Significativamente Oltre

leonardo maugeri

Se si può trivellare e rispettare l’ambiente

maugeri di Leonardo Maugeri su Il Sole 24 Ore

Il decreto Sblocca-Italia sta creando una forte contrapposizione tra Governo, enti locali e larghe fatte della popolazione su un tema delicato, che non si presta a facili semplificazioni: è giusto dare libertà di trivellazione per produrre più petrolio e gas dal sottosuolo italiano ? E soprattutto, i rischi sono compensati da innegabili vantaggi ? Il tema è complicato da posizioni ideologiche e dati manipolati dalle parti che si confrontano al calor bianco, principalmente l’industria petrolifera e i vari movimenti ambientalisti.

Cercare di far ordine, pertanto, rischia di provocare attacchi violenti dall’uno e dall’altro schieramento.   Partiamo dal dire che, comunque si mettano le cose, l’Italia ha una dotazione molto modesta di idrocarburi. Allo stato delle attuali conoscenze, le uniche riserve di una certa consistenza si trovano nell’Alto Adriatico (gas naturale) e Basilicata (petrolio). Per il resto parliamo di piccoli giacimenti che in nessun modo potrebbero contribuire a rendere l’Italia meno dipendente dal petrolio e dal gas importati. Peraltro, dal punto di vista della sicurezza energetica, almeno nel caso del petrolio ha poco senso affannarsi nello sfruttamento di risorse interne poiché il mercato internazionale è aperto e ricco di fornitori e si può tranquillamente coprire il fabbisogno interno con importazioni. Diverso è il caso del gas, dove il mercato è in mano a pochi fornitori – Russia in testa – le cui forniture possono venire a mancare in momenti delicati. In questo caso, meglio sarebbe poter disporre di una riserva strategica del gas europeo, cioè di gas acquistato e stoccato in giacimenti esauriti e pronto per essere utilizzato in caso di emergenza. Si potrebbe obiettare: sì, ma per quanto limitato, lo sfruttamento di risorse interne crea posti di lavoro, investimenti e gettito fiscale. È vero, ma in modo più modesto di quanto sostenuto da alcune parti.

Anzitutto, l’industria del petrolio non è ad alta intensità di lavoro. Si pensi, per esempio, che la Saudi Aramco, il gigante di stato saudita che controlla le intere riserve e produzioni di petrolio e gas dell’Arabia Saudita, impiega circa 50.000 persone (molte delle quali solo per motivi sociali) per gestire una capacità produttiva che, nel petrolio, è oltre sette volte il consumo italiano, mentre nel gas è superiore del 40% al fabbisogno nazionale. Inoltre, le possibili produzioni italiane cui dare mano libera sarebbero vantaggiose (aldilà degli aspetti fiscali) solo se si tengono sotto stretto controllo i costi, e quindi si limita l’assunzione di personale. Infine, gran parte dei siti produttivi si controllano con poche persone, in molti casi da postazioni remote. Anche nel caso di un via libera generalizzato alle trivelle, quindi, è alquanto dubbio che si possano creare i posti di lavoro di cui si è parlato (25.000): forse il numero sarebbe di poche migliaia.

Perché l’Italia non innova più

di Leonardo Maugeri (su Il Sole 24 Ore)

In questi ultimi mesi mi sto occupando di trovare finanziamenti negli Stati Uniti per alcune start-up molto innovative in settori in cui le loro invenzioni avrebbero un’immediata e dirompente applicabilità – se di successo. La relativa facilità sia del contesto, sia di trovare interlocutori pronti a rischiare il loro denaro, mi ha spinto a un amaro parallelo con quanto avviene in Italia.

Mentre l’America continua a rigenerarsi e a uscire da ogni crisi grazie a moti periodici di innovazione, l’Italia non inventa più da troppi anni. E questa è una causa del suo declino economico.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, il miracolo economico italiano fu sostenuto dalla straordinaria inventiva di un popolo che non aveva grandi capitali: eppure, dalla chimica all’industria dei trasporti, dagli elettrodomestici alla meccanica di precisione, il nostro era un Paese che inventava, brevettava e trasformava in industria il risultato delle sue scoperte. Ricercatori innovativi trovavano capitani d’industria (allora era giusto chiamarli così) culturalmente pronti a sposare l’innovazione, a investirci sopra, a scommettere su nuovi prodotti che avrebbero cambiato il mercato e consentito di generare ricchezza e lavoro. Questo connubio naturale tra ricerca e industria, peraltro, rendeva la prima più concentrata sui bisogni e le aspettative della seconda, evitando così di disperdere risorse su filoni che non avevano prospettive commerciali. Di quel terreno fertile, è rimasto poco o niente. I ricercatori italiani sono di ottimo livello internazionale, nonostante siano pagati malissimo e siano dimenticati da tutti. Anche per questo, il numero dei brevetti italiani si è più che dimezzato rispetto agli anni Sessanta, e i brevetti di oggi spesso rappresentano solo migliorie all’esistente, non innovazioni tali da introdurre discontinuità di mercato. Molte università non hanno nemmeno un ufficio brevetti e – se lo hanno – non hanno alcuna idea di come valorizzare un brevetto. Nella mia esperienza industriale ho avuto esempi deprimenti di questa mancanza, su cui è meglio stendere un velo pietoso. Allo stesso tempo, i capitani d’industria dell’Italia post-bellica hanno lasciato il campo a grigi manager capaci di tarare le loro azioni solo sull’esistente e per un orizzonte temporale non superiore a tre anni, quello che – per il codice civile – esaurisce il loro mandato.
Per tutti loro, la ricerca è fondamentale solo a parole, in termini di comunicazione e immagine. Eppure, senza la capacità di generare nuove attività economiche basate sull’innovazione, le possibilità di crescita di un Paese sono nulle, e l’unica via è quella di competere sul costo del lavoro. Scelta che ci porterebbe verso il terzo mondo. E’ possibile cambiare questo stato di cose? Forse.
Ma occorre agire all’unisono su almeno sette fronti.
Primo: occorre liberare dalle tante vessazioni che li opprimono e dare un ruolo preminente a fondi di investimenti privato, private equity, venture capital etc. disponibili a investire nelle piccole società innovative. Nelle aree più produttive di idee degli Stati Uniti, come la Silicon Valley o Boston, ne esistono a centinaia, spesso migliaia. In Italia, secondo i dati di “Start Up Italia”, esistono solo 1.127 start up innovative, di cui solo 113 finanziate, per un misero totale di poco più di 110 milioni investiti nel 2013. Niente, rispetto agli oltre 10 miliardi di dollari che – nel 2013 – i soli venture capital statunitensi hanno trainato su start-up americane. Nel complesso, esistono (dati Aifi – Associazione Italiana Private Equity e Venture Capital) non più di 13 venture capital (contro i quasi 2.000 degli Stati Uniti o gli 800 della Germania). Ugualmente misero è il numero delle società di private equity. Con questi numeri non si va da nessuna parte. Un’ampia presenza di fondi privati e venture capital, invece, è fondamentale in quanto da noi manca una grande industria le cui articolazioni possano svolgere il ruolo di “pillar companies” – società pilastro, in grado esse stesse di finanziarie e aiutare le start-up nel loro percorso di crescita. Tuttavia, i pochi investitori nell’innovazione sono sottoposti (in quanto raccolgono capitali privati) a un sistema di vigilanza spesso vessatorio, che andrebbe drasticamente ridimensionato.
Secondo: i fondi privati dovrebbero godere di tassazioni agevolate, in particolare sugli investimenti in conto capitale. Per la fase iniziale della loro vita, si potrebbe addirittura pensare a annullare o rendere minimi tutte quegli esborsi (oneri di costituzione e registrazione, etc.) in modo da rendere attraente anche per fondi stranieri l’ingresso nel nostro Paese. Si tenga presente l’investimento in piccole società innovative è a altissimo rischio, in quanto la percentuale di start-up che muoiono prima di arrivare alla commercializzazione di un prodotto supera di gran lunga quella di quante hanno successo. Secondo un recente studio di Harvard, per esempio, solo il 25 percento delle start-up americane ha successo, nel senso che produce innovazioni vere e reddito per chi ci ha investito: ma è proprio quel 25 percento che rappresenta l’onda di continuo rinnovamento dell’economia americana. In un sistema perfetto, nessun problema: il tipico investitore si attende che i profitti realizzati su due delle dieci start-up su cui ha messo soldi eccedano di gran lunga gli investimenti complessivi. Ma in un sistema che deve decollare, come quello italiano, senza forti incentivi (e con le tante vessazioni di cui ho parlato) è difficile pensare che il capitale di rischio si muova agevolmente.
Terzo: bisogna smettere di pensare che tutta la ricerca sia utile, e quindi degna di finanziamento. In assoluto può essere anche vero, ma in pratica – per un Paese che deve ripartire – è un’idea velleitaria e dannosa. Occorre puntare su quei filoni che, in questo decennio, possono avere una grande potenzialità di mercato e in cui le barriere d’ingresso e i vantaggi accumulati dai concorrenti non siano già insormontabili. Queste caratteristiche, per esempio, escludono l’energia nucleare, ma non l’energia solare, le biotecnologie, la remediation ambientale, la chimica verde, il riutilizzo dell’acqua, i nuovi materiali a basso impatto energetico e ambientale, e molto altro ancora.
Quarto: la ricerca deve essere collegata al mercato e confrontarsi con esso. In realtà, questo aspetto è un corollario del precedente. Il ricercatore deve capire di che cosa ha bisogno il mondo che gli sta intorno e cercare di trovare delle risposte. Allo stesso tempo, deve essere in grado di presentare un business plan articolato a potenziali investitori. Pochissimi sono preparati su quest’ultimo aspetto: le università che fanno ricerca dovrebbero introdurre dei corsi specifici sull’argomento.
Quinto: tra università e l’universo di fondi e società che finanziano piccole società innovative deve esistere una sorta di simbiosi. Non a caso, grandi società, venture capital, private equity assediano letteralmente i campus del MIT o di Harvard. Da noi, come ho già osservato, gran parte delle università ha perfino difficoltà a dare valore alla proprietà intellettuale che produce, e non prepara i propri ricercatori a mettersi sul mercato. Tra i parametri di finanziamento della ricerca nelle università italiane, pertanto, dovrebbe entrare un meccanismo che consenta di misurare quel valore. Questo renderebbe più agevole e auspicabile l’erogazione di fondi di ricerca all’università – sia pubblici sia privati – e consentirebbe alle stesse università di creare fondi per finanziare spin-off e start-up da cui trarre royalty con cui finanziare altra ricerca (come fanno le grandi università americane), o per vendere le loro quote nel momento più propizio, anche attraverso periodiche esposizioni aperte agli investitori (vere e proprie mostre) delle ricerche più interessanti in atto, come fanno Harvard e MIT.
Sesto: lo stato dovrebbe limitarsi a finanziare la ricerca di base, una volta individuati i filoni di ricerca che meritano finanziamento. Chi riceve il finanziamento dovrebbe comunque presentare dei piani in cui siano presenti le tappe fondamentali che si vogliono conseguire con la ricerca, i tempi previsti per ciascuna tappa, l’originalità e la potenziale competitività di ciò su cui si lavora. Periodicamente, tutti questi aspetti dovrebbero essere rendicontati per evitare che si continuino a gettare soldi al vento per anni senza alcun controllo. Potrebbe partecipare anche al capitale di rischio dei fondi creati da università o soggetti privati.
Settimo: la proprietà intellettuale va difesa. In Italia lo si fa pochissimo, cosicché la possibilità di “scippi” di idee innovative è sempre in agguato. Il problema investe la scarsa specializzazione di studi legali e di altre organizzazioni professionali specializzate in materia. Visto che il mercato da solo non può dare in brevi tempi una risposta a questo problema, forse sarebbe più utile che lo stato o le regioni creasse questo tipo di organizzazioni sul territorio.

 

Interview to Prof Leonardo Maugeri, italian talent at Harvard

ENIby Massimo Preziuso on R-Innovamenti

Good morning, Professor. First of all, thanks for this opportunity. You are a clear example of an “exported” italian talent. After a brilliant career in the giant ENI, in 2011, yet in your forties, you decided to change and go back to the academy. Today you teach at the prestigious Harvard University, you are also an Advisor of the U.S. government on energy issues, and author of several books, including a best-selling book I read these days (“With all the energy possible”), and much more.

1) Why this so sudden and radical change?

I prefer that time sediments before answering this question.

2) Italy Vs United States: who wins?

There is no competition. For years, I agree with the judgment of Bill Emmott on Italy, and now unfortunately our country has reached a level of no return. Dominated by a pathological corruption and a ruling class completely inadequate, but self-sustaining with the mechanism of co-optation, no credible growth can be prospected. The country dropped out of research and high-level training, the first engines of development of each nation, and with no more than a handful of large industrial groups, it fails to produce technology or innovation, and on a small scale it is incapable of critical mass.

In the United States, with all the problems that do exist, there is a surprising vitality. Research, innovation, continuous transformation, are still factors supporting the country. Here it is still true that a total stranger, without family or possibility behind, can use all the great strength of his ideas or his talent. In addition, the country still manages to attract – especially thanks to its universities and its research centers – the best talent in the world.

3) How do you feel as an Italian talent in the United States, in these so turbulent years, while our country really needs skilled people like you to survive and “live”?

Mine it is certainly not a unique case. Simply put, those who have talent must find other ways away from Italy, because the talent is not within the selection criteria of our country. Acquaintances, memberships, willingness to accept the rules of a sick system are the only factors that count.

4) How to create real bridges of opportunity between Italy and United States? Which is the possible role for “ambassadors” like you?

If the country does not change radically, it is impossible for anyone to build real bridges of opportunity.
One has to wonder: why an American company should have an interest in investing in Italy, compared to all the other opportunities available in the world? What is our added value? Americans love Italy as a holiday place, not as a place of investment.

5) Competition Vs Equality: how to solve this “trade-off” of world views?

In my view, the coexistence of a competitive society and a society of equality is the main factor that made the West stronger than the rest of the world in the 20th century. A society has a need for equality of departure, because only in this way can bring out the best talent. The wealth generated by a society that feeds of competition, on the other hand, generates wealth and growth that – with fair and wise policies of redistribution – can support the most needs of the part of population which can be left behind and offer means for equality of departure. In poor societies this possibility does not exist.

6) Workers and Producers: what a way to make them work together to renew and rebuild this beautiful country?

There is a common interest: to focus the attention of the legislator in facilitating investment, reducing the bureaucracy that now prevents companies to invest and operate, cutting off the corruption that makes the game artificial, lowering over time taxes on companies. At the same time, the legislator should abandon the sterile question of scaling of workers’ rights. Try to ask why a foreign company does not invest in Italy, where it will close after a few years laying off all the workers ..

7) Energy policies: what a sustainable future? Do you believe to the opportunities, proposed by Monti government, that should come with the establishment of a gas hub in the Mediterranean, centred in Basilicata?

I believe that, for some decades to come, fossil fuels will constitute a large part of the energy needs of humanity, because their energy density has yet to find substitutes. At the same time, I think that the first decades of the century shall constitute the “workshop” that will produce the technologies needed to break down the role of fossil fuels in the future. For this scientific research is essential and, given what is happening in countries like the United States, I expect great technological breakthroughs – especially in solar energy – in the coming years.

As for Italy gas hub, It continues to feed many doubts to me for a number of reasons. First of all, I saw that the Antitrust now highlights a risk that I pointed out for years. For a gas hub (and a spot market) there must be an overabundance of infrastructure, functional to allow a high variability of flows of gas under different market conditions: who pays for this infrastructure (pipelines, pumping stations, storage)? Of course, the consumer pays the bill. May be fine, but the consumer is aware of? I doubt it. Furthermore, in a market characterized by a gas bubble (an excess of supply over demand, which I had already forecast years ago) as the European one, the pipelines in excess could go to a minimum capacity, but the consumer should pay the same the cost of their construction. With such advantages? And for who?

8 ) As Innovatori Europei, along with other environmental organizations, we are studying the theme “Sustainable Taranto” and the opportunity for the next Italian government to facilitate a smooth transition in the industrial production of “electric cars.” What do you think about that?

Look, I conceived and initiated the implementation of one of the most ambitious industrial reconversion of Italy, that of the petrochemical plant of Porto Torres in Sardinia, orienting it to green chemistry. When I did it, I first analyzed the economic prospects of a certain type of green chemistry, to be sure not to create another industrial illusion doomed to fail with time. Only once some of the economics came true, my company at that time called Polymers Europe, today Versalis – the Eni company in the chemistry,  started up the project.

That of electric cars is a good idea, but needs first of all a strict economic analysis. I believe in the future of the electric car, and I also think that this future will come from Asia, not the old world. In Italy, the fundamental problem is that there are not enough distribution networks, and build them would cost billions of euro. To foster the electric car market, it would take specific regulations, even at no cost, but very hard, for example, prohibit the movement of conventional cars with a certain age in the inner cities.

I should study more thoroughly the issue. Perhaps, at the stage where we are, it would be more feasible to offer a big producer – best if asian – special conditions to build plants for hybrid cars, which are starting to have a certain market and are really fantastic. Even many Americans are starting to change. For special conditions I mean radical fiscal conditions (for example, zero taxes in the first 5 years). It would always be less than the direct intervention of the state, and then the taxpayer.

9) Innovatori Europei wants to become a “bridge” for project opportunities and political relations between Italy, Europe and the World. Among others, we are twinned with an innovative political reality operating in North America. Is the idea of ​​putting together the Italian communities in the world around an intellectual and political project interesting for your opinion?

Yes, especially to the extent that he could reconnect many Italians of great value that have left Italy because there were no spaces and have then also experienced a great success. They are a heritage for the future Italy. But this is a project that takes time and a patient and focussed building process. There were already too many initiatives improvised and ephemeral in the recent past.

Thank you.

Thanks.

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