Significativamente Oltre

innovatori

Messaggio alla Nazione

flagdi Alberto Forchielli

Quello che il Presidente della Repubblica non può dire agli Italiani

Inizia un nuovo anno e sappiamo già che il trend per l’Italia del prossimo futuro non cambia. Molte imprese non saranno in grado di pagare le tasse, i contributi e i costi del lavoro e scivoleranno nel nero con imprenditori e lavoratori stranieri. La criminalità organizzata si allargherà. Le imprese moderne esportatrici si asserraglieranno in distretti, dove saranno circondate da sofisticati sistemi di sicurezza. La sfida non sarà una crescita del PIL misurato con parametri canonici (che non funzionano), ma la ricerca di un equilibrio tra queste tre forze per evitare che l’illegalità si mangi tutto e ci riduca in una terra di nessuno. In Messico questa sfida è all’ordine del giorno come lo è in Italia, ma noi non vogliamo rendercene conto perché vorrebbe dire una cosa sola: ammettere che la colpa è di tutti noi italiani che abbiamo un basso tasso di civiltà sociale e di educazione.

Come siamo arrivati a ciò? Non abbiamo investito in educazione, abbiamo sprecato risorse pubbliche e abbiamo caricato gli sprechi sulla classe produttiva che si restringe. Inoltre la burocrazia non lavora e non funziona, non abbiamo formulato leggi adeguate per combattere la criminalità, anche quella spicciola, non abbiamo investito in carceri e nemmeno per tenere le strade pulite.

In tutto questo, il ruolo – negativo – della politica è stato ed è enorme. E oggi, la politica, una volta per tutte, invece di continuare a comprare consenso con fondi pubblici, dovrebbe avere il coraggio di dire la verità. Dovrebbe far capire agli italiani che se si rimboccano le mani adesso, i benefici li vedranno le generazioni future. Dovrebbe educare e dare il buon esempio (su, non ridete) e farla – la politica – dovrebbe essere un sacrificio, non un mestiere (dai, smettete di ridere, parlo sul serio). Al contrario, il livello dei politici nostrani è bassissimo. Addirittura c’è ancora qualcuno che tra ignoranza e populismo auspica un’uscita dell’Italia dall’Unione Europea. Mentre restarvi aggrappati è una necessità di salvezza, perché uscirne significherebbe venire risucchiati dall’islamizzazione. La politica, inoltre, dovrebbe partorire una seria strategia economica. Sarebbe servita tanto nei decenni passati, con il risultato che adesso corriamo a tappare buchi non tappabili – Ilva, Alitalia, Il Sole 24 Ore… – perché non esistono più le risorse per fare una politica economica pro-attiva.

A livello economico servirebbe un grande trauma affinché la gente capisca, finalmente, che si deve lavorare meglio, più a lungo e con maggiore qualità. Mi spiego. “Meglio” vuol dire con più attenzione e dedizione anche nelle cose piccole. “Più a lungo” significa meno pause caffè, meno file a timbrare il cartellino, meno permessi malattia inesistenti, meno Facebook sull’orario di lavoro o telefonate personali, in pensione più tardi, eccetera. “Qualità”, infine, indica l’uso del cervello, con dei plus non da poco, come proporre dei miglioramenti, assumersi delle responsabilità e andare oltre il mansionario.

Sempre a livello economico, qualcuno si arrampica sugli specchi invocando le nostre poche eccellenze. Bene, sappiate che le nostre multinazionali “tascabili” hanno già fatto tanto, forse tutto. Altre non ne nasceranno. Invece molte se ne andranno trasferendo la sede direzionale in altri Paesi. In questo senso, non c’è dubbio che dovevamo globalizzarci di più in passato ed essere più presenti per attrarre clienti e capitali ma ormai quello che potevamo fare l’abbiamo fatto e adesso siamo troppo piccoli per fare di più. Ora avremmo bisogno di avere il mondo che viene da noi ma con questo mix di criminalità, burocrazia e vincoli sindacali – che proteggono i pensionati a scapito dei giovani – è utopico anche solo pensarlo.

Per crescere, anche a livello internazionale, il ruolo dei servizi è gigantesco, ma noi non siamo presenti in segmenti chiave come finanza, software, media e telecomunicazioni. Ci rimane solo il turismo che perde colpi e quote di mercato. Si potrebbe riprendere il cammino con grandi investimenti nella scuola e nell’università ma mancano i soldi. Mentre dalla rivoluzione digitale tutti i settori possono trarre benefici, ma la tecnologia chiave non è mai la nostra. E nell’applicazione siamo sempre indietro. Per competere, nel mondo odierno, bisogna essere migliori degli altri e noi non lo siamo.

Non lo siamo per diversi motivi, non ultimo per colpa anche della gestione famigliare di troppe nostre imprese, a scapito di vere managerialità, con il papà che ha fatto l’azienda e che poi i figli viziati l’hanno distrutta (salvo casi rari). Perché è una rarità genetica che a un padre eccezionale segua un figlio altrettanto eccezionale. E per fare gli imprenditori in Italia servono persone super eccezionali (e ne nascono poche che intelligentemente capiscono presto che andare all’estero è la cosa migliore).

I manager – lo sono stato anch’io un tempo – potrebbero avere un ruolo chiave nel riscatto economico del Paese ma per l’appunto sono spesso soffocati dalle famiglie. Nelle poche grandi imprese italiane non danno il meglio di sé mentre in quelle straniere eccellono. E purtroppo la capacità di lavorare e gestire organizzazioni complesse non è nel DNA italico. Nella Seconda guerra mondiale avevamo una Marina più grande di quella inglese nel Mediterraneo, ma facemmo più danni agli inglesi con un manipolo di uomini dei mezzi d’assalto che con tutto il resto della flotta. E basta studiare la sconfitta di Adua, di Caporetto o le tragiche offensive sull’Isonzo della Prima guerra mondiale, con generali cretini e ufficiali di complemento e soldati coraggiosi che operarono nella più totale disorganizzazione. L’Italia è sempre stata questa: comandanti inadeguati ed eroi per caso.

Come altri grandi Paesi dell’Occidente anche noi potremmo sfruttare le “diversity”, puntando su giovani, donne, persone di altre nazionalità e culture. Ma in Italia viene il peggio, gente con bassa produttività, scarsa attitudine al lavoro e alto tasso criminalizzante. Del resto le nostre scuole non incoraggiano e la mancanza di galere fa dell’Italia il paradiso della criminalità e del lavoro in nero. Insomma, il Messico d’Europa.

Perciò ai giovani dico di imparare un mestiere “tradeable”, ossia esercitabile ovunque nel mondo e andare via. Invece, per chi ha il coraggio di rimanere, l’Italia resta un Paese fantastico, dove funziona la sanità (a parità di costo), la ristorazione (perché non richiede un sistema), alcuni altri settori (come vino, ceramiche e macchine automatiche), le bellezze paesaggistiche (che non possono essere rubate), la nostra storia (perché il passato non si cambia ed è pieno di geni ed eroi ed io spesso mi ci tuffo per dimenticare il presente). E se anche l’economia non cresce, serriamo le righe per vivere bene anche con meno disponibilità materiali. Diamo priorità a sicurezza, ritroviamo le vecchie solidarietà di paese, colleghiamoci con il mondo, rimettiamoci in marcia per un lungo cammino senza aspettare governi miracolosi o altre soluzioni funamboliche tipo uscire da euro o da Unione Europea. Rimettiamoci tutti a studiare nel tempo libero e spegniamo quella cazzo di tv che ci rincitrullisce.

Poi, per riprenderci, riduciamo la criminalità sotto soglie accettabili con una stretta feroce e se non abbiamo i soldi per fare carceri e dobbiamo fare amnistie per decongestionarle rimettendo i delinquenti per strada che fanno sberleffi ai poliziotti, allora non potremmo prendere in leasing dei terreni in Turkmenistan e ricreare delle colonie penali? Potremmo addirittura impiegare un po’ di forestali per assettarle e degli ultras dell’Atalanta come guardie carcerarie, così, giusto per stimolare la creatività. Poi liberalizziamo il mercato del lavoro ed equipariamo i dipendenti pubblici a quelli privati.

In questo modo l’Italia riprende a correre al 3% come la Spagna, niente di fantastico ma meglio di un calcio nei maroni. Se teniamo la barra ferma per 50 anni torniamo nel novero dei Paesi civili. Io questo ritorno non lo vedrò ma almeno mi rinasce la speranza per il nostro futuro.

Soprattutto, fanculo ai pensionati di Boca Raton, io morirò qui, in Italia, con la sciabola in mano. Ecco, magari, non proprio nel 2017 (adesso sì, potete ridere), spero quando avrò cent’anni, ancora vispo come un fringuello. Nel frattempo, viva l’Italia.

La scossa di Prodi al premier: non abbia paura, ora tenti una sortita

Romano Prodi (Epa)Romano Prodi (Epa)

BOLOGNA – Professor Prodi, l’Italia vive uno dei momenti peggiori del dopoguerra. E il sogno europeo appare infranto, con la Germania che vuole farla da padrone. «Non è che vuole: la Germania la fa da padrone. E continua per la sua strada, anche se molti osservatori, tedeschi e non tedeschi, pensano che l’eccessivo surplus renda il rapporto di cambio dell’euro insopportabile per gli altri Paesi. Un surplus minore aiuterebbe l’economia di tutta l’Europa».
L’euro è troppo forte per noi? «Oggi siamo quasi a 1,40 sul dollaro. Fossimo a 1,10, anche 1,20, saremmo in una situazione ben diversa».
L’euro era stato pensato per valere un dollaro? «Più o meno. Ricordo, quand’ero presidente della Commissione europea, gli incontri annuali con il presidente cinese Jiang Zemin. Avevamo dossier alti una spanna, ma a lui interessava solo l’euro. Gli consigliai di comprarne come riserva. All’inizio il valore dell’euro crollò a 0,89 rispetto al dollaro e, quando tornai da Jiang, avevo la coda fra le gambe. Ma lui mi rasserenò subito: “Lei pensa di avermi dato un cattivo consiglio, ma io continuerò a investire in euro. Perché l’euro salirà. E perché non mi piace un mondo con un solo padrone: sono felice che accanto al dollaro ci sia un’altra moneta”. A causa degli errori europei, l’altra moneta accanto al dollaro sta diventando lo yuan. Le divisioni europee ci hanno fatto perdere occasioni enormi. Vai in Medio Oriente e ti senti dire: “Siete il primo esportatore e il primo investitore, ma non contate nulla”. Non c’è un grande problema internazionale in cui l’Europa abbia contato qualcosa».
Alle elezioni del 25 maggio si profila un successo delle forze antieuropee. Può essere una scossa? «Lo sarà senz’altro. Questa del resto è la storia d’Europa. L’Unione ha sempre avuto uno scatto dopo le crisi. La prima volta accadde con la “sedia vuota” di De Gaulle. Oggi la sensazione è ancora più forte perché abbiamo sul collo il fiato della Cina, dove fortunatamente il costo del lavoro continua a crescere. Anche se rimangono ancora grandi differenze nel costo della mano d’opera standard, oggi Unicredit paga i neolaureati di Shanghai come quelli di Milano. Dobbiamo ritrovare una politica europea comune, se vogliamo avere ancora una leadership. Occorre ribaltare la situazione. Nelle svolte del mondo bisogna essere i primi a capirle».
L’Italia si impoverisce. Eppure non c’è rivolta sociale. Perché? «Perché la perdita del lavoro avviene goccia a goccia: infinite gocce che fanno molto più di un fiume, ma non fanno una rivoluzione. È un fenomeno mondiale: la frantumazione della classe media; la jobless society ».
La società senza lavoro. «Si distruggono i lavori di medio livello. Disegnatori. Segretarie. Praticanti degli studi legali. Cassieri. Impiegati delle agenzie di viaggio o degli sportelli bancari e assicurativi. L’altro giorno parlavo con il responsabile di una grande banca. Gli ho chiesto se tra dieci anni i dipendenti saranno più o meno della metà rispetto a oggi. Mi ha risposto che saranno molto meno della metà. Aumenta la disoccupazione diffusa, cui si cerca rimedio con i “minijobs”: spezzoni di lavoro pagati sotto la soglia di sussistenza. Ma quando tagli la fascia media, si distanziano non soltanto i redditi; si distanziano due parti della società. Si salvano solo gli innovatori. Non a caso gli Stati Uniti, patria dell’innovazione, vanno meglio di noi».
Perché proprio l’Italia è il grande malato d’Europa? «Perché non agisce come un Paese unito. I problemi aperti esigono una risposta corale. Invece la società è frammentata. Il governo ha una cronica mancanza di autorità. I sindacati si saltano gli uni con gli altri, sono divisi anche all’interno della stessa organizzazione, e la Confindustria è stata sempre ben contenta di dividerli. Tra sindacato e grandi imprese ci sono tensioni, come alla Fiat, che non si sono viste in nessuno stabilimento europeo. Il problema non è il costo del lavoro: in Spagna è inferiore di appena il 7%; in Germania è superiore di oltre il 50%. Il problema è il modo in cui si lavora. È la paralisi del sistema produttivo. È la mancanza di una politica industriale».
Che valutazione dà del Jobs Act di Renzi? «La direzione è quella buona. Ma bisogna tradurla in decisioni concrete. Devono capirlo tutti: il potere politico, i sindacati, le imprese. In questi anni si sono aperti molti tavoli di concertazione; la frammentazione li ha uccisi tutti».
Voi varaste il pacchetto Treu. «Sì, noi usavamo l’italiano e lo chiamammo pacchetto». Oggi a Palazzo Chigi c’è un suo allievo, Enrico Letta. Quale consiglio gli darebbe? «Di tentare una sortita. Di prendere iniziative anche contestate. Di non avere paura di mettersi in una controversia».
In un articolo sul «Messaggero » lei ha ricordato che il potere pubblico è intervenuto ovunque in difesa dell’industria dell’automobile, dalla Spagna agli Stati Uniti, tranne che in Italia. «È oggettivo che l’affare Fiat si sia concluso senza la voce del governo. E sull’Electrolux c’è stata solo una mediazione a posteriori».
Perché è andato a votare alle primarie del Pd? «Ho deciso il giorno dopo la sentenza della Consulta. Perché ho avuto paura che riemergesse una legge elettorale che rendesse impossibile governare il Paese».
La nuova legge le piace? Cosa pensa dell’attivismo di Renzi? «Non rispondo a questa domanda. Ho sentito il dovere di votare alle primarie come risposta a un’emergenza, non come scelta di tornare alla partecipazione. Il ruolo elettorale è un dovere civico, non significa proporsi o essere disponibili ad accettare una carica. Ho ritenuto che il Pd fosse indispensabile per evitare lo sfascio totale. Dopo di che non ho più preso parte alla politica attiva. Sarei solo di disturbo».
Perché? «Perché ogni azione sarebbe interpretata come appoggio all’uno o all’altro, come un disegno personale per un futuro che non esiste».
Non vuole fare il presidente della Repubblica? «No. Mi pare di averlo già chiarito in più di un’occasione. Il Paese è cambiato. C’è un nuovo mondo. Occorrono persone nuove che lo interpretino. La nuova politica, per linguaggio, contenuto, velocità, supera la mia capacità di comprensione. Non sono un uomo 2.0».
Lei ha raccontato una telefonata con D’Alema, nel giorno dei 101 franchi tiratori, da cui dedusse che sarebbe finita male. Come andò? «Fu anche divertente. Ero in riunione a Bamako, in Mali. C’era un’atmosfera distesa. France Presse scriveva che stavo diventando presidente della Repubblica, tutti i capi di Stato africani mi facevano il pollice alzato. Io rispondevo con il pollice verso, perché sapevo già come sarebbe andata a finire. Avevo fatto le telefonate di dovere. Prima a Marini, poi a D’Alema, che mi disse che certe candidature non si possono fare in modo così improvvisato. Fu allora che chiamai mia moglie Flavia in Italia, per dirle di andare pure alla sua riunione, tanto non sarebbe accaduto nulla. Poi telefonai a Monti, che mi avvisò che non mi avrebbe votato perché ero “divisivo”. Infine telefonai a Napolitano perché ormai era chiaro come sarebbe andata a finire. Anche se mi aspettavo 60 defezioni, non 120: perché furono più di 101».
È stato scritto che lei è in contatto con Grillo e Casaleggio. È vero? «Mai avuto rapporti politici di nessun tipo, salvo quello di spettatore divertito. Grillo venne a trovarmi nell’81 a Nomisma, per discutere gli aspetti economici dei suoi testi. Nel 2007 mi fece un’intervista strumentale a Palazzo Chigi: all’uscita disse che dormivo. Avevo invece risposto a tutte le sue domande, spesso con gli occhi chiusi, come faccio d’abitudine quando penso, e il filmato lo dimostra. Casaleggio è venuto una volta a salutarmi a un convegno pubblico a Milano. Stop».
Come valuta il successo dei Cinque Stelle? «È un movimento di protesta che si manifesta in varie forme in tutti i Paesi europei, tranne che in Germania. La Merkel è stata molto abile ad assorbire il populismo, riassicurando i tedeschi a scapito del resto d’Europa. Anche per questo Italia, Francia e Spagna dovrebbero reagire presentando un programma alternativo nei confronti della Germania. Noi abbiamo gli stessi interessi, ma ognuno pensa di essere più bravo degli altri. Dai consigli europei si esce con le stesse decisioni con cui si è entrati».
La sua immagine pubblica è legata alla bonomia, alla fiducia. È raro trovarla così pessimista. «Io sono pessimista per poter essere ottimista. Il passaggio dal pessimismo all’ottimismo si ha solo attraverso un’azione politica forte e coraggiosa. L’unico fatto positivo di questa crisi drammatica è che sta maturando la consapevolezza dell’emergenza, e della necessità di cambiare. Sempre più ci si rende conto che c’è troppa gente che soffre. Finora la sofferenza arrivava alla Caritas. Ora si è affacciata persino al Forum di Davos. Anche se la finanza ha ripreso a operare come prima».
C’è il rischio di un’altra bolla e di un altro crollo? «Non ci sono state riforme fondamentali nel sistema finanziario. C’è più paura e quindi più consapevolezza ma non ci sono veri strumenti nuovi».
Nella storia italiana recente, e quindi nel declino del Paese, anche lei ha avuto un ruolo. C’è qualche errore che non rifarebbe? «Questa è una domanda inutile. Ci sono sfide che si affrontano sapendo perfettamente che si incontrerà la resistenza e la reazione del sistema, e quindi con buone possibilità di fallimento; eppure sono sfide che affronterei di nuovo».
Faccia un esempio. «La privatizzazione dell’Alfa Romeo. Trattai con Ford perché ritenevo necessario che ci fosse concorrenza. Arrivammo ad un progetto di accordo di grande respiro, però avvertii i negoziatori: se si mette di mezzo la Fiat, salterà tutto, perché si muoveranno i sindacati, le autorità ecclesiastiche, gli enti locali, insomma il Paese. Fu proprio quello che accadde. È vero che la Fiat offrì qualche soldo in più ma, in ogni caso, non vi furono alternative. I negoziatori della Ford conclusero dicendo: “Ci spiace molto; lei però ci aveva detto la verità”».
Le chiedevo di farmi l’esempio di un errore. «È un errore sopravvalutare le proprie forze. Ma penso che oggi l’Italia abbia bisogno di essere messa di fronte alle sue sfide. Per questo parlo di “sortita”. Verrà il momento in cui le sfide non si potranno non affrontare. Se hai un disegno, devi anche rischiare. E io credo di aver rischiato sempre. Non a caso, sia il primo sia il secondo governo Prodi sono stati fatti saltare. Anche se tra le due cadute c’è una bella differenza».
Quale differenza? «Nel 2008 il mio governo è caduto a causa della frammentazione politica e dei personali interessi di alcuni suoi membri ma, in ogni caso, era un cammino faticoso. Nel 1998 il mio primo governo è caduto perché andava bene. Non solo hanno buttato giù un ottimo governo, con Ciampi all’Economia, Andreatta alla Difesa, Napolitano agli Interni, Bersani all’Industria e poi Flick e Treu… Peggio ancora: hanno distrutto l’entusiasmo. E ci vuole più di una vita per ricostruire l’entusiasmo».
Rifarebbe pure il Pd? «Il Pd è l’unico punto di solidità del Paese. Ma se fosse andato avanti l’Ulivo avremmo avuto il Pd già quindici anni fa, e l’Italia non sarebbe sprofondata in questa crisi politica».

Cosa ci dice l’evasione fiscale nel nostro territorio

immagine di Giuseppina Bonaviri

 “Il Sole” ha pubblicato la stima dell’evasione fiscale nelle 103 province italiane elaborata dal Centro Studi Sintesi. Il Centro ha incrociato i dati, relativi al 2011, del reddito disponibile pro-capite, con il benessere effettivo delle famiglie ed ha ricavato una graduatoria, in cui tanto più alta è la differenza fra i due dati, tanto maggiore è stimato l’ammontare del reddito che è sfuggito al fisco. La provincia di Milano è considerata con 152 punti quella con il minore tasso d’evasione;  quella di Ragusa, con 52 punti, la meno virtuosa. Nel Lazio, la provincia di Roma occupa l’11° posto,con 123 punti; le altre quattro, sono nella parte finale della graduatoria: Frosinone è all’86° posto, Rieti e Latina all’94°, Viterbo al 98°.  

 Fanno riflettere le stime dell’evasione fiscale, nel 2011, nelle province italiane pubblicate dal quotidiano economico della Confindustria, sia per i livelli di evasione stimati paragonabili a quelli delle province meridionali maggiormente in ritardo nello sviluppo sia per l’arretramento  della situazione socio-economica, nel 2012 e nel 2013, come più volte denunciato anche da Confcommercio, Confindustria Lazio e da Cgil, Cisl, e Uil.

Nel corso degli anni ci è stato fatto credere che un maggiore benessere potesse essere conseguito allentando “lacci e lacciuoli”: liberare le risorse morali e culturali della società civile ed i vincoli della Pubblica Amministrazione, per inseguire le migliori opportunità, sperando che questo condizioni fossero sufficienti ad una crescita complessiva. Ciò non si è verificato e la crisi mondiale ha ulteriormente aumentato le disuguaglianze e gli squilibri esistenti nel nostro territorio e fra questo ed il resto della regione, in particolare con la Capitale.

Eppure per quanto grave dovremmo evitare di soffermarci sul riflesso economico ed osservare le conseguenze che un così elevato tasso di evasione fiscale produce nella sottostante situazione sociale e della convivenza civile.

Una prima considerazione è che le dimensioni dell’evasione nel nostro territorio è tipica di economie locali in cui situazioni di eccellenza sopravvivono in un contesto di sottosviluppo. Assumerne consapevolezza significa intervenire in quell’indispensabile potenziamento del territorio che l’accordo di programma di 80 milioni di euro, dovrebbe iniziare a rendere possibile, per invertire la tendenza. Il secondo elemento di questa strategia è recuperare un’autonomia fiscale a livello comunale in grado d’essere meno gravosa sulle attività produttive e con l’auspicio di far emergere, con accordi sugli oneri sociali ed i contratti, le attività economiche in nero. Un’esigenza questa di cui si dovrebbe farsi carico anche la Regione Lazio.

Una seconda considerazione che scaturisce dalla stima dell’evasione fiscale è che il reddito sottratto al fisco attraverso l’economia sommersa e il lavoro nero, chiama in causa un’emergenza economica e sociale più vasta: i finanziamenti al consumo e alla produzione al di fuori dei circuiti legali. Non è questa una novità per la provincia di Frosinone: la Rete La Fenice e Libera denunciarono già nel dibattito pubblico avvenuto a Frosinone nel dicembre 2012 -in occasione della prima conferenza tematica “ Per una Regione libera dalle mafie e dalla corruzione”- le dimensioni gigantesche del fenomeno e l’inquinamento che produce nella vita collettiva: Cassino e Frosinone- secondo le stime  2011/2012 dell’Osservatorio Tecnico Scientifico per la Sicurezza e la Legalità della nostra Regione- si trovavano ai primi posti tra i comuni dell’intera Regione come il paradigma negativo di quello che succede in una regione amministrata male. Infatti il lavoro senza tutele e l’immissione illegale di capitali che non di rado sconfina nell’usura e nell’espropriazione di proprietà ed attività economiche per quanti non  sono in grado di assolvere agli impegni assunti, sono forme di subalternità fisica e psicologica delle persone di cui occorre avere piena consapevolezza nell’interesse di tutti.

C’è infine un aspetto nell’evasione fiscale che sembra essere divenuto retorico ma che, invece, non lo è affatto: il venir meno del rispetto della legalità. La trasgressione dell’obbligo fiscale è una insidia per il più generale rispetto delle leggi e dell’autorità dello Stato. Deve inquietare in pari misura i responsabili della cosa pubblica ed i cittadini: i primi per la delegittimazione del proprio operato, i cittadini per il venir meno della consapevolezza d’esser essi stessi parte di una unica comunità. L’intreccio sempre più stretto tra corruttela e criminalità e non soltanto quella organizzata, favorisce un clima opaco e lesivo del libero svolgimento delle attività istituzionali ed imprenditoriali, alimentando l’incertezza del diritto, minando la sensibilità e la coscienza morale del paese con un sentimento diffuso di sfiducia che, di per sé, è nocivo allo sviluppo dell’intera Nazione.

 

 

 

Regione e petrolio, ultima chiamata (per la Basilicata)

Sarebbe interessante un confronto pubblico tra gli schieramenti elettorali (e i rispettivi candidati governatori) su un progetto condiviso e definito per la Basilicata petrolifera, che identifichi il traguardo da raggiungere

di MASSIMO PREZIUSO su Il Quotidiano della Basilicata

IN QUESTI giorni mi è capitato di leggere una serie di notizie che riguardano il tema del petrolio della Basilicata, terra da molto tempo paragonata ad una sorta di Arabia Saudita di cui ad oggi, forse, in pochissimi, hanno potuto constatare i tratti positivi. E’ di qualche giorno fa la bocciatura da parte del Consiglio di Stato del cosiddetto “bonus benzina”, con il rischio per i cittadini lucani del rimborso delle somme già percepite.

In molti ritennero quella iniziativa poco pertinente, in quanto sembrava voler risolvere la normale e forte tensione legata alla intensa estrazione petrolifera in una Regione – in questo caso poi riconosciuta per la sua formidabile qualità “ambientale” – con un contributo economico di qualche centinaia di euro per abitante, per di più vincolato all’acquisto di una benzina più cara che nel resto della penisola.

Aldilà della beffa per i cittadini, è bene che questa strana forma di compensazione ambientale termini e ceda il passo ad una visione strategica della royalty petrolifera quale moltiplicatrice di sviluppo (tema su cui ricercatori ed industria energetica studiano da tempo).

Nel contempo si legge di 2 miliardi di euro che il governo dovrebbe trasferire alla Basilicata, forse già a partire da settembre, tramite una cabina di regia nazionale, che accompagni finalmente all’operatività quel   piano di sviluppo infrastrutturale ed occupazionale, di cui si parla da tempo, anche nel memorandum di intesa Stato – Regione del 2011.

Dal 2011, va poi detto, la Regione risulta ancora più centrale nei piani di sviluppo (energetici) nazionali ed euro – mediterranei (si legga la Strategia Energetica Nazionale approvata quest’anno).

Volendo allora essere ottimisti ed ipotizzando che queste risorse arriveranno davvero, si può affermare che questa sia l’ultima chiamata per il rilancio di una strategia di sviluppo legata alla attività estrattiva, in una Regione che esce fortemente provata (tra le altre, nell’ordine del 10% di ricchezza regionale prodotta), da una crisi iniziata nel 2007, oggi arrivata alla sua durissima coda finale, che ha colpito ancora maggiormente quel Mezzogiorno troppo poco presente, per limiti culturali e logistici, sui mercati internazionali.

Se a questi fatti si aggiunge che molti dei leaders politici lucani, soprattutto del centrosinistra, oggi ricoprono incarichi di primissimo piano nel governo e nelle istituzioni, vi è spazio affinché questa opportunità venga colta pienamente: cominciando da subito, con un lavoro da svolgere a Roma, per far sì che la Cabina di regia nazionale, che dovrebbe gestire la allocazione ottimale di queste importanti risorse aggiuntive (2 miliardi di euro equivalgono 20-25% del PIL regionale, per intendersi), e più in generale il tema delle royalties, sia composta da un mix perfetto di personalità e professionalità (europee, nazionali e locali) che possano lavorare insieme per segnare almeno un goal concreto in tempi accettabili.

Uno tra questi goal può riguardare la realizzazione di quella grande infrastruttura di alta velocità ferroviaria Taranto – Potenza – Salerno, su cui anche il sottoscritto e gli Innovatori Europei dibattono da tempo (anche partecipando alla Viggiano Sustainable Development School e su questo giornale, con un contributo dal titolo “L’alta velocità ferroviaria per il rilancio della Basilicata”, pubblicato ad ottobre 2012), che potrebbe finalmente dare il senso di una voglia di “futuro connesso” ad una Regione che da decenni vive culturalmente e fisicamente isolata, rischiando di scomparire, prima o poi, dalla mappa geografica.

Una infrastruttura ferroviaria, questa, che colleghi rapidamente tre regioni meridionali (la Puglia, la Basilicata e la Campania) così fortemente complementari, e che permetta a persone e cose di dialogare pienamente, finalmente, con l’Italia, con l’Europa e un domani molto prossimo con l’area mediterranea e asiatica (tramite le strategiche “porte” di Napoli e di Taranto).

Su questo tema, se si vuole cominciare con passo deciso, e viste le imminenti elezioni regionali, sarebbe altresì interessante un confronto pubblico tra gli schieramenti elettorali (e i rispettivi candidati governatori) su un progetto condiviso e definito per la Basilicata petrolifera, che identifichi il traguardo da raggiungere.

Che sia quello ferroviario, aeroportuale o legato ad una piattaforma di rilancio industriale o turistico, alla fine, poco importa: basta che sia uno solo e sostanziale.

Sarà così la popolazione a scegliere, insieme alle istituzioni – locali, nazionali ed europee – in quale direzione vuole andare.

E’ finita la recessione?

di Francesco Grillo su Il Messaggero

Periodicamente ai malcapitati premier che provano a guidare l’Italia attraverso la crisi economica più lunga e brutale dalla seconda Guerra mondiale, capita di dover vedere segnali di ripresa per iniettare nel sistema le dosi di fiducia che sono necessarie per reagire. Esattamente un anno fa, a Monti parve di vedere la luce alla fine del tunnel. Dopo un altro anno di recessione, è il Ministro dell’Economia a invocare stabilità per consolidare l’inversione del ciclo economico che, secondo Saccomanni, dovrebbe consolidarsi subito dopo l’estate.

Tuttavia, stavolta c’è il rischio che la luce sia, davvero, quella di un Tir,  di un ulteriore aggravamento della congiuntura che si sta avvicinando ad un Paese già fortemente debilitato: infatti, proprio nella stessa settimana nella quale in Italia  si annuncia la fine della crisi, l’Economist dichiara, sulla base dei dati macro che arrivano da mesi da tutto il mondo,  esaurita la grande spinta propulsiva che le economie di Cina, India, Brasile e Russia sono riuscite ad imprimere per vent’anni all’economia mondiale e iniziata la “grande decelerazione” che rischia di penalizzare ulteriormente chi per vent’anni è rimasto fermo.

Se così fosse entreremmo in una fase successiva a quella genericamente chiamata della “globalizzazione”: utilizzare i mercati emergenti come possibile sbocco delle esportazioni non basterà più e i margini di crescita del benessere di una qualsiasi società, e ancora di più per quella italiana, verranno interamente giocati nella partita della innovazione. E ancora di più risulterà indispensabile, sciogliere quei nodi strutturali che ancorano – aldilà di eventuali rimbalzi tecnici –  l’economia italiana ad un trend di lungo periodo che continua ad essere fortemente negativo.

È comprensibile, quindi, invocare stabilità politica per poter trasformare un piccolo aumento di fiducia in aspettative; sarebbe un errore tragico incoraggiare l’idea che, forse, ce la potremmo fare – ancora una volta – senza completare quei cambiamenti che gli ultimi due governi hanno solo cominciato. Del resto è lo stesso Enrico Letta a ricordare che la stabilità stessa è un valore solo se serve ad affrontare le questioni sulle quali ci giochiamo il futuro.

In un contesto sempre più dominato dall’investimento in competenze e talento, come farà a sopravvivere un Paese che spende, dopo vent’anni di interventi marginali, in pensioni quattro volte di più di quello che spende in educazione, dagli asili alle università? Come possiamo sperare di ridurre e qualificare la spesa pubblica se non stabiliamo – aldilà della battaglia infinita sul tetto agli stipendi dei manager – criteri oggettivi per valutare le prestazioni di chi gestisce i soldi dei contribuenti e vi leghiamo la remunerazione e la conferma? Come si può pensare di attrarre investimenti esteri in Italia, se secondo le classifiche della Banca Mondiale ci collochiamo per la capacità di far rispettare i contratti nei tribunali, al centosessantesimo posto nel mondo, dopo il Madagascar e lontanissimi dalla Grecia? E con quali argomenti possiamo trattenere le imprese italiane che trasferiscono – una dopo l’altra – la sede all’estero, se non mettiamo mano ad un ridisegno globale dei meccanismi di distribuzione, definizione e accertamento delle imposte che vada aldilà del gioco a somma zero su IVA e IMU?

Sono queste le sfide da vincere per crescere davvero: avere il coraggio di discutere dei tabù dei diritti acquisiti e della intoccabilità del posto pubblico; proporre una vera strategia di cambiamento sulla giustizia e sul fisco che superi la logica delle guerre di posizione che hanno congelato tutto per decenni; trovare le parole per convincere anche i privilegiati che conviene mettersi in discussione.

All’ISTAT nelle stesse ore dell’annuncio di Saccomanni, è toccato certificare la serie negativa più lunga che l’Istituto abbia mai registrato nella sua storia di misurazioni: da ieri siamo all’ottavo trimestre consecutivo di contrazione del Prodotto Interno Lordo.

Per uscire dal tunnel è necessaria la fiducia nei nostri mezzi. Ma anche la consapevolezza che non può finire a tarallucci e vino. Che dalla crisi si esce cambiando. Spostando, cioè, risorse dalla conservazione di privilegi non più sostenibili a utilizzi che siano funzionali a farci trovare un ruolo in un contesto di competizione globale che è assai diverso da quello dal quale siamo praticamente usciti circa vent’anni fa.

Se gli italiani hanno dato il cervello all’ammasso, prepariamoci al peggio

di Arnaldo De Porti

Non riesco proprio a capire :

Primo:     perché si parli ancora tanto di Berlusconi, quando il suo destino è pesantemente segnato;

Secondo:  perché i giornalisti continuino ad invitare nei vari talk show personaggi squallidi che, a mio avviso, non meritano nemmeno di essere chiamati per nome ed appartenere a questa nostra, per quanto sindacabile, società;

Terzo :     perché gli Italiani continuino a non capire, dopo essere stati ingannati per un lungo ventennio, che il berlusconismo è un cancro per il Paese, e non già la giustizia come dice il condannato dalla Cassazione in data primo agosto 2013;

Quarto:    perché non interviene UE dicendo che un condannato che, per 20 anni, ha frodato il fisco ed ingannato l’Italia (ma anche l’Europa) possa stare ancora dentro ancora all’Unione, atteso che non ci sarebbero gli estremi della ingerenza degli affari di un altro paese, ma un fatto di delinquenza che contamina  e far svergognare anche tutti i Paese dell’Unione Europea;

Quinto:     perché, anziché adire alla giustizia europea come hanno pensato di fare i difensori di un delinquente, non è l’Italia a farlo nell’interesse proprio  di UE ?

Sesto :      perché qualcuno pensa di dare “agibilità politica” o peggio ancora, trovare un salvacondotto ?  Solo pensando a questo, dovremmo dire che siamo tutti delinquenti e che  pertanto cerchiamo di salvarci fra noi.

Settimo : perché, come si fa per i mafiosi, non si mettono sotto commissariamento i mezzi personali di questo soggetto di Arcore, in modo che non abbia a nuocere  ulteriormente al Paese, comprando tutto e tutti ?

Ottavo : ma gli Italiani si rendono conto che da venti anni stiamo parlando solo di lui e delle sue vertenze giudiziarie senza fare un passo avanti, ma cento indietro a danno soprattutto delle fasce deboli ?

Nono : perché non si prendono provvedimenti verso coloro, mass-media in primis, che lo difendono dicendo che il nero è un colore bianco…? Non è consentito  neanche alla stampa di dire menzogne !!!

Decimo : se il problema non verrà risolto nel breve termine, ciò starà a significare che il cervello non c’è più e che gli Italiani si sono fatti fregare anche quello, dandolo all’ammasso, come si faceva una volta, e forse anche ora, con i Consorzi Agrari per le patate, il mais  ed altre merci 

 

Italiani svegliatevi perché siamo vicini ad una guerra civile, non già quella evocata da Bondi, operaio ben pagato (senza far niente) da Berlusconi, ma perché saranno le fasce serie ed oneste ad opporsi, dopo essere state massacrate per un ventennio ed ora ridotte alla fame.

Distretto Turistico dell’isola verde: una speranza per una rivoluzione culturale ed un rinnovamento politico

di Giuseppe Mazzella  

Organizzeremo a settembre come Osservatorio sui fenomeni socio-economici dell’ isola d’ Ischia presieduto da Franco Borgogna in collaborazione con la Banca  per le Risorse Immateriali coordinata da Osvaldo Cammarota , del Distretto Turistico Isola Verde promosso da Benedetto Valentino  e del Magazine Ischianews & Eventi, un seminario nazionale riservato  agli amministratori  comunali, agli operatori sociali ed agli imprenditori locali sul tema della “ Coesione e lo Sviluppo- le opportunità del Distretto Turistico dei fondi europei 2014-2002”.

L’ occasione ci è offerta dal libro di Carlo Borgomeo,  meridionalista di lungo corso, già Presidente di Sviluppo Italia e promotore della legge 44 sull’ Imprenditoria Giovanile ed attualmente Presidente della Fondazione Con il Sud, “  L’ equivoco del Sud-sviluppo e coesione sociale”, che sarà presente al seminario.

Il libro di Borgomeo farà da apripista  per un dibattito contenutistico sulle strategie che in questo tempo di drammatica crisi politica, a tutti i livelli, e di  evidente recessione economica e finanziaria a livello nazionale e locale, bisogna mettere in atto  qui nella nostra isola d’ Ischia, la più importante località turistica della Regione Campania per  consistenza della sua ricettività ( almeno 40mila posti-letto) e del suo armamentario economico e sociale  costituito da 3mila imprese e da 13mila iscritti al Centro per l’ Impiego ex-collocamento. Sarà necessaria una presenza al seminario di un autorevole esponente della Giunta Regionale della Campania, per il ruolo fondamentale al quale è chiamato l’ Istituto Regionale, per approvare formalmente con i sei sindaci e gli amministratori locali, per il ruolo imprescindibile che i Comuni hanno nel Governo dei Sistemi Locali di Sviluppo, un documento di indirizzo  sul quale impostare una “ strada Maestra” per incamminarci, soprattutto nell’ interesse delle nuove generazioni, verso la ripresa economica, politica, culturale della nostra isola ancora divisa in sei Comuni nonostante ormai da anni sia evidente un unico sistema economico comprensoriale , impostato sui “ turismi” e  non più sul solo “ turismo balneare e termale”.

Questi “ turismi” sono resi evidenti dal nostro Magazine “ Ischianews” con la nostra cartina topografica  della “ strada del vino e dei prodotti tipici” con 22 aziende agricole aderenti, con l’ indicazione di 24 sentieri arricchita con la carta nautica dell’area marina protetta  del “ Regno di Notturno” per presentare in estrema sintesi ed evidenza un’isola da vivere e godere da terra e da mare. Questi “ turismi” sono  presentati negli aspetti “ commerciali” delle segnalazioni delle nostre eccellenze  della nostra  industria alberghiera e termale e della ristorazione e dei servizi.

Insomma presentiamo ogni mese – con l’ indicazione degli Eventi non solo di colore locale ma anche di rilievo internazionale e con alcuni reportage – un’ isola di straordinario interesse che è viva nella sua consapevolezza del suo patrimonio ambientale e nella sua espansione economica e sociale.

Logicamente quest’isola  NON è il “ Paradiso dell’ Eden”, che non esiste sul pianeta terreste, né è l’ “ isola di Utopia”  di Tommaso Moro. Ci sono “ ferite” nella sua difesa  naturale e nella sua organizzazione civile. Ed è su come vogliamo curare queste “ ferite” che intendiamo avviare un dibattito per agire non per fare accademia.

A 60 anni esatti dalla grande trasformazione urbana di Lacco Ameno avviata nel 1953 dagli investimenti di  Angelo Rizzoli ( 1888-1970) sui progetti dell’ arch. Ignazio Gardella l’ isola d’ Ischia ci appare come un caso paradigmatico dell’ opportuno  “ sviluppo sostenibile” avviato in un’ area del Mezzogiorno. Così ci pare scritta per noi ischitani l’ epigrafe scelta da Borgomeo per il suo libro tratta da un lavoro  di Giorgio Ceriani Sebregondi ( 1916-1958): “… evitare di cadere nell’ errore di chi, trovandosi di fronte ad un albero che da pochi frutti, invece di provvedere a curare la malattia dell’ albero, provvedesse ad appendere dei frutti sui suoi rami”.

Noi dobbiamo consolidare i “ turismi” dell’ isola d’ Ischia e “ curare” la malattia dell’ albero.

Per curare le ferite del nostro sistema economico ci pare  necessaria una “ Legge Speciale” che superi il vetusto  e non applicato “ vincolismo” delle leggi del 1939 e del piano urbanistico territoriale ministeriale del 1995 e che unifichi amministrativamente l’ isola in una sola unità amministrativa nel quadro del sistema dei poteri locali che  dovrà essere determinato con l’ abolizione della Provincia e l’ istituzione della Città Metropolitana di Napoli alla quale, in qualche modo, l’ isola dovrà rimanere legata per geografia e storia. L’ unità amministrativa ci pare indispensabile per una seria e praticabile Pianificazione Territoriale e per una realistica Programmazione Economica ambedue necessarie per una politica di Coesione.

Ma nelle more dei tempi lunghi ed imprecisati delle Riforme Costituzionali bisogna agire ed avviare con il consenso dei sei Comuni gli interventi strutturali ed infrastrutturali capaci di guarire le “ ferite”. Il caso di Casamicciola è significativo perché bisogna recuperare al sistema produttivo una superficie coperta di circa 100mila mc. fra i quali giganteggia il recupero del monumentale complesso del Pio Monte della Misericordia con un approdo turistico attrezzato ed il recupero del bacino idrotermale di La Rita.

Il Distretto Turistico può essere lo strumento di Coesione dell’ isola perché può essere visto come la stanza di compensazione dei sei campanili, come un ente nato dalla volontà dei sei Comuni, come  strumento di concertazione tra interventi pubblici e privati. Non si tratta di creare l’ ennesimo nuovo ente sovra comunale  o una specie di nuovo proclama della marina borbonica del “ facite ammuina” di cui accennava il prof. Mariano D’ Antonio nel suo intervento su “ La Repubblica” di domenica 4 agosto. Si tratta di un ente “ capace di far fare agli altri ciò che dovrebbero fare” e cioè utilizzare a pieno le grandi opportunità dei fondi europei del programma 2014-2020 con interventi giuridicamente agibili resi tali dai Comuni.

Questo Grande Progetto per il quale occorrono almeno 100milioni di euro può prevedere anche una Società di Trasformazione Urbana ai sensi dell’ art.120 del Testo Unico degli Enti Locali capace di espropriare gli immobili dismessi di proprietà privata e di ristrutturarli per le nuove esigenze e soprattutto di gestirli perché anche questo è una questione di estrema importanza che il prof. D’ Antonio ha rimarcato nel suo intervento.

Il seminario dovrà delineare un quadro opposto al “ facite ammuina” della marina borbonica capace di mettere ciascuno al suo posto, di far fare ad ognuno la sua parte, nell’ interesse dei Giovani che debbono riscoprire il gusto di progettare il futuro.

Se in democrazia la forma è sostanza

“Intrighi poco democratici: Pd impegnato a mantenere reami e facce immutabili”
di Giuseppina Bonaviri

Ho provato ad immaginare quale sarebbe l’esito dei congressi nei comuni della provincia di Frosinone se venissero confermate le proposte dell’ultima Direzione del Partito Democratico di far votare solo gli iscritti e mi riesce d…ifficile immaginare che, a livello provinciale, non si possa evitare un salto all’indietro rispetto al tentativo di rinnovamento avviato con l’esperimento dei giovani al governo dei territori locali del partito.
Nel nostro territorio ci si è ritrovati, infatti, davanti ad un partito che fa del “picchettaggio” delle nostre terre la sua prima e grande preoccupazione. Non si capisce come possa un congresso in provincia frusinate essere occasione di discontinuità se chi tenta di proporre una linea politica, che parte dai reali problemi, viene considerato un idealista e i tanti segnali di crisi che emergono vengono decodificati come eventi fra loro separati ed indipendenti dalla volontà dei partiti stessi.
Cambiare stile rimane una priorità anche per attrarre l’elettorato antistituzionale e che da tempo non vota. Inoltre si contribuirebbe a sostenere una sana linea innovativa rivitalizzante l’intera galassia della politica ( trait d’union tra progetti europeisti socio politici moderni) ma anche si aiuterebbe a superare la recessione con lo smottamento delle filiere d’interessi, non legittimando più spartizioni nella pubbliche amministrazioni e rendite di posizione del sistema.
Invece nulla si muove in un Pd che continua ad avere la pretesa di essere forza nuova ed organizzatrice, sede del dibattito propulsivo e dell’incontro politico democratico. Purtroppo esso stesso, e nella nostra provincia ancor più, si dimostra subalterno ad una concezione verticale-verticistica della politica aggregando maggiorenti anche dei partiti tutti sempre più in affanno e preoccupati solo di garantirsi assetti e stabilità personale. Personaggi, questi, che non riescono ad essere più credibili per nessuno. Se si considera poi l’impossibilità ad attestarsi su una linea orizzontale di superamento dei soli assi di potere si capisce come l’attuale crisi economica e sociale ci divori. Viene naturale chiedersi quali siano i confini, morali e politici, che distanziano il Pd dagli altri partiti se pur mai ve ne fossero rimasti.
Dire, allora, che siano le primarie il metodo di selezione del gruppo dirigente può essere condizione preliminare allo svecchiamento ma come non comprendere che esse, per quell’aggrovigliamento che attualizza gli assetti interni del partito, rischiano di portare al voto solo gli amici degli amici meglio, gli amici della “cucchiarella” svuotando il progetto dei buoni propositi e contenuti etici? Ci si domanda, così, come i prossimi consensi potranno essere intercettati dal partito, che tutto preso dal mantenere presidi e reami, non pratica quei valori che ne avevano motivato la nascita e che rimanevano prerogativa del rapporto con elettorato smarrito e disaffezionato.
Ne abbiamo avuto prova anche nelle scorse amministrative comunali locali che, a tutela di quei nominati che non trovarono posto nel partito, vennero candidati in fittizie liste civiche con il solo scopo di consentirne la loro elezione (anche a costo di un passaggio da uno schieramento all’altro) con buona pace della coalizione, cosa che ancor più ci fa sentire orfani della cosa pubblica.
Questa modalità rimane la prima causa della crisi identitaria del Pd: la sua disponibilità ad accogliere il trasformismo, mantenendo a galla una classe di politici immutabile ed immobile che ha dimostrato di non saperci rappresentare e di cui l’elettorato ormai conosce tutti i limiti, non può essere più tollerata.
Gli incarichi di sottogoverno che in queste ultime ore sono emersi e da noi precedentemente denunciate a mercimonio dei più recenti rimpasti di giunta non fanno che aumentare il distacco della politica dai cittadini. Ciò ci fa credere che sia vicina la fine di questa epoca, di quella lunga transizione dove partiti personali e mediatici hanno bandito la grande partecipazione di massa. Quella sorta di pensiero debole, che poi è tattica di sopravvivenza di tutte le istituzioni degenerate, non potrà farci sorvolare sulle nobili ragioni di partecipazione, di rappresentanza, forma partiti che rimangono i pilastri del processo sociale del cambiamento che auspichiamo.
E se in democrazia forma e contenuti sono inseparabili, il percorso alternativo che guardi alle concrete ragioni delle comunità, come noi della Rete La Fenice proponiamo, non potrà che essere l’orizzonte verso il quale approderanno le tante donne e i tanti uomini non rassegnati e non sottoposti alla malaffare ma in cerca di un avvenire migliore

L’incredibile Pd

“L’operazione Ceccano del Pd buona sola per riaffermare lo status quo”

di Giuseppina Bonaviri su L’Inchiesta

Non ce la contano giusta i sostenitori del rimpasto di giunta a Ceccano.
Vi sono tre indizi che divengono una prova accertata- come sa chiunque s’interessa d’indagini- che sia andata diversamente da come è stata presentata: il mancato coinvolgimento del circolo del Pd di Ceccano, temendo che non sarebbe passata indenne la decisione del rimpasto dimostra quanto contraddittoria fosse l’operazione rispetto a quello che, invece, si andava affermando in campagna elettorale; l’opulenza di autorità a sostegno dell’operazione (il parlamentare europeo De Angelis e il consigliere regionale Buschini) esibito in una conferenza stampa, per proporre scontate promesse di buona amministrazione; il commento della segretaria del Pd provinciale Battisti che con coraggio ha rubricato questo ed altri comportamenti di esponenti del partito di Frosinone nel novero degli insuccessi di un tentativo di rinnovamento ed apertura all’esterno, non dimenticando l’impegno dei giovani democratici e Occupy Pd.
Un vero peccato perché c’è tanto bisogno, invece, di riavvicinare i cittadini ai partiti. L’unico modo per farlo sarebbe iniziare a restituire quel diritto di scelta, tanto gravemente violato con la legge elettorale del Porcellum e con atti di imperio e di autorità, che sviliscono l’attività dei circoli e dei militanti, privandoli di quel potere decisionale su questioni appartenenti squisitamente al loro entroterra. Ferisce ancor più, poi, che le vittime della dura riaffermazione dello status quo siano i giovani e che il danno avvenga per ferire il sano protagonismo delle nuove generazioni, a cui andrebbe tramandato e trasmesso il senso di appartenenza e di identità culturale politica.
A voler trovare una spiegazione, nella vicenda di Ceccano, si deve pensare ad un atto che pone le basi per un ulteriore presidio del territorio a future battaglie; la natura di questa competizione può essere certo quella elettorale ma anche, come ben sappiamo, la consueta divisione degli incarichi esterni alle giunte, operazione che consente di continuare ad alimentare la catena del consenso più misero: quell’essere “attaccati alla mammella dello Stato” ritenuto, a ragione, da Fabrizio Barca, il male pernicioso della perdita di rappresentatività dei partiti, per inconsistenza di risultati e soddisfazione dei così detti comitati pseudo elettorali.
Quanto questo costume sia deleterio per il nostro paese, non solo per la Ciociaria, è confermato da ripetute indagini, che ci dicono che nella società italiana si è determinata una frattura nell’etica pubblica proprio per il prevalere dell’ideologia dell’autonomia e dell’indipendenza di ciascuno, fino a sostituire, addirittura, il buon senso civico con “l’arte di arrangiarsi” in ogni campo e situazione.
A ragione di questa mutazione che appare illimitata, è chiamata in causa la frustrazione dei cittadini che, per gli impedimenti che incontrano nello svolgimento di attività -causa anche una legislazione troppo ridondante- reagiscono con la ricerca di espedienti che aggirano i vincoli di quella pubblica amministrazione sentita ormai lontana e dell’attuale ed insostenibile onerosità della tassazione. Su questa generica denuncia d’inefficienza fanno leva vecchi e nuovi populismi che, poggiando sullo scarso senso dello Stato, chiedo rivoluzione politica e burocratica. Con il messaggio politico berlusconiano e antipolitico abbiamo avuto il solo esito di giustificare, nell’attesa, comportamenti trasgressivi fino ad essere, per molte parti del territorio nazionale come laziale, collusivi con la malavita.
Si continua a non cogliere, da parte di chi ha responsabilità politiche, quanto sia necessaria -perché l’Italia possa uscire dalla crisi- la riscoperta di un etica pubblica e la conseguente abolizione delle clientele. Ciò sarà possibile solo esponendosi al confronto con i cittadini, nei luoghi dove essi vivono e dove, solitamente, sarebbe coerente intrattenersi nelle questioni della res pubblica.
Certo il lavoro è faticoso ma come credere, altrimenti, che il sistema democratico si possa alimentare? Solo nel momento della competizione elettorale?
Oggi restituire un senso alla politica vuol significare, anche, iniziare a nutrire aspirazioni e disponibilità rispondendo ai bisogni e alle necessità, se pur nella ristrettezza del momento storico. I cittadini chiedono accesso all’ascolto e al dialogo. I partiti, “ case di cristallo”, devono saper cogliere con umiltà e rispondere autenticamente e questo, in particolare, lo deve il Pd alla sua gente per quella sua naturale capacità di potere essere tale.

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