Significativamente Oltre

Fabrizio Barca

Ripensare le regole prima del congresso. Lettera aperta di Innovatori Europei e Luoghi Ideali all’Assemblea del Partito Democratico

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Innovatori Europei (www.innovatorieuropei.org) e Luoghi Ideali (www.luoghideali.it), che hanno preso parte, da indipendenti, tra il 2015 e il 2016 ai lavori della Commissione Forma Partito, chiedono urgentemente ai membri della Assemblea del Partito Democratico, che si riunirà a Roma il prossimo 18 dicembre 2015, di portare alla discussione per la approvazione il documento “Spunti di discussione per il Pd di domani“.

In un momento così delicato per la Forma Partito, è urgente ripensare, in modi innovativi, il modello organizzativo del Partito Democratico, perché possa essere precursore di cambiamenti strutturali del Paese. Per farcela, bisogna rimettere al centro i valori, ma ci vuole anche un’organizzazione forte e adatta ai tempi. Serve una progettazione territoriale che nasca da circoli aperti al confronto con l’esterno e sia coordinata da un forte presidio nazionale. Serve, per evitare dannose faide personali, costruire in ogni territorio un’agenda politica condivisa che preceda le primarie; un Albo degli elettori certificato che ne garantisca la trasparenza e una Direzione del PD ristretta dove possano maturare indirizzi frutto di confronto di merito. Infine l’elezione dei Segretari regionali deve essere limitata agli iscritti.

Dal Partito Democratico, da questa profonda crisi, può rinascere un nuovo e sano interesse per una Politica progettuale e partecipata.

16 dicembre 2016, Roma

Innovatori Europei e Luoghi Ideali

 

#FormaPartito – Il Pd dopo la tempesta di dicembre. Un’occasione che non tornerà (di Fabrizio Barca)

Fabrizio Barca durante una lezione al polo scentifico di Novoli a Firenze, 6 Maggio 2013. ANSA/MAURIZIO DEGL'INNOCENTI

Fabrizio Barca durante una lezione al polo scentifico di Novoli a Firenze, 6 Maggio 2013. ANSA/MAURIZIO DEGL’INNOCENTI

di Fabrizio Barca su Huffington Post

Mentre nel Partito Democratico i Comitati del Si e del No si moltiplicano e si armano per una battaglia che riguarda anche – quando non soprattutto – il controllo del partito, e mentre in cielo volano i fuochi d’artificio della “Finanziaria dell’anno referendario”, un documento ufficiale diramato da Roma gira in silenzio nelle fila del PD. Si tratta delle conclusioni della Commissione “Forma-partito” costituita 24 mesi or sono per “rimettere in connessione la forma partito con la vita concreta e quotidiana dei cittadini”, come recita il documento, per adattare l’organizzazione del PD alla “nuova domanda che i cittadini rivolgono alla politica”, alla profonda distanza che essi sentono dai partiti. Il documento viene sottoposto alla “discussione dei Circoli e degli organismi dirigenti territoriali”, per ricavarne reazioni e idee che “si trasformeranno in proposte di modifiche statutarie” da portare alle decisioni dell’Assemblea nazionale.

Si potrebbe dire che è tardi. Che l’inadeguatezza di quello che è pur sempre l’unico “partito” italiano e della sua organizzazione è evidente da molti anni. Che da tempo sono sul tavolo proposte di rinnovamento – una l’abbiamo testata noi di Luoghi Ideali, iscritti del PD e non, in un anno di sperimentazioni e poi l’abbiamo avanzata ai vertici del partito nel giugno 2005 (http://www.luoghideali.it/tre-proposte-per-il-pd-fabrizio-barca/). Che il documento era sostanzialmente pronto dalla primavera – il ritardo del suo rilascio mi ha indotto a inizio luglio a dimettermi dalla Commissione. Che è scritto con un linguaggio timido, timidissimo, in alcuni casi solo allusivo, inadeguato di fronte alla durezza del confronto in atto. Che potrà essere facilmente fagocitato dalla logica dominante dei Comitati. Che il Segretario del PD non risulta averne fatto menzione e che il silenzio attorno al documento è finora assordante. Si potrebbe dire tutto questo. E infatti lo sto scrivendo. Ma sarebbe sbagliato fermarsi qui. Non solo perché sarebbe ingeneroso verso il vice-Segretario Lorenzo Guerini e il Presidente Matteo Orfini, che alla fine hanno sentito la responsabilità politica di dare voce al lavoro che avevano diretto. Ma perché sarebbe politicamente sciocco.

Pure con una cautela che riflette peraltro la straordinaria incomunicabilità maturata in questi anni all’interno del gruppo dirigente del PD, e forse la lontananza da questi temi da parte del Segretario del partito, nel documento vengono infatti messe sul tavolo considerazioni e ipotesi concrete di rinnovamento che, se raccolte, possono introdurre nel PD germi positivi. Esse colgono il sentire di moltissimi iscritti, manifestatosi anche in questi tempi difficili, e di cui le sperimentazioni che ho seguito da vicino sono solo una delle manifestazioni.

Richiamo sei di queste ipotesi di rinnovamento (sollevando solo in minima parte il manto di timidezza che le avvolge e virgolettando le citazioni letterali):
1. Elezione dei Segretari regionali (e relativi Organi dirigenti) da parte dei soli iscritti, stante il loro ruolo esclusivo di direzione del partito, un requisito essenziale per ogni organizzazione.

2. Fare precedere le primarie per la selezione dei candidati alla guida di Comuni e Regioni da una “elaborazione e condivisione da parte dei candidati stessi di un’agenda essenziale di riferimento”. Passo indispensabile, aggiungo, per evitare che le derive personalistiche prevalgano sulla visione collettiva elaborata dal partito territoriale sul futuro possibile di quel Comune o di quella Regione.

3. Sia per l’Assemblea nazionale, sia per la Direzione nazionale, oggi composte rispettivamente da oltre 1000 e oltre 120 membri, “si impone una riflessione … a partire dal numero dei componenti previsto dall’attuale Statuto” che determina “difficoltà nello svolgere con … pienezza il proprio ruolo”. Parole assai caute ma non equivocabili, per segnalare l’assoluta anomalia – a mio parere soprattutto per la Direzione – di un organo di indirizzo che per la sua dimensione non può in alcun modo essere luogo di confronto acceso non fra posizioni incrollabili (di maggioranza e minoranza), magari declamate pubblicamente ai propri partigiani, ma fra posizioni che cercano il convincimento reciproco, la verifica, la possibile trasformazione in nuove soluzioni.

4. Certificazione dell’Albo degli elettori, per promuoverne la partecipazione non solo al momento del voto.

5. Rinnovamento dei Circoli (anche per evitare che siano “utilizzati da alcuni come via per promuovere il proprio interesse particolare anche a discapito di quello generale”) che devono diventare “palestra di formazione politica per creare nuova classe dirigente” e per “sperimentare nuove forme organizzative che interagiscano con l’arcipelago delle militanze”. A tale scopo nei Circoli si dovrà “promuovere e sostenere progettualità … rivolte a raggiungere obiettivi chiari, misurabili e rilevanti per la qualità di vita dei cittadini” e promuovere “filiere di progettazione che coinvolgano gli elettori appartenenti all’Albo e tutti i cittadini interessati” per dare “un contributo concreto all’azione di governo del territorio … e mettere alla prova nuove leve dentro il partito”.

6. “La scelta dei confini di responsabilità di un circolo “non deve essere rigida – vincolata dall’obbligo statutario attuale di costituire un Circolo ogni 50mila abitanti – ma deve dipendere dalle caratteristiche del territorio. (Per questo concetto si veda ad esempio l’esercizio valutativo condotto da Luoghi Ideali su Roma – e recentemente replicato per Perugia -)

Si tratta di sei ipotesi di rinnovamento tutt’altro che di maniera. E che, se fossero attuate davvero – non una “riflessione” sulla dimensione della Direzione ma la drastica riduzione della sua dimensione, non solo la promozione di “filiere progettuali” nei circoli ma anche il loro finanziamento e il loro presidio tecnico da parte di una struttura nazionale di riferimento, ecc. – richiederebbero e comporterebbero una profonda trasformazione del modo di funzionamento del PD. Agli antipodi di quello che si manifesta in questi giorni nel “PD dei Comitati”.

Per uccidere queste ipotesi ci vuole poco. Basta che esse restino in silenzio. Che siano soverchiate dalle grida di queste ore. Il modo in cui sono state diffuse, il linguaggio usato, la timidezza non aiutano. E tuttavia per decine e decine di migliaia di iscritti che rivendicano un modo diverso di “fare partito”, questo documento offre un’opportunità significativa, che non tornerà. Se essi ci sono. Se ci credono davvero. Se preferiscono questo al partito dei Comitati. Si facciano sentire in questa consultazione chiedendo la traduzione di queste sei ipotesi in soluzioni operative e adeguatamente finanziate. Lo facciano circolo dopo circolo. Entro la fine di novembre. Con voce resa robusta dall’urgenza del momento. Senza schierarsi secondo le attuali correnti, né cercarne di nuove. Con votazioni formali. E mettendo alla prova su questa scelta i propri gruppi dirigenti territoriali, ossia condizionando a ciò il loro appoggio futuro. Se ciò avverrà in una misura significativa, il PD avrà un punto fermo da cui ripartire dopo la tempesta di dicembre.

Clonare @fabriziobarca

 di Alessandro Aresu (su Lo Spazio della Politica)

Negli ultimi giorni ha preso piede il rumor giornalistico-politichese (a partire dall’articolo di un quotidiano maestro di questo genere ) secondo cui il Ministro della Coesione Territoriale Fabrizio Barca potrebbe essere un nuovo Romano Prodi, capace di unire i delusi di questa stagione politica in un progetto di rilancio dell’Italia.

Questa notizia mi ha sorpreso, perché avevo deciso, a partire da uno scambio di battute su Facebook con Massimo Preziuso, di dedicare a Barca una nuova puntata della serie di profili de Lo Spazio della Politica che propongono la “clonazione” delle personalità italiane che ci hanno colpito (una storia cominciata qui). Finora non ho mai preso posizione sulle figure da clonare e non vorrei basarmi su indiscrezioni giornalistiche, ma su un altro livello di approfondimento. Prima, una breve nota sulla serie della “clonazione” dello Spazio della Politica: cerca di essere un esercizio con una morale, perché l’attenzione per le personalità (senza che diventi un’ossessione) vuole dare l’idea di una cultura dell’esempio. Ognuno di noi si porta appresso un pantheon di maestri diretti e indiretti, consapevoli e non consapevoli. Non è possibile basare un percorso e una visione del mondo solo su di sé e vale la pena di stare in dialogo, se si vuole crescere.

La stessa descrizione del ministero di Barca, per la coesione territoriale, è il primo passaggio  su cui vale la pena di soffermarsi. Direi che, prima dei colpi giunti dalle recenti vicende, è stata la scelta politica con cui Giorgio Napolitano ha allungato le celebrazioni dell’Unità d’Italia e tolto la stagione leghista dall’agenda. Al posto del federalismo, la coesione: si tratta di un ministro senza portafoglio, ma il messaggio che fornisce è opposto a quello della retorica della rivendicazione di indipendenza per una parte dell’Italia rispetto a un capro espiatorio, sia nella prospettiva del Nord che nella prospettiva del Sud. Allo stesso tempo, con Barca Napolitano ha recuperato una figura che, rispetto ai colleghi ministri, presenta alcune particolarità. È vero, proviene dall’amministrazione pubblica come molti altri. Troppi, a mio avviso, non solo perché Lucio Caracciolo è meglio di Terzi ma per un motivo che non riguarda le nostre preferenze faziose: quando hai un problema di inefficienza della spesa pubblica l’amministrazione centrale è pienamente coinvolta, ed è utopico pensare che si impegni seriamente per l’autoriforma, a partire dall’autocritica necessaria per ogni processo di questo tipo.

Il padre di Fabrizio Barca, Luciano, è stato responsabile economico del PCI, e lui è stesso è stato membro di quella fucina di classe dirigente che è stata la Federazione dei Giovani Comunisti Italiani. Più ancora che sulla sua collocazione politica, tuttavia, vorrei soffermarmi su tre punti. Il primo riguarda proprio la necessità di riempire di contenuto l’espressione continuamente ripetuta, “classe dirigente”, nel contesto della storia dello sviluppo e dell’impresa in Italia. Un profondo conoscitore della società e dell’impresa italiana, Giulio Sapelli, ha pubblicato un pamphlet critico sul governo dei professori (si può leggere per intero su Linkiesta), in cui se la prende contro la “crudeltà istituzionale” del governo e scrive:

I professori italiani, come quelli europei e di tutto il mondo, vivono nell’iperuranio dell’astrattezza, in primo luogo gli economisti che troppo spesso sono solo professori e non intellettuali, con conseguenze ancor più umanamente devastanti: concepiscono i soggetti umani come cavie e non come persone.

Chi, come lo stesso Sapelli, ha letto “Storia del capitalismo italiano”, sa che questa definizione non si applica affatto a Barca, che i suoi lettori conoscono come intellettuale. In quel testo, l’economista parte dal progetto incompiuto di Raffaele Mattioli (che nel 2012 compie quarant’anni) dell’Associazione per lo studio della classe dirigente dell’Italia unita e compie un’analisi pregevole della fase “gloriosa” del capitalismo italiano secondo la categoria del compromesso senza riforme. È un saggio che consiglio a tutti quelli che sono interessati a capire le occasioni mancate dello sviluppo italiano, in un volume che spicca anche per la capacità del curatore di aggregare alcuni dei migliori studiosi che aiutano a comprendere il nostro Paese, da Franco Amatori a Marcello De Cecco. Analisi di questo genere segnalano, tra l’altro, che la risposta alla domanda cruciale “Come è fatta l’Italia e come è possibile cambiarla?” non deve giungere necessariamente dai consulenti di Boston Consulting Group o di McKinsey. Non è obbligatorio pagare profumatamente questa gente affinché ci insegni a pensare e a vivere sotto forma di report. La risposta può giungere anche da chi l’Italia l’ha girata di persona e, come nel test dell’ultimo libro di Charles Murray, ha magari messo almeno una volta piede in un capannone o in una stalla. E può venire da quei serbatoi, come la Banca d’Italia, in cui il nostro Paese, tra pregi e difetti, ha mostrato di poter produrre classe dirigente. Senza alcuna stupida presunzione autarchica e avendo sempre davanti l’errore del dopoguerra, quella “rinuncia a disegnare un meccanismo istituzionale che assicuri il rinnovamento del ceto dirigente”, altrimenti il “compromesso senza riforme” si trasforma in “nostalgia senza progetto”. Confortati da nuove testimonianze, ci ritroviamo ancora a celebrare il grande Raffaele Mattioli, senza sapere che fare, un po’ sconfortati.

Il secondo punto per cui abbiamo bisogno di “Clonare Fabrizio Barca” riporta all’articolo di Chiara Mazzone che abbiamo pubblicato a gennaio, “Ce la faremo a spendere i fondi europei nel 2012?”, a cui rinvio per maggiori approfondimenti. L’innesto tra interesse nazionale e politica europea è uno dei punti su cui Lo Spazio della Politica cerca di spendersi di più, fin dai contributi di Moris Gasparri e Matteo Minchio al nostro lavoro collettivo sull’Europa di tre anni fa. Già nel 2003, su Limes, Barca invitava a “prendere sul serio la politica di coesione comunitaria, attiva, con i suoi 30 miliardi di euro annui di dotazione” suggerendo per il Paese una mappa in quattro punti: per la competitività di tutte le regioni, meno aiuti di stato e addizionalità, difendere la “Maastricht del Mezzogiorno” e riformarne le regole, contenere il contributo finanziario netto dell’Italia. Dopo dieci anni, giornali come “Il Corriere della Sera” indicano con un cronometro il tempo trascorso dall’impegno dei presidenti delle camere per la riforma sul finanziamenti ai partiti. È un tema di rilievo e sentito fortemente dai cittadini, come quello che riguarda la legge elettorale. Allo stesso tempo, noi pensiamo che sia altrettanto urgente, seppur più faticoso da inserire nel dibattito pubblico, il cronometro dei fondi europei. Un tema non percepito, ma cruciale, perché dietro quel cronometro vi sono grandi, medie e piccole opere infrastrutturali, nuove imprese, percorsi di formazione, posti di lavoro, oltre alla questione dell’efficienza della nostra amministrazione pubblica. Dobbiamo anche pensare a questo, magari in una pausa dei nostri continui litigi, e a Sergio Fajardo, ex sindaco di Medellin, che negli edifici riqualificati nelle zone degradate delle città faceva appendere lo striscione “le vostre tasse sono qui!”. Anche questo sarà un mattoncino della coesione, che vince quando è più concreta della paura e del generico auspicio della bellezza della tassazione, e quando non si riduce al semplice catalogo delle cose da fare.

Infine, e questa è la ragione del titolo, il terzo motivo per cui vale la pena di clonare il ministro Barca riguarda il suo uso di Twitter. Il ministro è su Twitter dal 5 dicembre 2011 e la lettura integrale delle sue comunicazioni (la parte curata dallo staff è molto minoritaria, anche se presente per la cronaca live degli eventi) dà una buona prospettiva sulla sua attività di governo, dal racconto delle diverse città e strade italiane che ha visitato, al suo profilo di studioso (vedi i tweet sul servizio dell’Economist sull’ascesa del capitalismo di stato, qui il dibattito) per giungere poi al punto più importante, l’interazione con i cittadini, oltre che con i giornalisti e le altre autorità. Questa parte del profilo di Barca, con un po’ di buona volontà, non sarà poi difficile da clonare.

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