Significativamente Oltre

petrolio

Il 17 aprile vota SI al Referendum

Innovatori Europei – membro del Comitato nazionale per il SI con Legambiente Onlus e tantissime associazioni e comitati – vota SI ‪#‎Referendum17aprile‬ . Perché occasione unica e irripetibile per dare un segnale forte, all’interno del Paese e a livello internazionale, sul fatto che l’Italia vuole finalmente tornare ad essere protagonista nel settore della Green Economy / Sostenibilità Ambientale, che è già oggi il baricentro del nuovo paradigma di sviluppo mondiale.

E perché crediamo il Referendum sia una occasione formidabile per le stesse compagnie petrolifere, a cominciare dalla nostra Eni, per accelerare su questo cammino, insieme ad un governo Matteo Renzi che faccia finalmente il “pioniere” dell’innovazione tecnologica e non solo il “later adopter”.

Insidie petrolifere

di Sergio De Nardis, Capo Economista (su Nomisma) 

Il crollo del petrolio è una buona notizia? Esso arriva quando l’Italia e le economie europee hanno  bisogno di maggiore, non minore, inflazione. La politica monetaria ha perso capacità di trazione, l’inflazione euro è praticamente zero, negativa in diverse economie. In tale situazione gli effetti favorevoli del greggio meno caro, connessi all’aumento dei redditi reali nei paesi importatori, possono essere compensati da quelli negativi indotti dalla deflazione. Sarà cruciale l’azione della Bce nel contrastare il disancoraggio delle aspettative: data la situazione, occorrono interventi forti. E’ una condizione necessaria, non è detto che sia sufficiente a rivitalizzare l’economia europea.        

Manna dal cielo? L’Europa attraversa un periodo complicato nel quale quelle che normalmente sarebbero buone notizie nascondono risvolti negativi. La caduta del prezzo del petrolio spinge i previsori a puntare con maggiore fiducia sulla ripresa italiana nel 2015. Scommessa che, però, si traduce nella sostanziale conferma della crescita che era attesa tre-quattro mesi prima, cioè antecedentemente al crollo delle quotazioni. In altri termini, grazie al dimezzamento del petrolio il Pil aumenterebbe più o meno come era previsto. Vi è, dunque, prudenza nelle valutazioni. E’ giustificata: il rischio che nell’attuale situazione vi siano effetti di contrazione non va sottovalutato.

Fig. 1 – Prezzo del petrolio, dollari per barile 20150115-SCN-Grafico1 Fonte: elaborazioni e stime Nomisma su dati Oecd.  

In condizioni normali il calo del greggio è una notizia univocamente positiva: la flessione aumenta i redditi reali dei consumatori e i profitti delle imprese nei paesi importatori, come l’Italia e le altre economie euro; la spinta sulle loro domande interne più che compensa il regresso dell’export verso i paesi fornitori di energia e traina la crescita del Pil. Sono gli effetti benefici del controshock petrolifero che si sperimentò nel 1986. Anche allora (fig. 1) la quotazione del greggio si dimezzò in un anno (e scese di tre quarti rispetto al picco del 1980). Ne risultò un forte stimolo alla domanda interna dei paesi industriali e una sostanziale accelerazione dei loro tassi di crescita.

Effetti avversi. Ma il 2015 è tutto un altro mondo rispetto al 1986. L’economia europea da alcuni anni non opera più in condizioni normali, si trova nell’eccezione. L’inflazione è a zero, negativa in diversi paesi; i tassi di interesse della Bce sono anch’essi a zero, il limite minimo possibile. Inoltre, in Italia e in gran parte dei paesi euro è in corso un processo di riduzione del debito da parte dello stato e del settore privato. In queste condizioni, l’ulteriore impulso al ribasso sulla dinamica dei prezzi, fornito dal petrolio, rischia di abbattere ancor più le aspettative di inflazione, facendo aumentare i tassi di interesse reali e causando, così, effetti depressivi. Accanto a ciò, il nuovo calo dell’inflazione accresce il valore reale dei debiti e il peso (reale) degli interessi (lì dove non sono indicizzati), spingendo stato e privati a intensificare l’azione di deleveraging, anche in questo caso con impatti depressivi per l’economia.

Un recente lavoro di Stefano Neri e Alessandro Notarpietro analizza, attraverso un modello stilizzato, le conseguenze che avrebbe in un simile ambiente (tassi zero e rientro da debito) uno shock negativo sui costi di produzione a cui è assimilabile il calo del greggio. In condizioni normali, la riduzione dei costi produce caduta dell’inflazione e aumento dell’output: sono gli effetti del controshock del 1986. Per questo risultato è cruciale la possibilità per la politica monetaria di contrastare, con la riduzione dei tassi, la discesa dell’inflazione sotto il livello di equilibrio. Se, tuttavia, i tassi di policy sono già al limite minimo (zero lower bound), tale riduzione non può realizzarsi e lo shock negativo sui costi causa contrazione dell’attività economica, più marcata se vi sono soggetti indebitati colpiti dal calo dei prezzi. Riproduciamo da questo lavoro la seguente figura che illustra chiaramente le opposte conseguenze che può avere, sia pure in un modello semplificato, uno stesso cost-push shock a seconda delle condizioni della politica monetaria e del debito: con tassi di interesse zero (ZLB) e riduzione del debito (debt deflation) gli effetti  sono negativi; la figura mostra, inoltre, come il limite zero dei tassi di interesse sia il fattore decisivo che volge tali ripercussioni da positive in negative.

Fig. 2 – Risposta dell’output a uno shock esogeno negativo sui costi 20150115-SCN-Grafico2 1 No ZLB=Tassi di policy positivi; ZLB=tassi di policy al limite zero; No debt deflation=contratti di debito indicizzati all’inflazione; debt deflation=contratti di debito non indicizzati all’inflazione. Fonte: Stefano Neri e Alessandro Notarpietro, “Inflation, debt and the zero lower bound”, Questioni di Economia e Finanza (Occasional Paper), Banca d’Italia n. 242, October 2014.

A tutto ciò si deve aggiungere la possibilità che un abbassamento del livello generale dei prezzi, indotto dalla diffusione delle spinte disinflazionistiche, ostacoli l’aggiustamentodel mercato del lavoro. In presenza di rigidità al ribasso dei salari nominali, prezzi in calo si traducono in un maggiore costo reale del lavoro con conseguenze negative per il processo di riassorbimento della disoccupazione. Per il riequilibrio del mercato del lavoro l’inflazione è da preferire alla deflazione.

A corollario di queste considerazioni resta poi un interrogativo di fondo che riguarda il lato positivo del calo petrolifero. Occorre domandarsi quanto del maggiore potere d’acquisto, consentito dal greggio meno caro, verrà effettivamente speso dai beneficiari, date l’incertezza e la propensione ad accantonare risorse in impieghi sicuri che contraddistinguono la fase attuale. Il rialzo del tasso di risparmio, in atto dal 2012, rivela un atteggiamento delle famiglie volto alla parsimonia e alla ricostituzione dei livelli di risparmio e ricchezza erosi negli anni precedenti; il dato del terzo trimestre 2014 di consumi praticamente fermi, a fronte di un forte incremento dei redditi reali delle famiglie, non fa che confermare questa tendenza.

In definitiva, la caduta del petrolio interviene in un periodo di elevata incertezza e impotenza della politica monetaria. Una fase in cui le economie europee e l’Italia avrebbero bisogno di maggiore, anziché minore, inflazione. In questa situazione la misura in cui il calo del greggio avrà ripercussioni negative dipenderà da due fattori. Il primo è il grado di diffusione delle pressioni disinflazionistiche al di là degli effetti (benefici) di primo impatto e le ripercussioni sulle aspettative. L’abbattimento di quest’ultime, se non contrastato dalla politica monetaria, attiverebbe gli effetti depressivi esemplificati nella figura 2. Il secondo fattore riguarda, di conseguenza, l’azione della Bce e in particolare la dimensione (e qualità) dell’espansione quantitativa di liquidità annunciata nelle ultime settimane.

Aspettative. L’odierno controshock petrolifero si verifica in una situazione in cui le aspettative di inflazione hanno già preso, da tempo, ad allontanarsi dall’obiettivo di medio termine della Bce per l’area euro (2%). Il rischio più che concreto è che la sconnessione tra attese degli operatori e target Bce si rafforzi col ridimensionamento del greggio. Presentiamo su questo qualche evidenza per l’Italia.

Fig. 3- Italia: inflazione negli acquisti ad alta frequenza e aspettative a breve (qualitative) dei consumatori 20150115-SCN-Grafico3 Fonte: elaborazioni Nomisma su dati Istat.

Il punto cruciale per la politica monetaria in questa fase è la dipendenza delle aspettative dall’inflazione corrente piuttosto che dagli obiettivi che la banca centrale afferma di voler perseguire. Nella figura 3 si riportano, sull’asse orizzontale, l’inflazione mensile misurata sui beni e servizi a elevata frequenza di acquisto e, sull’asse verticale, le attese delle famiglie sull’inflazione futura. Per quanto riguarda la prima variabile, è presumibile che la dinamica dei prezzi degli acquisti ad alta frequenza (il cosiddetto carello della spesa) sia la componente che più influisce sulla percezione delle famiglie circa l’andamento dell’inflazione. Per quel che concerne la seconda variabile, essa misura le attese qualitative dei consumatori per i mesi successivi a quello della rilevazione ed è data dalla differenza tra la percentuale di coloro che si attendono un incremento dei prezzi più rapido (o costante) rispetto a quello corrente e la quota di coloro che si aspettano un incremento più debole[1]. La figura mostra una chiara rottura della relazione tra le due variabili nel periodo antecedente la crisi (2000-2007, pannello A della figura 3) e in quello successivo (2008-2014, pannello B). Mentre prima della crisi le attese apparivano slegate dall’inflazione osservata, dal 2008 vi è una evidente correlazione (0,62, sulla base della retta interpolante). E’ come se in un periodo di forte incertezza, quale è il 2008-2014, le aspettative delle famiglie fossero divenute adattive: molto più legate all’osservazione delle dinamiche correnti e, quindi, molto meno influenzate dall’obiettivo della Bce che da quelle dinamiche è andato, dal 2013, sempre più distanziandosi. E’ un segnaledi disancoraggio delle attese.

La figura 3 suscita un’ulteriore osservazione sul nesso tra aspettative, da un lato, e effetti del greggio, dall’altro. Le aspettative dei consumatori sono divenute più sensibili, nel corso della crisi, alle dinamiche dei prezzi per gli acquisti di ogni giorno. Sono quelli su cui incide in modo diretto il calo del petrolio (prezzo dei carburanti). Osservare, dunque, che l’inflazione core (al netto dell’energia e degli alimentari), pur molto bassa, resta in territorio positivo (+0,6% a dicembre) può risultare meno rilevante, per la lettura di come si orientano le aspettative, della piega negativa che ha preso la dinamica dei prezzi ad alta frequenza di acquisto dopo la caduta dei corsi del greggio (-0,5% a dicembre).

E’ vero che le attese dei consumatori, misurate dalle inchieste congiunturali, si riferiscono alle dinamiche previste nel breve termine (a tre-quattro mesi), mentre le aspettative rilevanti per la conduzione della politica monetaria (del cui disancoraggio si preoccupa la Bce) sono quelle di medio termine, in un periodo di circa cinque anni. Tuttavia in un comportamento adattivo, come quello che emerge negli ultimi anni, ciò che si prevede per il breve termine può influire su ciò che si attende per il medio termine. Inoltre, le indicazioni di cui si dispone dipingono un quadro di attese già molto depresso anche per il medio periodo.

Fig. 4 – Aspettative (quantitative) di inflazione nel mercato dei Btp (differenza in punti percentuali tra rendimenti nel mercato secondario dei Btp ordinari e di quelli indicizzati con analoghe scadenze)1 20150115-SCN-Grafico4 1 Quotazioni del 9 gennaio 2015. Fonte: elaborazioni Nomisma su dati Il Sole 24 ore.

Una misura delle aspettative (quantitative) di inflazione può essere ricavata dalla differenza di rendimento nel mercato secondario tra i buoni poliennali del tesoro ordinari (Btp) e quelli indicizzati all’inflazione (Btpi e Btp€) con simili scadenze. Poiché i primi non sono protetti dall’inflazione, mentre i secondi lo sono, la  differenza tra i rispettivi rendimenti rivela la previsione implicita del mercato circa la dinamica futura  dei prezzi. Come mostra la figura 4, le aspettative sul tasso di inflazione italiano che si formano in questo mercato (con riferimento ai Btpi, pannello A) sono estremamente basse: negative (i buoni indicizzati rendono più di quelli ordinari) nei prossimi tre anni, vicinea zero nel 2020. Le aspettative relative al tasso di inflazione euro (con riferimento ai Btp€, pannello B) sono solo marginalmente più elevate di quelle relative all’inflazione italiana, ma risultano sempre negative nella prospettiva dei prossimi anni e pari ad appena lo 0,2% nel 2021 (0,4% nel 2023).

Politica monetaria. La Bce è chiamata, sin dalle prossime settimane, a cercare di neutralizzare queste tendenze. Essa deve contrastare il radicarsi nell’economia delle spinte disinflazionistiche e la caduta delle aspettative che vengono dal petrolio. E lo deve fare supplendo all’esaurimento delle munizioni convenzionali a sua disposizione (la riduzione dei tassi) con lo strumento non convenzionale dell’espansione della liquidità. E’ il quantitative easing (Qe), già perseguito con decisione dalla altre banche centrali e contemplato, infine, anche dalla Bce: acquisti significativi e prolungati nel tempo di titoli pubblici e privati nel mercato secondario. Il Qe dovrebbe conseguire quel che non si può fare più con lo strumento convenzionale: abbassare cioè i tassi di interesse reali, creando inflazione e soprattutto aspettative di inflazione. Riuscirà la Bce in questa impresa? Qui sorge un punto delicato. Quando la Bce  afferma di voler puntare a realizzare l’obiettivo statutario di un’inflazione al 2% per l’eurozona, sta praticamente dicendo di voler perseguire un’inflazione al 3% in Germania. E questo non per un solo anno, ma per tutto il tempo in cui la dinamica dei prezzi dei periferici dovrà rimanere sotto quella tedesca per correggere gli squilibri intra-area (Germania al 3%,periferici all’1% e quindi area euro al 2). Accetta la Germania una simile prospettiva? Il dubbio è che la resistenza tedesca nasconda sotto la nobile preoccupazione che il Qe allenti la pressione a risanare sui periferici, la meno nobile intenzione di bloccare o rendere sostanzialmente inefficace quella che è l’unica politica monetaria idonea per l’area euro, ma che contrasta con gli interessi tedeschi.

Ma quanto dovrebbe essere grande l’intervento a cui la Germania si oppone? Per giungere a una stima approssimativa ci si può chiedere quale è la riduzione del tasso di interesse di policy che sarebbe oggi necessaria per risollevare l’Europa e quanto grande deve, quindi, essere l’aumento della quantità di moneta che equivarrebbe a quella riduzione del tasso nominale di policy.

A questo scopo, nella tabella 1 si riportano il tasso di rifinanziamento vigente della Bce (0,05%) e quello che sarebbe desiderabile sulla base di una policy rule che fa dipendere il tasso di rifinanziamento Bce dal gap dell’inflazione (nell’accezione core e a tassazione costante) rispetto all’obiettivo (2%) e dal gap del  tasso di disoccupazione rispetto al Nairu (o disoccupazione strutturale nella stima Oecd). Se l’inflazione è al livello dell’obiettivo e il gap di disoccupazione è nullo, il tasso desiderato della Bce è uguale a quello di equilibrio[2]. Quest’ultimo è cruciale nel determinare l’appropriatezza della politica monetaria e dipende, a sua volta, dal tasso di interesse reale che assicura l’equilibrio di pieno impiego nell’economia (TIRE). Tale tasso non è, però, costante. Esso scende nelle recessioni ed è presumibile che nella lunga crisi dell’economia euro si sia portato stabilmente su un valore negativo: impossibile da raggiungere quando il tasso nominale di policy è al limite zero e le aspettative di inflazione sono in forte deterioramento.

Come si vede dalla tabella il tasso di interesse vigente della Bce (0,05%) è superiore a quello desiderato, anche supponendo che il tasso di interesse reale di equilibrio (TIRE) non abbia subito un abbassamento con la crisi (con TIRE=2%, il tasso di policy desiderato è -0,15%). L’allontanamento dal tasso vigente diventa ben più marcato quando si considera che il tasso di interesse reale di equilibrio si è sostanzialmente ridotto con la recessione. Se esso fosse divenuto nullo (TIRE=0), il tasso di interesse desiderato dovrebbe essere pari a circa -2%. Se, più realisticamente, si assume che il TIRE sia divenuto negativo (TIRE=-1,5%), il tasso di policy desiderato scenderebbe a quasi -4%. Nella tabella si riporta, poi, un analogo esercizio condotto per l’Italia, stimando il tasso desiderato di policy adeguato per la situazione della nostra economia[3]. In generale, si evidenzia che se l’attuale livello del tasso Bce (0,05%) è restrittivo per l’area euro, lo è molto di più per un’economia come quella italiana che ha un’inflazione più bassa i quella europea ed è in condizioni cicliche peggiori. Assumendo per l’Italia il tasso di interesse reale di equilibrio negativo ipotizzato per l’area euro (TIRE=-1,5%), il tasso di policy desiderato sarebbe -6,7%. Occorre, però, considerare che, data la prolungata recessione, il TIRE italiano si dovrebbe collocare a un livello più basso di quello dell’area euro.

Tab. 1 – Tasso di interesse di policy della Bce vigente e quello che scaturisce da una funzione di reazione di policy in tre differenti ipotesi del tasso di interesse reale di equilibrio, TIRE (TIRE=2%, TIRE=0,0%, TIRE=-1,5); stime riferite a fine 2014 20150115-SCN-Grafico5 Fonte: elaborazioni e stime Nomisma su dati Bce, Eurostat, Oecd

Se questi sono gli ordini approssimativi di grandezza della contrazione che sarebbe desiderabile per il tasso di policy della Bce, quanta immissione di quantità di moneta sarebbe necessaria per raggiungere un effetto comparabile? Nelle discussioni in corso si fa riferimento a cifre comprese in un intervallo molto ampio, tra 500 e 1.000 miliardi di euro. Un’iniezione di 1.000 miliardi (pari a circa 80 al mese) sarebbe equivalente, secondo valutazioni basate sull’esperienza di Qe americana e inglese, a una riduzione del tasso di policy di circa 200 punti base nell’arco di un biennio. Prendendo a riferimento le stime della tabella 1, ciò sarebbe un intervento adeguato per l’area euro se il tasso di interesse reale di equilibrio si fosse semplicemente annullato. Un simile programma risulterebbe, invece, insufficiente se il tasso reale di equilibrio europeo fosse diventato negativo. In questo caso occorrerebbero interventi ben più consistenti, nell’ordine dei 100 miliardi e più di euro al mese. Per la recessione italiana un simile programma sarebbe un fattore importante anche se non decisivo, essendo una misura studiata per la situazione media dell’area euro da cui l’Italia si discosta, come mostra la tabella 1, in negativo.

Qualità e credibilità. La determinazione della dimensione teoricamente adeguata del Qe non esaurisce, però, il discorso sull’efficacia della politica monetaria. Oltre all’entità contano molto la qualità dell’intervento e le modalità di comunicazione. Per la qualità si può osservare che il Qe non può prescindere dall’acquistare titoli del debito pubblico di tutti i paesi membri dell’unione monetaria. Solo in questo modo si possono, infatti, raggiungere le dimensioni richieste. Sotto questo aspetto qualità è sinonimo di quantità. Inoltre, non sarebbe accettabile la messa in capo alle singole banche centrali nazionali degli acquisti dei titoli di stato dei rispettivi paesi: si tratterebbe della negazione della politica monetaria unica.

Ma la comunicazione svolge forse il ruolo più decisivo. L’obiettivo dell’intervento è quello di modificare le aspettative di inflazione, riportandole dai livelli attuali, ulteriormente depressi dal petrolio, al 2%. A questo fine la Bce deve essere in grado di convincere gli operatori che il Qe durerà per tutto il tempo necessario, ovvero anche quando l’inflazione euro si sarà riportata al 2%, perché non conta la realizzazione del target in  un singolo mese o anno, ma il fatto che esso venga incorporato stabilmente nelle aspettative future. E’ la parte più difficile per una banca centrale, ancor più per la Bce alle prese con le resistenze tedesche che minano la credibilità di simili impegni. Per questo il Qe è necessario, ma non è detto che sia sufficiente.

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[1]Nella figura le attese in ogni mese sono associate all’inflazione rilevata nel mese precedente: le attese di dicembre 2014 sono associate all’inflazione dei beni e servizi acquistati con alta frequenza di acquisto di novembre 2014.

[2]La funzione di reazione della Bce (policy rule) è la regola di Taylor basata sull’impostazione proposta da A. Udibe, “The European Central Bank Must Act Aggresively to Restore Price Stability in the Euro Area”, in Rebuilding Europe’s Common Future, The PIIE Biefing, n. 14-5, December 2014. Essa ha la seguente specificazione:

Tasso desiderato = TIRE + inflazione core + 0,5 x (inflazione core – 2%) + 0,5 x 1/okun x (Nairu-tasso di disoccupazione)

Dove 1/okun è il reciproco del coefficiente di Okun (che descrive la relazione tra variazione della disoccupazione e variazione dell’attività economica); per questo coefficiente si assume un valoreuguale a 0,5. L’inflazione core è al netto delle tasse indirette. Quando i due termini in parentesi sono pari a zero, l’economia è in equilibrio e il tasso di interesse desiderato è uguale al suo valore di equilibrio (TIRE + core inflation).

[3]Per l’Italia si assume un tasso di inflazione obiettivo dell’1,5%, considerando che la dinamica dei prezzi del nostro paese deve collocarsi sotto quella media dell’area euro.

Riforma dell’Arpab sì, ma verso una maggiore autonomia

di Prof. Albina Colella (Università della Basilicata)

Si vuole riformare l’ARPAB, ma è necessario riformare anche e soprattutto la Politica Ambientale della Basilicata. Il Governatore lucano Marcello Pittella in un articolo della Nuova del Sud ha dichiarato di voler promuovere la riforma dell’ARPAB, perché diventi organismo affidabile e super partes. Mi auguro che realmente la politica metta l’ARPAB nelle condizioni di divenire tale, concedendogli la necessaria autonomia decisionale, finanziaria e di comunicazione, ovvero che venga garantito che i dati ambientali non siano sottoposti a “filtri” vari prima di essere pubblicati. E’ bene ricordare che il compito istituzionale dell’ARPAB è semplicemente “diagnostico”, ovvero di controllo delle condizioni ambientali del territorio attraverso analisi e monitoraggi, i cui dati sono forniti poi al Dipartimento Ambiente: il resto compete alla politica. Ed è qui che casca l’asino, perché l’ARPAB ha rischiato e rischia di diventare il capro espiatorio di responsabilità che competono invece alla politica. Se la Basilicata oggi si trova ad affrontare tanti disastri ambientali e i conseguenti problemi di salute dei cittadini, è perchè mancano alcuni strumenti di pianificazione territoriale di cui deve farsi carico la politica. In Basilicata manca ad esempio il Piano di Tutela delle Acque, nonostante la presenza di attività petrolifera e i rischi connessi. È grazie all’assenza di un Piano delle aree di Salvaguardia delle acque superficiali e sotterranee destinate al consumo umano che in Val d’Agri le società petrolifere hanno potuto perforare anche nelle aree di ricarica degli acquiferi, o a due passi dagli invasi, aree cioè molto vulnerabili all’inquinamento, aree dove in altre regioni non è permesso. E’ grazie a questa inadempienza che l’oleodotto del pozzo petrolifero Pergola1 rischia di essere realizzato in un territorio non solo ad alto rischio sismico, idraulico e di frana, ma anche nelle aree di ricarica di alcuni preziosi acquiferi della Val d’Agri. In Basilicata manca anche il Piano dei Rifiuti, mancano i Piani di zonizzazione degli Idrocarburi, dei Nitrati, dei Fitofarmaci, degli Interferenti Endocrini, delle Diossine, ecc.. Oggi si pensa ottimisticamente che la bonifica delle falde acquifere della Val Basento possa risolvere l’inquinamento, senza sapere che, oltre ad essere lunga, non è affatto garantito il risultato, sempre che i bandi non siano stati bocciati dal Ministero, come qualcuno sussurra.

In passato sono stata molto critica nei confronti dell’operato dell’ARPAB, al punto da condividere anche delle denunce, ma oggi devo ammettere che negli ultimi tre anni sono stati fatti passi da gigante, considerando la gravità dei problemi ereditati dalla nuova gestione. Ho appreso del ridotto staff tecnico di laboratorio, della necessità di risanare debiti per circa 6 milioni di euro, situazione che ha impedito l’adeguamento dei laboratori, e del mancato introito delle risorse ENI: a quanto pare non sarebbe stata attivata dal Dipartimento Ambiente l’intesa ENI-Regione, che prevedeva oltre alle royalty anche 3 milioni di euro l’anno per i monitoraggi della Val d’Agri a cura dell’ARPAB a partire dal 2004-2005. Con la gestione del Direttore Raffaele Vita il debito è stato sanato, l’entrata dei ricercatori dell’Agrobios ha portato nuova linfa potenziando il settore di ricerca, la diagnostica è aumentata e sono state analizzate per la prima volta le diossine, i laboratori lavorano in qualità, sono state acquistate nuove apparecchiature, come il laboratorio mobile per le diossine, si sono attivati nuovi laboratori e se ne stanno allestendo altri. Sotto state attivate anche collaborazioni scientifiche mediante convenzioni, come quella con l’ARPA Puglia per le diossine, e se ne stanno attivando altre con l’università e altri centri di ricerca, il sito internet dell’ARPAB si è arricchito di dati ambientali di vario tipo, e sono state prontamente recepite le istanze provenienti dal territorio, come ad esempio la misura degli idrocarburi nelle acque e nei sedimenti del Pertusillo, dopo che ne avevamo denunciato la presenza. Si può dunque affermare che il cambiamento sia in atto. E ora si parla di riforma dell’ARPAB. Non è che per caso si ritorna indietro ? Mi auguro che se riforma ci sarà, questa sia volta a promuovere lo sforzo di autonomia e indipendenza dagli organi politici: solo così l’ARPAB sarà credibile.

 

Un centro di ricerca euromediterraneo sulle tecnologie e risorse energetiche del futuro. In Basilicata

di Massimo Preziuso (su L’Unità)turbina

La Lucania è terra di risorse naturali preziose, che la dovrebbero rendere tra le più ricche di Italia.

Eppure, da sempre, e ancora oggi, le statistiche economiche dicono incredibilmente il contrario.

Secondo dati pubblicati dalla Banca di Italia, la regione Basilicata risulta sempre più arretrata nel contesto nazionale. PIL 2012 al -3% , disoccupazione attorno al 15% e accentuata caduta della produzione industriale, del 9,5% rispetto al 2011.

Senza una forte presenza di piccola e media impresa diffusa, capace di competere sui mercati internazionali (anche e soprattutto per carenza di infrastrutture), la Regione in questi anni è sopravvissuta al tornado della crisi soprattutto grazie alle imponenti attività estrattive di petrolio e gas. Le compagnie petrolifere infatti estraggono enorme ricchezza dal territorio in cambio delle cosiddette “royalties” compensative.

Con risorse davvero ingenti – solo 2011  erano pari a 120 milioni di euro (di cui 100 milioni destinati all’ente Regione) – al netto di alcune interessanti ed iniziative in ambiti “nuovi” per la Basilicata (come il cinema, la cultura), non si è riusciti finora a disegnare alcun vero cammino di sviluppo sistemico. A livello regionale le royalties sono infatti servite al finanziamento di voci di bilancio (università, sanità), al finanziamento di “buoni benzina” (!), mentre a livello locale al più all’avvio di piccoli progetti occupazionali.

E proprio nei giorni scorsi l’Unione Europea certifica la retrocessione della Regione Basilicata, che torna tra le regioni “Ex – Obiettivo 1”.

E allora, passati vari anni dall’inizio di questo ciclo estrattivo intensivo – che non durerà all’infinito e che impatterà pesantemente l’ambiente – in tanti  si chiedono se e come esso potrà ancora determinare un impatto positivo sullo sviluppo di lungo periodo della Regione.

E’ evidente infatti che la rendita assicurata da risorse naturali – postulata nella staple theory – non è un fenomeno naturale, soprattutto in una Regione povera e piccola come la Basilicata, carente di un sistema di imprese diffuso.

Ed è proprio quella – l’imprenditorialità diffusa – la condizione necessaria allo sviluppo territoriale legato allo sfruttamento di risorse naturali, come quelle petrolifere. L’impresa quale moltiplicatore di sviluppo.

Ma è anche evidente che – per essere competitive e quindi insediarsi – le imprese necessitano di un milieu adatto.

Ebbene, oggi ci sono proprio tutte le condizioni al contorno per crearlo questo contesto “imprenditivo”:

– La Strategia Energetica Nazionale pone su un piano di forte centralità la Basilicata nel futuro dello sviluppo energetico ed economico del Paese.

Si parla infatti della realizzazione di un hub energetico dell’euro mediterraneo e si indica nella Basilicata il baricentro di una piattaforma di servizi di alto livello nel settore della distribuzione, attraverso imponenti attività di stoccaggio e lo sviluppo di una rete “smart” su scala europea e mediterranea.

– Il memorandum Stato – Regione sul petrolio lucano approvato nel mese scorso continua ad andare in questo senso, anche se va assolutamente “rinforzato” nella qualità e nella quantità della progettualità ipotizzata, ed equilibrato nella sua visione “centralistica” di governance di risorse che sono “locali”.

– La prossima programmazione dei fondi europei 2014-2020 prevede la necessità di un approccio “strategico” e di “originale” allo sviluppo delle regioni in ritardo di sviluppo.

Dunque, se al futuro davvero si vuole arrivare, e non ci si vuole ritrovare invece con un territorio semplicemente depauperato di risorse naturali e di ricchezza ambientale, è bene cominciare a parlare di una strategia di sviluppo, che sia “sostenibile” sia da un punto ambientale che da un punto di vista economico, che sia “strategico”, e che sia “originale”.

E’ per questo necessario partire dalla messa a rete del sistema dei saperi universitari e dell’industria energetica attorno allo sviluppo di un distretto delle tecnologie e risorse energetiche del futuro. Un progetto che veda protagonisti per primi i colossi petroliferi “lucani”– ENI, TOTAL e SHELL – e la Regione Basilicata, insieme nel promuovere un nuovo utilizzo delle royalties petrolifere nel rapido disegno e successiva implementazione di una strategia che guardi al futuro.

Un progetto, questo, di chiara valenza internazionale, in quanto centrale per lo sviluppo delle politiche energetiche dell’area euro – mediterranea, che quindi deve vedere coinvolta la Commissione Europea e i fondi strutturali 2014-20, oltre alle risorse derivanti dall’estrazione petrolifera.

Di un polo energetico internazionale si parla da tempo nel documento Strategia Regionale per la Ricerca, l’Innovazione e la Società dell’Informazione della Regione Basilicata. 

E la realizzazione di un distretto dell’energia è presente tra i progetti presenti nel “Memorandum petrolifero” tra Stato e Regione da poco pubblicato in Gazzetta ufficiale.

La Basilicata può oggi ambire a diventare il principale hub di ricerca e sviluppo di base e applicata (all’impresa) nei settori della manifattura legata all’energia del futuro (rinnovabile e fossile).

E così porsi come attrattore di nuove imprese, investimenti e professionalità internazionali.

Questa è la Lucania che si deve osare ad immaginare da adesso. Ed oggi ci sono proprio tutte le condizioni politiche al contorno per farlo.

L’alta velocità ferroviaria per il rilancio della Basilicata

di Massimo Preziuso (su Il Quotidiano della Basilicata)

E’ un periodo davvero strano quello che stiamo vivendo, a tutti i livelli. Nel mondo continuano e si sommano crisi di vario tipo, che ci dicono che la abbuffata fatta negli ultimi dieci anni di globalizzazione ora va pagata. In Europa ormai da cinque anni, importando e accogliendo una crisi “molto” americana, siamo entrati dentro una nuova, quella dell’euro, che in pochissimi anni è diventata oggi la crisi di tutti noi. E in Italia, Paese in poco tempo diventato a “sovranità limitata”, le cose nella società e nell’economia vanno male, aldilà delle rappresentazioni che si vogliono dare ad una presunta recuperata “credibilità internazionale” sotto la guida di un governo di “illuminati”.

Ma nelle “crisi vivono le più grandi opportunità”. E questo potrebbe essere il caso della piccola Basilicata, che può proprio in questi tempi trasformare limiti strutturali in grandi opportunità. Infatti,  proprio in questi anni così negativamente speciali la Lucania sta recuperando una potenziale centralità. Capita spesso di sentirsi dire: “La Basilicata è l’ultima Regione di Italia in cui si può investire e tanto”. “Ma scherzi, non abbiamo il contesto adatto per gli investimenti. Siamo scollegati. Non abbiamo cultura imprenditoriale” si risponde a caldo. Poi, riflettendoci bene, viene da aggiungere: “In effetti si potrebbe fare tanto in Basilicata. E’ un territorio pieno di risorse naturali (acqua, aria, sole, vento, di combustibili fossili (petrolio e gas), è geograficamente al centro del mezzogiorno, ha un enorme bacino di professionalità con cultura universitaria e molte volte scientifica, non è sede di criminalità diffusa. Ha una nuova classe dirigente giovane e preparata”.

E proprio in questi giorni anche lo SVIMEZ ha detto che “la Basilicata è la Regione più dinamica del Paese”, nonostante abbia i classici ed enormi problemi di una Regione del mezzogiorno di Italia. Ma allora cosa realmente manca in Basilicata per trasformare questo “dinamismo” in attrazione di investimenti, talenti e tecnologia? A mio avviso manca proprio quella cultura imprenditoriale che solitamente nasce attorno a grandi progetti infrastrutturali che facciano da volano allo sviluppo della Regione. Si obietterà che queste lacune regionali sono però dovute alla scarsa densità economica e di domanda aggregata che possa permettere la realizzazione di grandi progetti e investimenti. Ma, se è vero questo, nello stesso tempo è sempre in Lucania che le aziende petrolifere estraggono miliardi di euro l’anno di petrolio e gas naturale,  lasciando ad oggi alla Regione nessun progetto di lungo periodo (forse perché non sollecitate in tal senso).

E allora si potrebbe provare a rilanciare proprio fissando lo sguardo più attentamente su questo tema. Si potrebbe per esempio decidere finalmente di investire parte delle risorse ricavate dall’estrazione e destinate come royalties alla Regione e ai comuni interessati  – invece che in buoni benzina o in piccoli progetti locali disordinati e senza visione – nel project financing di una infrastruttura ferroviaria in alta velocità che colleghi la Basilicata con il corridoio europeo Sud – Nord, mettendola al centro del mezzogiorno e rendendola naturale calamita di risorse e progetti. Molti obietteranno che una tale infrastruttura non è fattibile economicamente per la solita “mancanza di domanda” (in questo caso di flussi di viaggiatori) o perché “il tracciato è inserito in una geomorfologia troppo complessa”  (per troppa pendenza o cose simili). Ma, con volontà politica e con ingenti risorse pubbliche e private, l’alta velocità in Basilicata si potrebbe di certo fare. Ed ha senso investire oggi in un serio studio di fattibilità per poi eventualmente inserire tale infrastruttura nel gruppo delle grandi opere pubbliche europee da realizzare.

Qualcosa va assolutamente fatta – se non l’alta velocità un aeroporto – per connettere la Lucania con un mondo di persone e di risorse che la vogliono fortemente incontrare. Il momento è adesso.

 

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