grazie alla decurtazione delle buste paga e si decapita letteralmente, a coloro che credono nel lavoro che svolgono, il sentimento di appartenenza verso la propria azienda sanitaria per via delle pessime condizioni lavorative nelle quali si e’ costretti.
Ci si meraviglia dunque di quello che succede nei prontosoccorsi romani, quando si vede gente ammassata nei corridoi su barelle traballanti, o peggio ancora quando si trasmette in tv un tentativo di rianimazione svolto dal personale sanitario ad un paziente steso a terra per mancanza di posti nelle sale di urgenza. La politica scarica il barile a chi combatte tutti i giorni sul fronte della vita, andando a sospendere dal servizio i dirigenti delle unita’ operative che vivono quel dramma tutti i giorni, rendendo chiaro agli occhi dei lavoratori e spero anche dei pazienti, la loro mancanza di volonta’ nel voler risolvere davvero questo problema.
Cosa fa dunque questo piano di rientro sanitario?
Il suo scopo e’ evidente, si limano gli sprechi insieme alla componente positiva della spesa sanitaria. Si spende meno e’ vero, ma a cosa serve questo risparmio se comporta la distruzione della sanita’ pubblica e gratuita? Chi trae vantaggio da questa situazione sono sicuramente le strutture private le quali fanno un passo avanti ogniqualvolta il pubblico e’ costretto a farne uno indietro, centri diagnostici e cliniche private oggigiorno crescono come funghi. Intanto i privilegiati e gli intoccabili baroni della sanita’ pubblica continuano a conservare le loro posizioni e i loro proventi, le consulenze insensate continuano ad essere date agli amici degli amici, le gare di appalto pubbliche continuano ad essere viziate a favore dei conoscenti. Si vogliono ridimensionare gli sprechi senza volerli eliminare poiche’ importante retaggio della politica laurista, a scapito del servizio reso ai cittadini e della salute pubblica.. tanto i politici si curano nelle cliniche private a carico dei nostri generosi portafogli.
Deputato grazie al web
di Mario Adinolfi (su Europa Quotidiano)
Una premessa personalissima. La giornata di ieri è stata particolarmente divertente perché vedevo avverarsi i miei pronostici sui ballottaggi grillini pubblicati qualche giorno fa su Europa.
E anche perché con l’elezione del deputato Pietro Tidei a sindaco di Civitavecchia (congratulazioni a questo vecchio combattente mio corregionale) scatterà nelle prossime settimane il mio ingresso alla camera, da primo dei non eletti promosso dalle regole sull’incompatibilità. I quattro sindaci del M5S sono evidentemente molto più politicamente rilevanti della mia vanagloria da deputato per qualche mese, ma c’è un tratto comune: la vittoria di Internet.
Nel 2008 venni inserito a forza in lista dalla campagna “Un blogger in parlamento” attivata da centinaia di colleghi di destra e di sinistra che dalla rete fecero piovere nel quartier generale del Partito democratico una valanga di email che mi valsero una posizione ineleggibile, che per il terremoto politico causato dalle scelte del Pd finì per essere ai margini dell’area di eleggibilità.
La rete aveva smosso qualcosa in un partito tradizionale, così come qualcosa si mosse quando i blogger di Generazione U inventarono la via della candidatura alle primarie del Pd l’anno precedente. Insomma, se Internet si mette a fare politica, qualcosa succede.
Io vado implorando il Pd dalla sua nascita: deve capire che la rete cambia tutto, cambia i rapporti tra i cittadini nati dopo il 1970 e la politica. Dopo il 1970 sono nati 29 milioni di italiani, i candidati sindaci del M5S erano tutti nati dopo quella data, hanno vinto contro sfidanti (anche del Pd) tutti più vecchi.
Non vince l’anagrafe, non solo almeno: vince però il sapere interpretare il paese in digitale e non attardarsi nella lettura datata, quella in analogico di chi ha ballato su dischi a 78 giri e guardato con sospetto i primi cd.
Qualche mese fa restituii con dolore la tessera del Pd al segretario Bersani, con una lettera che ha fatto discutere anche qui su Europa. I motivi di quel dissenso permangono tutti, ma al momento del mio ingresso alla camera ricorderò che sono stato eletto nelle liste del Pd, da cittadini del Pd che quelle liste hanno votato: mi iscriverò da indipendente al gruppo del Pd e ne accetterò la disciplina. Farò valere però in sede parlamentare e politica le mie idee sul rinnovamento radicale di cui abbisogna il partito, che non può pensare di vincere proponendosi come “l’usato sicuro”.
Deve sapere essere un passo avanti nell’innovazione, non un passo indietro. Può battere la proposta più innovativa, quella del M5S, rilanciando come si fa a poker: deve essere più innovativo. Deve avere il coraggio di correre il rischio di proporsi come alternativa di governo in autonomia, secondo l’originale vocazione maggioritaria, accettando la sfida di primarie che identifichino la leadership e la legittimino secondo un processo di democrazia diretta, senza inutili coalizioni e ringiovanendo totalmente le liste. Gli schemi ingialliti dal tempo vanno riposti in soffitta, insieme ai vecchi 78 giri.
Ha vinto internet, non so neanche se è un bene o un male, ma è così. Da oggi si deve viaggiare in digitale. Sono personalmente felice di aver dato una mano a mettere in moto questo cambiamento.
R-innovamenti italiani 2013
R-innovamenti italiani 2013 (di Massimo Preziuso su L’Unità)
Si può dire quel che si vuole, ma un primo rinnovamento italiano, domenica e lunedì scorsi, in Italia c’è stato eccome.
A prima vista, i cambiamenti avvenuti possono anche sembrare modesti, ma a guardar bene, l’Italia che esce dal primo turno delle elezioni amministrative è in nuce già una Italia rinnovata.
Vediamo in sintesi perchè:
– Il Movimento Cinque Stelle è ora il principale virus di sana società civile entrato nel sistema immunitario ormai davvero senza forze del sistema partitico italiano, e farà da apripista a numerose iniziative civiche alle elezioni politiche del 2013.
– Le tante liste civiche scese in campo nella battaglia amministrativa, insieme ai partiti tradizionali o da indipendenti, sono in molti casi risultate più forti delle liste con sigla partitica, e questo è un dato altrettanto forte.
– Il PDL e la Lega sono già da annoverare come esperienze politiche passate: dovranno cambiare ragione sociale e sigla presto, travolte ormai da enormi problematiche interne e da questa lunghissima crisi economica nei fatti generata dal loro inattivismo politico e resa oggi così esasperata ed esasperante dalla (in) azione dell’attuale governo tecnico.
– Il PD – unico partito politico in Italia (dopo che l’eventuale alternativa ad esso – il Terzo Polo – è già stata rapidamente archiviata il giorno stesso in cui doveva nascere, per bocca del leader Casini) – è nei fatti ancora incapace di sperimentare un cambiamento sostanziale e rimane a difendere una “posizione dominante”: si comporta infatti come un grande operatore industriale che opera in un mercato protetto, in cui però presto arriverà una naturale ondata di “liberalizzazioni” e di “aperture” che rischia di travolgerlo. Lo si è visto nella scelta dei candidati sindaco in varie città di Italia, dove ha prevalso una assurda continuità (che poi lo ha penalizzato), nonostante il vento di innovazione, che ormai sta sfondando le porte di Italia e di Europa.
In tutto questo quadro politico, ci avviamo ormai verso quell’ #annozero2013 italiano di cui scrivo da tempo, e che proprio oggi la Commissione Europea certifica intravedendo addirittura la necessità di una ulteriore manovra finanziaria per 8 miliardi di euro in un contesto di rapporto deficit/Pil 2012 a -2% e 2013 a -1,1% nel 2013, nonostante il pregresso di sacrifici e di austerità imposta ai cittadini nei mesi scorsi.
E’ proprio per questo travagliato quadro politico ed economico che ci si aspetta grandi cambiamenti nei prossimi 12 mesi che ci porteranno alle elezioni politiche.
La domanda che ci si pone è: ce la farà il Partito Democratico a diventare, dopo 5 anni di avviamento, quel naturale attrattore delle tante energie distribuite nel BelPaese, fuori dalle istituzioni, che comunque porteranno avanti questa rivoluzione all’italiana? Oppure queste tante energie nuove si aggregheranno intorno a Beppe Grillo o a nuovi leader che prenderanno rapidamente la scena, imponendosi come forza di “distruzione creativa” italiana?
E’ ormai attorno a questa domanda – e alla risposta ad essa – che ci giochiamo il futuro del Paese: nell’ #Italiannozero2013 appunto.
Elezioni: il premio di consolazione
Elezioni: il premio di consolazione (di Fondazione Etica)
In ogni gara, anche elettorale, non c’è solo il primo premio, che il 6 maggio si sono aggiudicati i cittadini, scegliendo l’astensione o il voto al Movimento 5 Stelle. C’è anche il premio di consolazione, e qualche partito si arrovella su numeri e percentuali per aggiudicarsi almeno quello.
Il Pdl non ci prova neppure: il 6 maggio è stato punito sonoramente, e non è una sorpresa. Semmai una conferma. I cittadini perdonano molti errori al proprio partito, a volte contro ogni evidenza, ma non amano essere presi in giro troppo a lungo.
Prova a consolarsi, invece, la Lega, Tuttavia, il numero dei Comuni persi, la loro dislocazione geografica, il crollo dei consensi, non possono certo consolare. E neppure essere coperti dai risultati, se pur ottimi, di singole figure: se anche un Tosi deve ricorrere alla lista personale per fare il pieno di voti, la dice lunga sullo stato in cui versa il partito, anche senza Bossi.
Chi, invece, sente già suo il premio di consolazione è il Pd, perché –si dice – ha tenuto. Certo, ha vinto in più Comuni e ha percentuali di consenso migliori degli altri partiti tradizionali. Sicuramente è il primo partito in Italia oggi. Ma questo non toglie l’amarezza di una vittoria mancata: i numeri dicono che anche il Pd ha perso voti, e soprattutto che ha sprecato la sua grande occasione: quella di raccogliere i frutti della disfatta altrui. Un Pd che raccoglieva il 33% quando il Pdl era al suo apice, sa bene che non può essere considerata una vittoria quella di domenica scorsa.
Anche perché il Pd sa di aver disperso il suo unico vero patrimonio: le tantissime persone che si avvicinarono alla politica per la prima volta nel 2007 affollando i gazebo democratici. Illuse prima e ignorate dopo, molte di quelle persone hanno pazientato per anni, ma oggi sono tornate arrabbiate a far sentire la loro voce, ricorrendo all’astensione e al voto a Grillo.
La smettano di polemizzare con lui certi politici e giornalisti: gioca ad alzare i toni perché come, Bossi 20 anni fa, sa che è l’unico modo per guadagnarsi l’attenzione dei media. Per il resto, i candidati a 5 Stelle sembrano avere molto poco di sovversivo e di demagogico: ingenui, semmai, ma solo a fronte dei vecchi lupi che affollano la scena pubblica.
Diciamo la verità: i 5 Stelle assomigliano in modo impressionante alle tante facce per bene che il Pd esibì ai suoi esordi: facce normali, giovani, di gente competente e appassionata. Scientemente, ne vennero riempite le liste alle primarie, con la sicurezza che i meccanismi di voto appositamente studiati le avrebbero bruciate tutte per sempre. Ci rifletta qualche astuto dirigente democratico, che nei giorni scorsi ha commentato i risultati elettorali in modo arrogante, e così magari riuscirà anche ad ammettere che il Pd, domenica, ha vinto spesso diluendosi in coalizioni affollate, talora nascondendo il proprio simbolo dietro quello di Liste civiche, non di rado votando il candidato sindaco di altri. Altro che consolarsi.
Quanto al Terzo Polo, si dice ovunque che abbia perso: la verità è che non ha partecipato alla gara. Candidati del Terzo Polo non se ne sono visti, mentre l’Udc ha guadagnato qualche voto. Se Casini, allora, dichiara la resa dei moderati, ci deve essere dell’altro. C’è da augurarsi che abbia compreso che il quadro politico italiano, e non solo, è diventato più complesso di quello immaginato con l’uscita di scena di Berlusconi: la crisi economica e il rigore a senso unico dell’attuale Governo hanno lacerato gli equilibri sociali. Di fronte a tutto questo l’ennesimo esperimento politico creato in laboratori asettici e di lusso, come il Terzo Polo rischiava di essere, sarebbe parso solo una risposta irriverente di fronte ai troppi Italiani in sofferenza.
Il premio di consolazione per il momento resta nel cassetto.
Come si risponde al Partito Amazon di Grillo?
Per fortuna che c’e’ la crisi.
E’ davvero il caso di dirlo dinanzi allo sfacelo politico. La crisi, con la sua salutare azione di disillusione per chiunque ancora spèeri di sopravvivere con le vecchie ricette, è oggi l’unico motore del cambiamento.
Un motore che in assenza di una spinta consapevole ed autonoma della comunità nazionale, può comportare, come tutte le rivoluzioni passive, uno sbocco conservatore.
I dati elettorali ci confermano che i problemi sono grandi, ma tutto è possibile, perfino una positiva ripartenza.
I dati ci segnalano alcuni scenari di fondo:
– Una destra senza contenitore, dove i flussi elettorali tracimano in cerca di vettori.Il letto del fiume non è a secco, anzi, ma non ci sono argini.
– La sinistra ha invece solo contenitori, senza spinta dell’acqua, che compress da argini alti ristagna ma non spinge.
– Infine il segnale di una irriducibilità fra ceti socio anagrafici e una leva politica che non si intendono. Sembra che parlino lingue diverse: grillini, localisti, leghisti vari, continuano a declinare una domanda di rappresentanza senza assistenza, e la politica risponde con un’offerta di assistenza senza rappresentanza.
Ancora una volta l’insorgenza del malessere non deve essere confuso con la patologia. Grillo è la Bonino di turno, che ricordate, arrivò alle europee fino al 9% nazionale.
Con due differenze: la rete come forma, la lunga coda come organizzazione. Grillo infatti unifica un caleidoscopio di differenze: Parma, Vicenza, Genova,Sicilia, sono facce di un movimento assolutamente estranee l’una alle altre. Il modello è esattamente la lunga coda di Andersen: ogni prodotto trova la sua nicchia, ogni consumatore chiede un prodotto differente. Grillo apre la sua Amazon elettorale e coagula la differenza dandole un respiro nazionale. Il linguaggio e la forma di tutto questo particolarismo è la rete, che significa, estraneità alla TV, lontananza dal palazzo, selezione delle professionalità. I partiti imbarcavano gli avvocati, Grillo fa eleggere gli informatici.
Il sintomo è ormai chiaro:si apre la stagione della generazione che non ha nulla da chiedere. Si spara sul malaffare perchè non si ha niente da chiedere di concreto e personale.
I grillini, come i designer di Milano, o i gastronomi di Slow Food, o i ricercatori della Normale, non chiedono nulla alla politica perchè giocano su scenari globali, dove la negoziazione parte dai livelli di sapere che si possono scambiare.
La destra cercherà ora di rispondere con la ricetta del 94 di Berlusconi: raccogliamo i cocci o vincono i cosacchi.Casini sarà costretto a starci, e la Chiesa si giocherà le suggestioni di Todi sull’altare di una nuova sacra alleanza(Fini, come previsto, sotto i ponti).
La sinistra replicherà, con uno slogan simmetrico: compattiamo l’alleanza possibile per non far vincere Berlusconi. Tutti e due si perderanno al centro, mentre le rispettive basi sociali si dispiegheranno nelle fascie laterali, dove i conservatori cavalcheranno il populismo anti democratico, e i riformatori la conflittualità territoriale.
Il vero buco nero, più che le fanfaronate sui conti dei partiti, sta proprio nell’incapacità di declinare i nuovi linguaggi dell’autorappresentazione: la rete , come spiega Castells, nasce dal protagonismo dell’Io.
Chi federera’ le moltitudini degli infiniti io? la cultutra di massa non sa rispondere. Il lavoro non trova legami da annodare.
Solo la ricomposizione di alleanze locali, fra saperi, amministrazione e competizione, può comporre le tre esse di un programma plausibile: sussidiarietà, solidarietà, sviluppo.Obama sta traducendo in inglese i tre termini. In Europa chi raccoglie la sfida?
Manifesto Donne per Giuseppina Bonaviri candidata sindaca di Frosinone
Manifesto Donne per Giuseppina Bonaviri candidata Sindaca di Frosinone
Noi sosteniamo la candidatura di Giuseppina Bonaviri,
una donna impegnata, un’intellettuale, una mamma che lavora e conosce i mille e più ostacoli che ogni giorno devono superare le donne che vivono in Italia.
Una donna che ha fatto una scelta coraggiosa: si è candidata da sola, senza Partiti alle spalle, creando liste civiche composte per la maggior parte da donne e da giovani, i grandi esclusi del nostro tempo, le uniche risorse che abbiamo oggi per rinnovare la classe politica di un Paese in ginocchio.
Una scelta di attività politica come servizio alla sua città, con un programma innovativo e ambizioso: gestione dei beni comuni della città come patrimonio di tutti non negoziabile; trasparenza dei bilanci e codice etico per l’amministrazione della cosa pubblica; meritocrazia e pari opportunità come cardini dell’accesso alle cariche pubbliche e l’ascesa ai vertici; etica nella politica quale elemento imprescindibile per il funzionamento di un Paese; creazione di una città a misura di donne e di giovani; e molto altro.
Facciamo a tutti un appello: non votate più i soliti noti. Votate con il cuore tutte quelle persone in cui ritrovate uno spirito di servizio per la comunità ed un umano sentire che si avvicina al vostro e che senza grandi proclami o promesse è portato a risolvere in modo pragmatico e serio le difficoltà che ci troviamo a vivere.
Giuseppina Bonaviri è sicuramente una di queste persone e il suo coraggio e la sua volontà ne fanno un punto di riferimento ed un esempio di impegno sociale per tutte le donne.
Ecco le prime firme:
Paola Diana, Fondatrice PariMerito e NEXT Network
Barbara La Rosa, Presidentessa Empatia Donne
Maria Cristina Terenzio, NEXT Network
Raffaella Baraldi, Presidentessa Associazione Lei Può
Rosanna Oliva, Presidentessa Rete per la Parità
Paola Caporossi, Direttrice Fondazione Etica
Francesca Chialà, Fondatrice NEXT Network
Luisa Pezone, Fondazione Mezzogiorno Europa e Innovatori Europei Napoli
Alessia Centioni, politologa e Innovatori Europei Brussels
Claudia Bettiol, Fondatrice European Common Goods
Serena Romano, Presidentessa Corrente Rosa
Fucsia Nissoli Fitzgerald, imprenditrice USA
Flavia Marzano, Presidentessa Stati Generali dell’Innovazione
Prof. Rawdha Zaouchi-Razgallah, Tunisia
Flavia Baldassarri, Ricercatrice Università degli Studi di Perugia
Simona Rodano, Manager di Incanto Productions
Angela Creta, Ricercatrice Università La Sapienza di Roma
Stefania Schipani, Economista Istat
Lisa Del Percio, Manager Alitalia USA
Maria Gina Aiello, Italian cultural foundation – Rhode Island – Usa
Ketty Trimarchi, amministratore Delegato gruppo RSA
Arcangela Aiello, stilista di moda
Sonia Fatnassi, Manager
Melania Fitzgerald, attivista politica italo americana
Patrizia Missagia, Manager della comunicazione
Giusi Conti, Presidentessa gruppo Sojuma Tvl
Tatyana Lorenzini, attrice
1° Maggio e Politica del lavoro
In occasione della festa dei lavoratori, ecco alcune nostre considerazioni sul tema, nate da una discussione interna, coordinata da Luca Lauro:
Il lavoro è un bene pubblico, questa è la premessa di una corretta politica del lavoro, anche quando è lavoro privato.
La fase storica che stiamo vivendo è caratterizzata da un grave errore di valutazione da parte dei protagonisti siano essi i decisori quanto i rappresentati, l’idea che essere disoccupato sia un problema solo del singolo e non della società;
questa errata valutazione sta de-strutturando le coscienze individuali e collettiva, condizionando negativamente la cultura occidentale e neanche l’eco della più importante disposizione della Costituzione, che dice l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, resiste a questo andazzo mediatico, sociale ed economico.
L’articolo 1 della Costituzione infatti intende ora come allora affermare e chiarire agli italiani qual’è la direzione verso cui guardare tutti senza esistazione e quali sono i valori i beni fondamentali che condividiamo in vita come nella morte:
la Res-pubblica, la ricchezza di tutti, la Demos-crazia il governo di tutti, il Lavoro, il fare di tutti.
Quindi sebbene il lavoro sia la più importante risorsa dell’economia la sub – cultura di oggi tende a considerarlo sempre di più come un problema anche da parte di chi ha le responsabilità pubbliche e politiche, proprio a causa di una radicata visione miope della realtà, che finisce per essere l’unica visione.
L’attuale politica del lavoro impostata dal governo in carica conferma questa impostazione:
si parte dall’assunzione di un obiettivo politico che è senza dubbio economicamente legittimo e opportuno, come l’aumento della produttività di sistema per essere concorrenti sui mercati internazionali, superare la crisi e rilanciare lo sviluppo, ma ciò dovrebbe avvenire con l’aumento delle ore totali di lavoro da un lato e la riduzione dei lavoratori impiegati nel processo economico dall’altro, lasciando a casa braccia e cervelli per una politica del lavoro asservita alla logica di poteri forti e circoscritti sia politici che finanziari.
E’ evidente che lo stesso risultato può essere raggiunto in maniera più efficiente e meno rischiosa aumentando gli occupati, sicchè l’aumento dell’occupazione deve ritornare ad essere un obiettivo prioritario.
La verità è che l’attuale politica non ha il coraggio di attuare una vera riforma del lavoro che renda disponibile le forze sane alle parti di sistema produttivo che più ne hanno bisogno e allo stesso tempo non crea le condizioni per aggiornare e migliorare le professionalità che sono rimaste indietro, anche per la mancata innovazione dei processi produttivi ed economici in cui i lavoratori sono già impiegati:
la politica del lavoro deve ritornare ad essere politica di investimento nelle risorse umane, siano esse quelle di nuova entrata nel sistema siano esse quelle già coinvolte; tutti devono essere motivati a guardare nella stessa direzione e con fiducia dando un proprio contributo;
concretamente, le imprese che assumono a tempo indeterminato devono ricevere sgravi fiscali duraturi, ma altrettanti devono essere i benefici riconosciuti alle imprese che investono in programmi di formazione per aggiornare il livello professionale delle proprie risorse umane.
Questo nuovo trend non tarderà a ridare all’economia quello stimolo di cui ha bisogno da troppo tempo.
Sarà questo un tassello importante per riconoscere all’impresa quel ruolo sociale che merita quando lavora lealmente nel rispetto delle leggi e che deve aiutarci a superare l’idiota e fallimentare contrapposizione ideologica impresa/lavoratori che ancora ci impedisce di formulare soluzioni corrette ad un problema di sistema economico, tramite la politica del lavoro.
Clonare @fabriziobarca
di Alessandro Aresu (su Lo Spazio della Politica)
Negli ultimi giorni ha preso piede il rumor giornalistico-politichese (a partire dall’articolo di un quotidiano maestro di questo genere ) secondo cui il Ministro della Coesione Territoriale Fabrizio Barca potrebbe essere un nuovo Romano Prodi, capace di unire i delusi di questa stagione politica in un progetto di rilancio dell’Italia.
Questa notizia mi ha sorpreso, perché avevo deciso, a partire da uno scambio di battute su Facebook con Massimo Preziuso, di dedicare a Barca una nuova puntata della serie di profili de Lo Spazio della Politica che propongono la “clonazione” delle personalità italiane che ci hanno colpito (una storia cominciata qui). Finora non ho mai preso posizione sulle figure da clonare e non vorrei basarmi su indiscrezioni giornalistiche, ma su un altro livello di approfondimento. Prima, una breve nota sulla serie della “clonazione” dello Spazio della Politica: cerca di essere un esercizio con una morale, perché l’attenzione per le personalità (senza che diventi un’ossessione) vuole dare l’idea di una cultura dell’esempio. Ognuno di noi si porta appresso un pantheon di maestri diretti e indiretti, consapevoli e non consapevoli. Non è possibile basare un percorso e una visione del mondo solo su di sé e vale la pena di stare in dialogo, se si vuole crescere.
La stessa descrizione del ministero di Barca, per la coesione territoriale, è il primo passaggio su cui vale la pena di soffermarsi. Direi che, prima dei colpi giunti dalle recenti vicende, è stata la scelta politica con cui Giorgio Napolitano ha allungato le celebrazioni dell’Unità d’Italia e tolto la stagione leghista dall’agenda. Al posto del federalismo, la coesione: si tratta di un ministro senza portafoglio, ma il messaggio che fornisce è opposto a quello della retorica della rivendicazione di indipendenza per una parte dell’Italia rispetto a un capro espiatorio, sia nella prospettiva del Nord che nella prospettiva del Sud. Allo stesso tempo, con Barca Napolitano ha recuperato una figura che, rispetto ai colleghi ministri, presenta alcune particolarità. È vero, proviene dall’amministrazione pubblica come molti altri. Troppi, a mio avviso, non solo perché Lucio Caracciolo è meglio di Terzi ma per un motivo che non riguarda le nostre preferenze faziose: quando hai un problema di inefficienza della spesa pubblica l’amministrazione centrale è pienamente coinvolta, ed è utopico pensare che si impegni seriamente per l’autoriforma, a partire dall’autocritica necessaria per ogni processo di questo tipo.
Il padre di Fabrizio Barca, Luciano, è stato responsabile economico del PCI, e lui è stesso è stato membro di quella fucina di classe dirigente che è stata la Federazione dei Giovani Comunisti Italiani. Più ancora che sulla sua collocazione politica, tuttavia, vorrei soffermarmi su tre punti. Il primo riguarda proprio la necessità di riempire di contenuto l’espressione continuamente ripetuta, “classe dirigente”, nel contesto della storia dello sviluppo e dell’impresa in Italia. Un profondo conoscitore della società e dell’impresa italiana, Giulio Sapelli, ha pubblicato un pamphlet critico sul governo dei professori (si può leggere per intero su Linkiesta), in cui se la prende contro la “crudeltà istituzionale” del governo e scrive:
I professori italiani, come quelli europei e di tutto il mondo, vivono nell’iperuranio dell’astrattezza, in primo luogo gli economisti che troppo spesso sono solo professori e non intellettuali, con conseguenze ancor più umanamente devastanti: concepiscono i soggetti umani come cavie e non come persone.
Chi, come lo stesso Sapelli, ha letto “Storia del capitalismo italiano”, sa che questa definizione non si applica affatto a Barca, che i suoi lettori conoscono come intellettuale. In quel testo, l’economista parte dal progetto incompiuto di Raffaele Mattioli (che nel 2012 compie quarant’anni) dell’Associazione per lo studio della classe dirigente dell’Italia unita e compie un’analisi pregevole della fase “gloriosa” del capitalismo italiano secondo la categoria del compromesso senza riforme. È un saggio che consiglio a tutti quelli che sono interessati a capire le occasioni mancate dello sviluppo italiano, in un volume che spicca anche per la capacità del curatore di aggregare alcuni dei migliori studiosi che aiutano a comprendere il nostro Paese, da Franco Amatori a Marcello De Cecco. Analisi di questo genere segnalano, tra l’altro, che la risposta alla domanda cruciale “Come è fatta l’Italia e come è possibile cambiarla?” non deve giungere necessariamente dai consulenti di Boston Consulting Group o di McKinsey. Non è obbligatorio pagare profumatamente questa gente affinché ci insegni a pensare e a vivere sotto forma di report. La risposta può giungere anche da chi l’Italia l’ha girata di persona e, come nel test dell’ultimo libro di Charles Murray, ha magari messo almeno una volta piede in un capannone o in una stalla. E può venire da quei serbatoi, come la Banca d’Italia, in cui il nostro Paese, tra pregi e difetti, ha mostrato di poter produrre classe dirigente. Senza alcuna stupida presunzione autarchica e avendo sempre davanti l’errore del dopoguerra, quella “rinuncia a disegnare un meccanismo istituzionale che assicuri il rinnovamento del ceto dirigente”, altrimenti il “compromesso senza riforme” si trasforma in “nostalgia senza progetto”. Confortati da nuove testimonianze, ci ritroviamo ancora a celebrare il grande Raffaele Mattioli, senza sapere che fare, un po’ sconfortati.
Il secondo punto per cui abbiamo bisogno di “Clonare Fabrizio Barca” riporta all’articolo di Chiara Mazzone che abbiamo pubblicato a gennaio, “Ce la faremo a spendere i fondi europei nel 2012?”, a cui rinvio per maggiori approfondimenti. L’innesto tra interesse nazionale e politica europea è uno dei punti su cui Lo Spazio della Politica cerca di spendersi di più, fin dai contributi di Moris Gasparri e Matteo Minchio al nostro lavoro collettivo sull’Europa di tre anni fa. Già nel 2003, su Limes, Barca invitava a “prendere sul serio la politica di coesione comunitaria, attiva, con i suoi 30 miliardi di euro annui di dotazione” suggerendo per il Paese una mappa in quattro punti: per la competitività di tutte le regioni, meno aiuti di stato e addizionalità, difendere la “Maastricht del Mezzogiorno” e riformarne le regole, contenere il contributo finanziario netto dell’Italia. Dopo dieci anni, giornali come “Il Corriere della Sera” indicano con un cronometro il tempo trascorso dall’impegno dei presidenti delle camere per la riforma sul finanziamenti ai partiti. È un tema di rilievo e sentito fortemente dai cittadini, come quello che riguarda la legge elettorale. Allo stesso tempo, noi pensiamo che sia altrettanto urgente, seppur più faticoso da inserire nel dibattito pubblico, il cronometro dei fondi europei. Un tema non percepito, ma cruciale, perché dietro quel cronometro vi sono grandi, medie e piccole opere infrastrutturali, nuove imprese, percorsi di formazione, posti di lavoro, oltre alla questione dell’efficienza della nostra amministrazione pubblica. Dobbiamo anche pensare a questo, magari in una pausa dei nostri continui litigi, e a Sergio Fajardo, ex sindaco di Medellin, che negli edifici riqualificati nelle zone degradate delle città faceva appendere lo striscione “le vostre tasse sono qui!”. Anche questo sarà un mattoncino della coesione, che vince quando è più concreta della paura e del generico auspicio della bellezza della tassazione, e quando non si riduce al semplice catalogo delle cose da fare.
Infine, e questa è la ragione del titolo, il terzo motivo per cui vale la pena di clonare il ministro Barca riguarda il suo uso di Twitter. Il ministro è su Twitter dal 5 dicembre 2011 e la lettura integrale delle sue comunicazioni (la parte curata dallo staff è molto minoritaria, anche se presente per la cronaca live degli eventi) dà una buona prospettiva sulla sua attività di governo, dal racconto delle diverse città e strade italiane che ha visitato, al suo profilo di studioso (vedi i tweet sul servizio dell’Economist sull’ascesa del capitalismo di stato, qui il dibattito) per giungere poi al punto più importante, l’interazione con i cittadini, oltre che con i giornalisti e le altre autorità. Questa parte del profilo di Barca, con un po’ di buona volontà, non sarà poi difficile da clonare.
Innovatori Europei nel libro “Lobbying & Lobbismi”
Il valore del lobbying per la democrazia e la crescita dell’Italia. Spesso denigrata in Italia, nel suo libro Gianluca Sgueo illustra le virtù di un’attività lobbistica regolamentata e riconosciuta, suggerendo le regole per farla funzionare in modo efficiente e trasparente
Le cronache degli ultimi anni in Italia, il caso Bisignani, ultimo in ordine di tempo, e l’opposizione alle proposte di liberalizzazioni avanzate dal governo Monti, hanno rafforzato le connotazione negative associate alle lobby, viste come raggruppamenti di affaristi, difensori di caste e faccendieri. Nel suo volume Lobbying & lobbismi. Le regole del gioco in una democrazia reale (Egea 2011, 263 pagg., 24 euro) Gianluca Sgueo mostra invece come fare lobbying può essere un’attività trasparente e regolamentata con un ruolo fondamentale per il buon funzionamento della democrazia e dell’economia, disegnando le linee guide per favorire in Italia una crescita culturale nei confronti del lobbying e instaurare un sistema efficace e funzionale.
Come sostiene infatti nella sua prefazione Giuseppe Mazzei, direttore dei Rapporti istituzionali del Gruppo Allianz, in Italia permane “la congiura dell’ignoranza…dove la parola lobby è usata quasi sempre a sproposito come sinonimo di attività illecite o traffici immorali.” Mentre invece “il lobbismo corretto e ben regolamentato è un elemento cruciale per migliorare la competitività del sistema imprenditoriale e in genere del sistema democratico.”
Nel volume infatti Sgueo illustra in maniera vivace e dettagliata la funzione dei lobbisti in una democrazia contemporanea, funzione che fa parte del meccanismo che favorisce una democrazia partecipativa in cui viene incentivato il coinvolgimento dei cittadini nell’assunzione delle decisioni. Il fenomeno viene così fotografato, con esempi tratti sovente dal mondo anglosassone, illustrando i benefici ma anche i problemi senza timore di sottolineare aspetti e esempi negativi. Benefici che in termini di ritorno economico sono stati valutati dalla University of Kansas in uno studio che ha preso in considerazione un’attività di lobbying di 300 milioni di dollari che ha avuto un ritorno di 220 volte il capitale investito.
Sgueo ripercorre con interviste e resoconti il ruolo delle lobby nelle campagne elettorali e nei processi democratici negli USA e Gran Bretagna, trovando in Italia pochi casi positivi da illustrare, come i risultati ottenuti dalla regolazione sul lobbying predisposta dalle Regioni.
La categoria in Italia attraversa infatti una profonda crisi di legittimazione, con le lobby dipinte come centri di potere finalizzati a raggiungere scopi non leciti o non negli interessi dei cittadini. Una crisi aggravata dalla mancanza di una regolamentazione organica, dall’assenza di un regime di trasparenza, dalla delegittimazione della politica e dei partiti e dalla mancanza di rappresentazione degli interessi del tessuto imprenditoriale prevalente, quello delle Pmi. Gli imprenditori, soprattutto quelli più piccoli, non si sentono rappresentanti dalle associazioni tradizionali e scalpitano per avere più peso.
Un sistema incompiuto che, secondo Sgueo, è specchio “dell’incompletezza di un intero sistema decisionale, di una ‘democrazia incompiuta’… Regolare coerentemente il lobbying significa dare alla nostra democrazia maggiore spessore, riconoscendo alla società civile il libero esercizio di iniziativa e, superando definitivamente il mito dell’interesse pubblico, ponendo il decisore a livello dei cittadini o delle imprese portatori di interessi.”
Sgueo entra poi in dettaglio sull’insieme di norme e approcci che va introdotto per dare al lobbying la sua giusta collocazione e dignità in Italia. La positività del lobbying può esistere infatti solo a condizione di fare e osservare regole. Ciò che serve in primo luogo, secondo Sgueo, è “una legge che disciplini le modalità di accesso alla categoria dei lobbisti, che ne definisca le modalità d’azione e la deontologia… Una definizione corretta del confine tra ciò che è lecito e non lecito fare nell’esercizio di pressione sul decisore pubblico è il problema più importante.”
Serve poi, secondo Sgueo, un investimento serio sulla formazione e selezione dei lobbisti con un sistema che prepari i futuri professionisti e che premi i più meritevoli. “L’ultimo passaggio potrebbe e (dovrebbe) essere l’integrazione ‘ufficiale’, e non più ufficiosa, delle pratiche di lobbying nel sistema democratico,” conclude Sgueo.
Gianluca Sgueo, giornalista, è ricercatore presso il Center for Social Studies dell’Università di Coimbra, docente presso l’Università degli Studi della Tuscia e direttore dell’Area Istituzioni di I-Com.





