Significativamente Oltre

Europe

Pd/ Sabato a Roma l’iniziativa ‘Riprendiamoci il Pd’. Gli Innovatori Europei co-organizzatori

Assemblea pubblica al Nazareno ‘per un centrosinistra che vince’

“Ripartire con franchezza da ciò che è andato storto, per voltare pagina tutti insieme e preparare, a partire dal Congresso, un futuro vincente per il Partito democratico e per tutto il centrosinistra”.

È questo lo scopo di ‘Insieme Riprendiamoci il Pd’, assemblea pubblica di incontro e di ascolto, che è stata convocata da Insieme per il PD presso la sede nazionale del Partito (22 giugno, dalle 10 e 30 alle 16 e 15) per dare un impulso del tutto nuovo alla formazione politica

“C’è la consapevolezza – è scritto nell’invito- che le vicende degli ultimi mesi (in particolare ciò che ha preceduto le elezioni e il caso del Presidente della Repubblica, dalla proposta di Marini alla clamorosa bocciatura di Romano Prodi, “padre fondatore” del Pd) hanno creato disagio, malessere e molta delusione tra gli iscritti e gli elettori democratici, aumentando drammaticamente la distanza tra i vertici nazionali e la base”.

Hanno aderito e sostengono iniziativa alcune delle realtà di base più rilevanti: Oltre a Insieme per il Pd, FutureDem, OccupyPD Roma, Open PD Adesso!, Innovatori Europei, END,-Adesso Donne 3.0. BigBang NetDem.

All’evento interverranno esponenti di molte di queste realtà (hanno confermato, la loro presenza oltre a Giuseppe Rotondo per Insieme per il PD, Giulio del Balzo per FutureDem, Patrizia Cini per OccupyPd, Carlo d’Aloisio Mayo per Open PD, Adesso!, Massimo Preziuso per Innovatori Europei, Alessandro Camiz, per END, Luigi Montano per Big Bang NetDem), ma si sono registrati da tutta Italia per partecipare e prenotare intervento, che dovrà durare al massimo 3 minuti.

Interverranno Sandro Gozi, Michela Marzano, Sandra Zampa, Stefano Boeri. Aderiscono all’iniziativa Pippo Civati, Gianni Pittella, Laura Puppato, Walter Tocci, Patrizia Prestipino e Gennaro Migliore (SEL); parteciperà anche Mario Staderini di Radicali Italiani.

“Gli organizzatori dell’evento — spiega il coordinatore nazionale di insieme per il PD, Giuseppe Rotondo — sono convinti che occorra una nuova fase costituente del Pd e che questa debba passare per il Congresso, come tappa di un cambiamento reale e inizio di una fase politica che rompa con quanto è avvenuto finora e sia un riferimento per l’intero centrosinistra. Ci si può riuscire partendo dalle difficoltà (dalla mancata attuazione dello Statuto del PD), dai malesseri che devono trovare una risposta e dalle idee che possono permettere di costruire un partito e un centrosinistra in grado di proporsi agli elettori e vincere.

L’Assemblea “INSIEME riPRENDIAMOci il PD” vuole rappresentare la prima testimonianza concreta di espressione partecipata ed aperta, capace di far incontrare e mettere a confronto le diverse e preziose risorse umane, spontaneamente organizzate nel territorio e/o nella rete – costituite da iscritti, da amministratori locali, da militanti, da simpatizzanti, da elettori, da ex elettori, da potenziali elettori – che comunque si muovono, o potranno esserne attratte, intorno all’arcipelago “democratico”.

22 giugno, piazza San Giovanni in Roma: sostegno ai diritti dei lavoratori

di Giuseppina Bonaviri su L’Inchiesta

Il 22 giugno a piazza S. Giovanni a Roma saremo presenti assieme alla Rete Indipendente “La Fenice con Bonaviri” e l’Associazione “PerAlternativadisinistra” con i sindacati e le forze di lotta civili in sostegno della difesa dei diritti e della dignità del lavoro.
Mai come ora il nostro Paese ha bisogno di una classe dirigente competente e responsabile che sappia parlare la lingua delle riforme, che non agisca per la difesa di interessi di parte e che intraveda, per quello generale della modernizzazione istituzionale, amministrativa ed economica dell’Italia, nella responsabilità sociale e nella rappresentanza, la chiave di svolta per ripartire dalle criticità dell’emergenza economica. Al centro di tutte le politiche rimettiamo l’occupazione.
Si sa che dai Fondi Ue si reperirà un miliardo per l’occupazione giovanile ed il contrasto alla povertà per le famiglie con un Isee inferiore a 3mila euro annui mentre altri 3 miliardi saranno messi a disposizione delle imprese. 5oomila euro saranno invece destinati alla riduzione del cuneo contributivo per l’assunzione dei giovani per due anni. Nel decreto dovrebbero essere previsti incentivi alla auto-imprenditorialità e ai progetti di cooperative giovanili ed ancora un credito di imposta per l’assunzione dei giovani laureati in materie tecnico-scientifiche di alta qualità.
Andrebbe anche considerato, per un taglio generalizzato del cuneo, una sua diminuzione anche per gli ultra cinquantenni che al momento però non appare garantita con l’individuazione di strumenti innovativi. Sarà obbligo di chi governa puntare all’ammodernamento puntando sul lavoro di qualità non dimenticando la grande fascia dei lavoratori della conoscenza destinati altrimenti a proseguire nella loro fuga all’estero. Il capitale umano torni ad essere al centro del nostro dibattito, dunque incentivando formazione , assunzioni universitarie, codice della scuola, incentivazioni agli enti di ricerca, revisione dell’apprendistato e della flessibilità in entrata. Sbloccare il fondo per la non-autosufficienza, risolvere il problema degli esodati e della rivalutazione delle pensioni segnerà inoltre il passo con la sfida della manifestazione.
Non possiamo permettere che la disuguaglianza continui a crescere, per questo riconnettere partecipazione e decisione farà glissare l’orologio dell’agenda politica nazionale fuori da ipocrisie e funzionamento correntizio verticale.
Ecco allora che ci corre l’obbligo di alcune essenziali precisazioni per quanto riguarda la Ciociara.
Il “Patto per il rilancio dello sviluppo del territorio della provincia di Frosinone” sottoscritto da tutti i componenti il Comitato provinciale per il lavoro e lo sviluppo economico nell’aprile del 2012, dovrà tornare sul tavolo della discussione degli organismi di rappresentanza locali e coinvolgere la Regione Lazio, dalle nuove Direzioni alla Giunta. Con le cancellazioni delle provincie viene meno, a fine anno, un soggetto politico di rappresentanza collettiva del territorio che rafforza l’urgenza di rivolgere un appello al Presidente Zingaretti, in occasione della manifestazione del 22 prossimo, per l’apertura di un tavolo di consultazione che, quanto prima, possa rassicurarci sull’utilizzo dei fondi strutturali 2014-2020 nella programmazione UE senza i quali le imprese del nostro territorio -che pure hanno accettato la sfida della competizione- rischiano di rimanere fuori mercato. Non si può condannare la nostra provincia al sottosviluppo. I ciociari vogliono continuare a sperare e ce la faranno.

#OccupyGezi or Taksim Square?

by Zeynep Gulsah Capan

Define, periodise, prioritise and fit in a narrative.

This is the struggle that characterises the events happening in Istanbul. Who will get to tell the story of #occupygezi and who gets to tell the story mean different definitions, periodizations, prioritisation of issues and narratives than the ones #occupygezi protesters might have initially intended. The last couple of days has seen endless debates about what the events signify and research into which political party do the protesters feel closest to, how do they identify themselves[1] yet how they identify themselves is increasingly getting lost within the polarising discourse of Prime Minister Erdogan. It is not just him though. Even if unintentionally the binary of the modern/traditional, secular/islamist Turkey is being reproduced even within certain sectors of the protest movement.

The cover of Economist demonstrates this point clearly. A democrat or a sultan? It can not be anything else. What is more troubling than the cover (the orientalisation of the debate and reducing it to binaries was something expected of the Western media) is that this cover has been posted on Facebook and Twitter in a congratulatory manner. If the Economist backs your argument you must have been right. Is that really so? Or are we so stuck within Western centric conceptualisations of ourselves that we can’t see the problem with this picture?

KAL’s Cartoon

The reaction to the cover and the interaction with the Western media and the discourses employed is representative of the discourse that seems to be increasing as the protests continue. It is also a discourse that reverts us back to reproducing binaries. The call to the West, the references to ‘backwardness’, the constant discussion of secularist vs islamists, this othering is the reason for the state of Turkey right now. his discourse re(produces) the (in)securities of the pious muslims especially veiled women who were forcefully removed from the public sphere and silenced for decades and still are to an extent.Their fear that this discourse signals the possibility of again having to abdicate their right to freely exist in the public sphere causes them to (re)align themselves with the JDP as the only party that “protects” their rights. .In turn they also, as can be seen in twitter and Facebook, revert back to the discourses of polarisation and re(produce) their own othering, of equating the protestors with the Kemalist establishment that had silenced them for so long and military interventionism. It needs to be pointed out that it is not only the discourse itself but also the hundreds of Turkish flags, pictures of Ataturk and references to being Ataturk’s soldiers are also a source for insecurity. The flag and Ataturk might represent a sense of pride and sign of unity for many but it was also the reason for years of silencing, torture and deaths for others. The (in)security one might feel when they are bombarded with constant images of people with Turkish flags should not be overlooked and it also points out to a continuing problem that the ‘national’ flag itself is a source of ‘othering’.

This process of othering reifies the discourses on polarisation as if this is the only way to make sense of Turkey: modern/traditional, western/eastern, secular/islamist. It is not just the Western gaze that is producing these narratives, Turkey is complicit in this production. The pleas to the Western media to recognise the plight of the protestors while underlying that this is happening because of JDP is not modern, developed, Western enough to be democratic, the constant references to ‘what will the Westerners think of us now’, the endless search for ‘foreign agents’ and foreign involvement to explain the protests, the branding of criticism as only possible if it is allied to military interventionists are all complicit in the production of the discourses on polarisation and reducing the debate about the events in Turkey into clearly delineated and in no way explicatory binaries of modern/traditional, secular/islamist and as the Economist put it: democrat or sultan!!!

The cover and its reception point to a greater problem of defining what is happening in Turkey and how it will be framed; is it #occupygezi or Taksim Square? There have been endless articles discussing whether or not the events can be considered Turkey’s Tahrir Square.[2] This of course would put Turkey within the narrative of Middle Eastern revolts and part of a process of democratization in the Middle East and Third World countries. Or is it part of the Occupy movements that have manifested themselves in Western democracies. Which is it? #Occupygezi or Taksim Square, one or the other, both or neither!

This is a trick question in many ways because whichever way you answer you will be promptly put in a narrative prioritising one dynamic over the other, narrating Turkey as part of one spatial construct over another. One way or another you will orientalise Turkey, simplify its history and obscure many voices. Yet this is the main struggle presently over twitter, over Facebook and in op-ed columns. Who are the protesters (define yourselves), what are your demands (prioritise), what do you represent; fit into a damn narrative!!!!!!! And if you do not choose one and start framing yourselves accordingly soon enough you will be forcefully packaged into one of the readily available ones of modern/traditional, secular/islamist, left/right, establishing order/inciting anarchy, independent republic/foreign agents.

Pick a side, any side!!!

#Occupygezi will have failed if it does end up picking a side, if it does end up in one of the neatly packaged narratives Turkey has of itself. From its start I have been hopeful about the prospects of what this movement (if it can be characterised as such) means for Turkish politics exactly because it does not belong to a side, it is not part of the polarising discourse that aims at and feeds from creating an other, it is not part of a neatly packaged narrative about modernisation or democratisation. It has been coming under attack from all sides exactly because its existence, its success means that politics in Turkey has to change and none of the political actors in Turkey seem to have the vocabulary to engage in a political discourse that is not about reproducing binaries.

I have been using #occupyGezi to characterise the events from the beginning. I frame its beginning (based on the issue (environment, neoliberal policies) and the socio-economic background of the initial protesters (educated, middle-class university students) as part of the Occupy movement that is seen in democratic governments implementing neoliberal policies but it is open to debate whether or not these characterisations can still apply to the tens of thousands protesting today. I also frame it as part of the democratisation of the Middle East region especially with respect to the government’s response and the role of the media. Can it be both at the same time? Does it have to be one or the other? Can it be neither? If it does also demonstrate similarities with the Arab revolts why do I keep calling it #occupyGezi? Maybe that also reveals something about where I stand in the narratives of Turkish politics and it is something I should question. In order to overcome reductionist analyses and reproduction of binaries we have to ask questions that do not have readily packaged answers even to ourselves and maybe then we can start (re)defining what it means to be secular, islamist, modern, traditional without being dependent on binary constructions.

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[1] http://t24.com.tr/haber/gezi-parki-direniscileriyle-yapilan-anketten-cikan-ilginc-sonuclar/231335

[2] http://muftah.org/why-the-gezi-park-protests-do-not-herald-a-turkish-spring-yet/, http://www.al-monitor.com/pulse/originals/2013/06/turkish-spring-protests-istanbul.html

L’uguaglianza estrema

di Raffaele Simone su La Repubblica

Una delle rivendicazioni più insistenti di tutti i movimenti populisti d’Europa è quella della parità totale tra eletti e elettori. Anche il M5S ne ha fatto una delle sue bandiere. Ma a poco a poco quest’atteggiamento egalitario si sta estendendo a tutte le forme di distinzione. Anzitutto quelle funzionali: il capo dello Stato può essere apostrofato come un amico di bevute, gli avversari dileggiati con battute e nomignoli da osteria, le istituzioni trattate come rottami. Tutte le distinzioni si appiattiscono in un’orizzontalità assoluta. Anche il campo delle valutazioni tecniche complesse è colpito dal vento del “tutti uguali!”.

Sebbene il movimento sembri non avere nessun think tank (salvo qualche professore rancoroso), il suo leader e numerosi membri si producono in impegnative esternazioni anche su temi difficili, come la politica monetaria o quella europea. Su che dati si basano queste opinioni? Su che studi? Dagli argomenti del capo, sembrerebbero basati su nulla più di quel che si legge sui giornali o si dice in giro. Insomma, in politica le opinioni generiche cominciano a pesare quanto il sapere tecnico.

Le società democratiche, pur riconoscendo ai cittadini uguaglianza giuridica, civile e di opportunità, preservano gelosamente una varietà di distinzioni tra ordini e ranghi. Il magistrato non può essere sostituito da un comitato di cittadini, il professore dal più bravo dei suoi alunni, il medico da un portantino. Lo spirito di uguaglianza che sta alla base delle democrazie deve dunque ammettere dei limiti. Il grande Montesquieu nell’ Esprit des lois (1748) indicava con folgorante preveggenza che due sono gli eccessi da cui le democrazie devono guardarsi: «Lo spirito di disuguaglianza» ma soprattutto «lo spirito di uguaglianza estrema». Quest’ultimo si ha quando chiunque vuole essere «uguale a colui che ha scelto per comandare. Allora il popolo, non riuscendo a sopportare il potere che esso stesso attribuisce, vuol fare tutto da solo: deliberare per il senato, eseguire le sentenze al posto dei magistrati e esautorare tutti i giudici». Nella «democrazia regolata» si è uguali solo come cittadini; in quella che regolata non è si è uguali anche come «magistrato, come senatore, come giudice…». È chiaro che la richiesta populista di parità senza distinzioni è una delle facce della “uguaglianza estrema” descritta da Montesquieu. Il guaio è che lo spirito di egalitarismo totale dorme nascosto nei tessuti della democrazia, della quale è uno dei “nemici intimi” (secondo la felice formula di Tzvetan Todorov). Il principio democratico contiene infatti un’utopia insopprimibile: l’idea che individui diversi per mille motivi siano uguali dal punto di vista civile, giuridico e politico. Ora, basta prendere quest’utopia alla lettera, non ammettere che si tratta di una “finzione” operativa, per attivare un circuito che porta a rifiutare ogni sorta di distinzione, quale che sia l’ambito a cui si applica. Questa è la fonte della richiesta di uguaglianza estrema che sta alla base del grillismo, in cui agisce anche l’insofferenza, tipica dei populismi, verso le regole della democrazia rappresentativa. In questo panorama qualunque intermediario (dal parlamentare all’amministratore pubblico) è visto come un opportunista, un impostore o un affarista, che lucra vantaggi profittando della delega che ha ricevuto dai cittadini. I populismi contengono infatti una contrapposizione tra il popolo (“noi”) e le élite, e il popolo se lo rappresentano come un’entità omogenea, monolitica, in cui non ci sono differenze di classe o di interesse. È questo popolo che deve esprimere le sue decisioni in politica, senza lasciarle ad altri. Questo è anche il motivo per cui il M5S è così avverso alla mancanza di vincolo di mandato prevista dalla Costituzione, che interpreta come una mera licenza per l’eletto di fare il proprio comodo. Ci sono motivi per considerare inquietante lo “spirito di uguaglianza estrema” già nella sua applicazione alla sfera della rappresentanza. Ma che cosa accadrebbe se la prospettiva disegnata da Montesquieu si realizzasse fino in fondo, se cioè il “popolo” pretendesse di fare non solo il senatore (a questo siamo già arrivati), ma anche il magistrato, il poliziotto, il docente, il giudice?

Le tecnologie del futuro e le città intelligenti

di Massimo Preziuso

Nei giorni scorsi McKinsey ha pubblicato un interessante report dal titolo “Disruptive technologies: Advances that will transform life, business, and the global economy”. Il documento descrive le 12 tecnologie a maggiore impatto potenziale sull’economia mondiale nel 2025, selezionate in un campione di più di 100 potenziali.

Tabella: Stima del potenziale impatto economico delle nuove tecnologie nel 2025 (in migliaia di miliardi di dollari)

Tabella

Fonte McKinsey (Maggio 2013)

Secondo McKinsey la rivoluzione tecnologica in corso da qui al 2025 sarà fortemente centrata sul “digitale” che permetterà – tra le altre cose – di creare business tramite “l’internet mobile” e la analisi dei “big data”, di automatizzare enormi volumi di lavoro manuale ed intellettuale tramite “robot”, di virtualizzare processi reali spostandoli dall’hardware alla “nuvola internet”, di portare la fabbrica in ogni casa con la “stampa 3D” e di connettere “internet” agli “oggetti” trasformandoli in fornitori di servizi.

La tecnologia digitale sta portando inoltre enormi innovazioni nel campo della genomica, con conseguenze potenzialmente illimitate sulla salute e la longevità degli individui.

Queste innovazioni tecnologiche renderanno obsolete grandi parti dell’industria tradizionale e larghe fette di lavoro manuale ed intellettuale, mentre creeranno nuovi business e nuovi lavori, altamente specializzati.

Il trasferimento di enormi potenze di calcolo nella “nuvola”, messe in rete con la pervasività del “mobile internet”, l’intelligenza presente negli oggetti, la presenza di aziende altamente automatizzate  la diffusione di auto a guida automatica, alimentate da potenti “batterie” e da fonti rinnovabili, renderanno la città un ambiente dotato di elevata densità di informazioni, know – how, qualità della vita e creatività. In cui il lavoro si svolgerà in luoghi diversi e in modalità nuove e flessibili.

Un esempio viene dagli Stati Uniti, dove l’effetto dirompente del movimento dei makers è stato riconosciuto dal visionario presidente Barack Obama, che ha annunciato un piano di 3 miliardi di dollari per la creazione di istituti per l’innovazione, i FabLab nati al MIT dal lavoro di Neil Gershenfeld. Laboratori digitali e tecnologici “low cost” in cui si progettano e già si realizzano nuovi modelli di produzione manifatturiera. Dotati di competenze iper specialistiche messe in rete grazie al digitale, saranno questi i luoghi che porteranno alla nascita delle cosiddette “micro – multinationals” (“Race against the machine”, 2011), aziende a struttura operativa micro ma dotate di mercati di riferimento e fatturati di una multinazionale.

Il futuro vive già oggi nelle città intelligenti. Ma per trarne vantaggi netti, esso va compreso prima che arrivi. Soprattutto in paesi come l’Italia, dotati per storia di intelligenza e imprenditoria diffusa, che va finalmente messa a sistema. Grazie alle tecnologie dirompenti.

It’s the Democracy, Stupid!!! (from Turkey)

Written by Zeynep Gulsah Capan (PhD student in Politics)

The #occupygezi movement has sparked a wave of protests that started in Istanbul but now has spread all over Turkey. It might seem puzzling at first why an essentially environmental issue was the spark when Turkey has been experiencing a series of crisis such as Reyhanli and the alcohol ban. Uncovering why #occupygezi was the spark will also reveal some of the important dynamics at play in the protests.

There has been a process of (dis)locating Turkey, Turkish foreign policy and its place in the international system. As these redefinitions of society, the state and its foreign policy has been undergoing, the attitude of the government has not been to include the citizens in a dialogue about the future of Turkey. The JDP party has proceeded with its scripting of Turkish identity through a monologue. Although this has been a visible attitude with the JDP government for some time, it has become more acute in the last couple of months. Then why was #occupygezi the moment that finally brought the citizens forward.

The reason I think can be found in the polarization of Turkish society. The polarization is not the reason the protests are happening today but rather the construction of polarization discourse was the reason the protests did not happen until today. As opposed to Reyhanli and the alcohol ban, the gentrification of Gezi Park was not and could not be so easily framed within the polarization discourse of ‘supporters of Esad’ vs ‘supporters of Islamic fundamentalism’ and ‘secular lifestyle vs religious imposition’. The #occupygezi movement was about the city of Istanbul, it was about how the people of Istanbul were left out of the deliberation process of deciding the future of its green areas, it was and could be about democracy. This is not to claim that in the cases of Reyhanli and the alcohol ban the democratic process functioned (it did not) but both issues from the start were constructed in such a way that situated them within the binary oppositions of ‘secular’ vs ‘islamist’. Even though there have been op-ed columnists and JDP and RPP officials trying to frame #occupygezi in such a similar manner, it had not been such an issue from its start and thus the attempts to frame it as such failed and is failing. The non-framing issue is related to #occupygezi movement being an environmental issue and not having been contextualized as part of an ongoing ‘identity’ issue like Reyhanli was with respect to Turkish foreign policy and the alcohol ban was with respect to Turkish identity and lifestyle discussions.

#Occupygezi became the spark because it was not part of the 52% vs 48% discourse that has been constantly reproduced by the JDP, RPP and popular media. The binary oppositions of ‘secular’ vs ‘islamists’ and the discourse of polarisation has been instrumental in silencing and marginalizing democracy concerns. The public sphere in the last couple of years had been replete with ‘naming and shaming’. Either you have a side within these binaries or are assigned into one. It had become impossible to criticize the state of democracy in Turkey without being ‘accused’ of supporting the RPP and military interventionism. Likewise it became impossible to criticize the RPP or the legacy of the military without being ‘accused’ of being a JDP sympathizer. The two ‘sides’ were reproduced in every issue and debate whether it be Reyhanli or the alcohol ban effectively silencing discussions on democratisation and limiting the discursive sphere to verbal battles between Kilicdaroglu and Erdogan.

The #occupygezi movement was the spark of the protests because it was not framed within these binary oppositions. The protests undergoing in Istanbul are a way to finally express discontent about the state of Turkish democracy that had been obscured within the constantly constructed discourse of polarization and binary oppositions in the public sphere. It is a way to reclaim a space within this sphere where discussion is possible without it being reduced to 52% vs 48%. It is finally about democracy!!!!

La generazione dannata: la disoccupazione giovanile come questione morale

Di Francesco Grillo su Il Messaggero

Fa bene Enrico Letta a fare della lotta alla disoccupazione giovanile una questione morale di primo ordine. Nel 2012 sono stati un milione e trecentomila i giovani che in Italia erano fuori da qualsiasi impegno di studio o di lavoro: è un dato che la crisi economica ha reso ancora più drammatico, raccontando di milioni di esistenze che rischiano di perdere senso. In realtà però, anche nel 2007, prima della grande crisi, l’Italia era il Paese che faceva registrare quella che era, di gran lunga, la più alta  percentuale di persone tra i 15 e 24 anni completamente inattivi. Per reagire non è sufficiente aspettare la crescita, e, neppure, appaiono risolutivi gli interventi sulle regole che disciplinano il mercato del lavoro. La priorità, che certamente Enrico Giovannini ha ben presente, è costruire meccanismi in grado di avvicinare in maniera sistematica ed efficiente le competenze degli individui (non solo quelli giovani) alle richieste delle imprese.

In effetti, il fatto che, dovunque, in Europa e nel mondo, la disoccupazione giovanile è significativamente più alta di quella relativa alla popolazione nel suo complesso costituisce un paradosso doloroso che gli economisti non riescono ancora a spiegare: in teoria le persone giovani dovrebbero avere una flessibilità maggiore ed un bagaglio di conoscenze maggiormente adatto per inserirsi in un mondo del lavoro dominato dalle tecnologie. Così non è, e, forse, il dato sulla disoccupazione giovanile suona anche come atto di accusa ad un apparato produttivo che, nel suo complesso, appare privilegiare la continuità sull’innovazione, nonostante la richiesta continua di flessibilità che viene dal mondo delle imprese. Ma il numero ancora più drammatico è, come si accennava, quello dei giovani che non lavorano e neppure studiano (not in employment, education or training): in Italia un giovane su cinque si trova in questa situazione, una percentuale superiore a quella della Spagna che è la pecora nera della zona Euro per ciò che concerne la disoccupazione; nel nostro Paese si trovano, peraltro, più di un quarto dei cinque milioni di giovani inattivi che si contano nell’intera zona Euro. Un primato triste che è, come abbiamo detto, solo in parte conseguenza della crisi e che, anzi, rischia di compromettere per generazioni la capacità del Paese intero di ricominciare a crescere: studi condotti in Paesi diversi quanto lo possono essere Stati Uniti o Brasile, confermano che persone restate fuori dal mercato del lavoro e dello studio negli anni più critici della propria formazione, hanno minori probabilità di trovare lavoro, tendono a perdere fiducia nei propri mezzi e a sentirsi meno inseriti nella propria comunità.

Ma cosa mettere in cima alle priorità di un Ministro che provi con pochissime risorse ad affrontare il problema in un momento così grave? Di sicuro la qualità della regolamentazione può aiutare. Tuttavia, tale nozione non corrisponde sempre al concetto di flessibilità e i dati dimostrano che non sempre un intervento sui contratti è sufficiente: anche se l’Inghilterra e gli Stati Uniti hanno, secondo il World Economic Forum, un vantaggio competitivo su questo aspetto, ciò non toglie che la percentuale di giovani completamente inattivi era superiore in questi due Paesi (attorno al 14% secondo l’OECD) rispetto alla Francia (12) e, ancora di più, rispetto alla Germania (9). Ed, in effetti, ciò che conta – e conta soprattutto per un giovane – non è solo di entrare in azienda, ma anche di avere un periodo di addestramento sufficientemente lungo che gli consenta di acquisire competenze trasferibili al prossimo lavoro.

In effetti, più della crescita e della rigidità dei contratti, i giovani europei ed, in particolar modo, quelli italiani, appaiono fortemente penalizzati da un altro fattore: il forte disallineamento tra le richieste delle imprese e le competenze individuali che i giovani europei maturano a scuola e nel proprio ambiente formativo. Per cinque milioni di giovani che – nella sola zona Euro – non hanno assolutamente nulla da fare, ci sono  – come dimostrano studi di McKinsey –  centinaia di migliaia di posizioni di ingresso nelle aziende europee che non sono occupate.

Ciò, secondo alcuni,  sembra mettere in discussione la capacità che i giovani europei veramente hanno di adattarsi ad un mondo che è molto cambiato rispetto a quello dei propri genitori e che continua a farlo. Ma soprattutto esige un investimento da parte dello Stato – e della Commissione Europea che dovrà farlo per aumentare l’efficienza dei finanziamenti comunitari da spendere nei prossimi sette anni – nel rafforzamento e riqualificazione dei meccanismi di formazione professionale e degli altri servizi che dovrebbero far incontrare domanda e offerta di lavoro.

Qui però c’è un buco nero disegnato dall’esperienza degli ultimi anni: perché se è vero che bisogna investire di più in questi strumenti e altrettanto vero che – come ebbe modo di dire il Governatore della Campania, Bassolino, qualche tempo fa – la formazione spesso serve solo a pagare lo stipendio dei formatori.

La ricetta è, in teoria, semplice: pagare chi forma sulla base del numero e della qualità dei posti di lavoro generati; privilegiare fortemente i progetti al cui costo contribuiscano le imprese presso le quali la formazione si svolge; dare agli stessi beneficiari degli interventi la possibilità di spendere il proprio capitale formativo (voucher) presso l’agenzia che garantisce i risultati migliori.

Anche in questo caso ci sono interessi (economici) che producono resistenza al cambiamento; la crisi, il suo contenuto drammatico che la disoccupazione giovanile rappresenta così efficacemente, rende, tuttavia, il compito del Ministro Giovannini meno arduo e il cambiamento inevitabile.

Verso Anno Uno 2014 in Italia?

 

 

di Innovatori Europei

Lo si sentiva nell’aria da qualche tempo. Che l’Italia 2013 è Italia Anno Zero.

Zero nel senso dell’azzeramento, che è economico, sociale e politico.

Ma è chiaro che quando si arriva allo zero ci sono solo due possibilità davanti: rimanere fermi, a zero appunto, o tornare a crescere, ed andare verso uno.

Ci sono sempre più motivi, a voler essere anche un po’ ottimisti, per pensare che per l’Italia valga la seconda opzione.

Fino ad oggi tali ragioni erano di ordine macro – economico e di natura internazionale.

La drastica cura finanziaria montiana di “austerity depressiva”, se da un lato ha portato il Paese vicino ad un nuovo precipizio (non finanziario questa volta), tramite un miscuglio micidiale di instabilità di finanza pubblica e crollo nell’economia reale (industria e famiglie), dall’altro ha portato ad un rinnovato rispetto delle istituzioni europee verso una Italia che fatto bene – troppo, secondo molti italiani – i compiti di risanamento a casa.

Ed ecco allora che il nuovo governo Letta si è potuto da subito dedicare ad aprire dei capitoli fondamentali per il rilancio del sistema Paese. Discutendo di selettività dei tagli della spesa pubblica improduttiva, di revisione del finanziamento pubblico ai partiti, delle modalità di pagamento dei crediti insoluti della pubblica amministrazione alle imprese.  Rivedendo in ottica di progressività il contributo della patrimoniale sugli immobili (IMU) e provando ad eliminare il previsto aumento dell’IVA. E portando in Europa le esigenze di un Paese stracolmo di disoccupazione e di una industria morente.

Ed è di ieri la notizia che l’Italia uscirà a breve dalla procedura europea per deficit eccessivo, potendo rapidamente liberare risorse per la lotta contro la disoccupazione giovanile (e non solo).

Ma è di oggi la notizia che certifica le altre. Alle elezioni amministrative, al netto di un serio astensionismo avvenuto principalmente nella capitale, il voto premia i due grandi partiti di governo, Partito Democratico per primo.

Il governo delle larghe intese sembra ricevere supporto da parte dell’elettorato e da domani avrà più forza per condurre il Paese verso una crescita che potrebbe partire lenta ma divenire di lungo periodo.

Il Movimento Cinque Stelle, mentre riduce (quasi dimezzando) il proprio elettorato, come da molti previsto (dopo il rifiuto al dialogo di governo con il PD), si avvia verso una fase politica matura, che sarà probabilmente denotata da maggiore qualità di proposta (e il candidato romano De Vito ne è l’immagine).

Nel Terzo Polo emerge una nuova potenziale leadership, che potrebbe caratterizzare una nuova coalizione di Centro – Sinistra: quella dell’ingegnere Marchini, vero outsider della società civile di queste elezioni amministrative romane.

La sua performance – da civico – dà ragione ad esperienze come quella di Innovatori Europei, oggi in grado di rappresentare significative fette di elettorato che non si collocano nel tradizionalismo politico, ma che hanno voglia di esprimere le proprie idee, scendendo in campo.

Ci aspetta dunque un secondo semestre 2013 in cui ci saranno tutte le premesse positive – economiche e politiche – per riportare il Bel Paese alla crescita nell’Anno Uno 2014.

Un anno che sarà per forza di cose partecipato.

Sbagliare anche questa volta sarebbe imperdonabile davvero.

 

Avanti!, più Luci che Ombre

di Giuseppe Mazzella

 

Ugo Intini è oggi un uomo di  72 anni che  ha dedicato oltre mezzo secolo della sua vita  all’ Idea del Socialismo Riformista  facendone una “ religione laica” tentando di coniugare la teoria con la pratica. Si iscrisse al Partito Socialista Italiano a Milano, dove è nato e dove vive,  a 18 anni quando frequentava il liceo classico e si presentò a 19 anni nella redazione milanese dell’ “ Avanti!”, al centralinista ,con la più  banale delle  richieste: “ Sono un compagno e vorrei fare il giornalista, forse può servire una mano”. Ha dato una mano all’ “ Avanti!” per 43 anni  fino a diventare direttore e lo è stato per 9 anni dal 1978 al 1987, il periodo di massima espansione del PSI.

Nel PSI è  sempre stato un “ autonomista”, cioè nel partito della “ Prima Repubblica”   più aperto  di tutti gli altri alla democrazia interna con  una vastità di correnti che si chiamavano “ Riscossa”, “ Presenza”, “ Impegno”, “ Rinnovamento”, “  Unità”, e che si dividevano sull’ eterna questione del rapporto con i comunisti  nell’ eterna questione  di ben rappresentare il movimento operaio, Intini per tutta una vita ha sostenuto che una “ cosa” era il “ socialismo” ed un’ altra “ cosa” era il “ comunismo” e che le due “ cose” non erano coniugabili. Sostenere questo negli anni ‘ 60 e ‘ 70 del ‘ 900, quello che  il grande storico  marxista inglese, Eric Hobsbawm, chiama il “ secolo breve” e che è invece il “ secolo lunghissimo”, non era facile. Trovare uno spazio “ autonomo” per il PSI schiacciato  tra la DC ed il PCI era impresa titanica.

Ugo Intini non si è  mosso di un millimetro da quelle convinzioni giovanili nella buona e nella

cattiva sorte. Dopo la dissoluzione del PSI nel 1993 non è salito sul carro dei  nuovi vincitori della destra berlusconiana ma è rimasto nella sinistra riformista tentando una ricostruzione socialista prima con lo SDI e  poi con il PS di Boselli. E’ stato deputato nella Prima e nella Seconda Repubblica e vice ministro degli esteri nell’ ultimo Governo Prodi.

Dopo questo lungo percorso di vita pubblica  ha deciso di  lasciare una testimonianza e da buon giornalista ha voluto raccogliere i “ documenti” per inserire le sue “ riflessioni”.

Così ha scritto  un libro sulla storia dell’ “ Avanti!” ( si scrive sempre con il punto esclamativo) dove ci ha messo anche la sua storia personale,  le sue esperienze, i suoi ricordi, le sue verità e lo ha scritto in prima persona. Il libro si chiama: “ Avanti!, un giornale, un’ epoca – 1896-1993. Le sue pagine, i suoi giornalisti e direttori raccontano un secolo. Da Bissolati a Mussolini, Gramsci, Nenni, Pertini, Craxi” ed è edito da un piccolo editore romano “ Ponte Sisto”. Ne è venuta fuori un’ opera monumentale di 758 pagine che attraverso le cronache ed i commenti dell’ “ Avanti!” raccontano tutto il Novecento proprio alla maniera “ temporale” di Hobsbawn perché il Novecento dei Grandi Fatti comincia proprio alla fine dell’ Ottocento e finisce non nel 1999 ma almeno 10 anni prima, ma forse continua perché se è  finita la Guerra Fredda  questa seconda globalizzazione aggrava il divario tra ricchi e poveri e fa aumentare e non diminuire la disoccupazione in tutto il mondo dall’ unico sistema economico capitalistico.

Raccontando la nascita, l’ espansione e la morte dell’ “ Avanti!” Ugo Intini racconta veramente un’ epoca, racconta tutta la storia del Partito Socialista Italiano e dei socialisti “ stretti” nello spazio angusto tra i comunisti ed i democristiani. Ma chi erano questi socialisti? Cosa volevano? Volevano stare con Mosca o con Washington? ma cos’ era questo loro “ riformismo” ? chi era Nenni, questo romagnolo che prima era “ massimalista” eppoi divenne quasi socialdemocratico senza mai lasciare la sua “ casa”? Cosa significava questa rissosa costellazioni di correnti all’ interno del PSI? Perché una, due, tre “ scissioni”  a destra ed a sinistra e poi una “ unificazione”? ma  da dove arrivavano i soldi per il finanziamento dei socialisti?

Intini fa parlare soprattutto l’ “ Avanti!” questo giornale  nato nel giorno di Natale del 1896 , come un “ Gesù laico”  per  istruire ed informare la classe operaia, per formare una classe dirigente, per realizzare una democrazia politica autentica. I successi dell’ “ Avanti!” sono il successo del riformismo così come le sue sconfitte.

Bisogna leggere e studiare questo” librone” che è stato presentato venerdì 17 maggio 2013 nel corso di  una piccola riunione svoltasi all’ Hotel Carlo Magno di Forio per iniziativa dell’ editore e moderata dal giornalista Raffaele Indolfi che fu corrispondente dell’ Avanti! Da Napoli negli anni ‘ 70 e ‘ 80 prima di diventare redattore de “ Il Mattino”. Vi hanno preso parte oltre a Ugo Intini, l’ ex senatore socialista Luigi Covatta, che oggi tiene in vita  come direttore “ Mondo Operaio” il mensile di riflessione dei socialisti per  mezzo secolo, e l’ ex deputato comunista Berardo Impegno mentre Vito Iacono ha tenuto l’ introduzione. C’erano poche persone. Qualche giovane candidato nella lista civica “ Il Volo” al Comune di Forio ed alcuni vecchi socialisti come chi scrive questa nota, l’ ex eurodeputato Franco Iacono, l’ ex consigliere regionale Antonio Simeone e qualche altro. Ma non è stata una riunione di “ amarcord” o di “ combattenti e reduci” come ce ne sono state molte in questi ultimi vent’anni perché il PSI è morto nel 1992 , proprio nell’ anno del suo centenario, distrutto da quella che si chiamò “ tangentopoli”. L’ incontro meritava un uditorio molto più vasto.

Intini dedica  un intero capitolo al biennio 1992-1993 che intitola “ il crollo” e non nasconde nulla.

Covatta ha sottolineato che “ al tempo della prima Repubblica c’ erano i giornali di partito che contribuivano ad elaborare la linea politica, come l’ “ Avanti!”, mentre oggi ci sono i giornali-partiti che pretendono di essere loro stessi partito”.

Berardo Impegno, 68 anni, professore di filosofia,ha sviluppato un intervento profondo portando la sua esperienza personale. E’ nato socialista.  Giovanissimo  si iscrisse al PSI che lasciò nel 1964  con la scissione di sinistra del PSIUP poi nel 1972 dopo lo scioglimento del PSIUP la sua “ confluenza” nel PCI  fino a diventare deputato e segretario della Federazione di Napoli.

“ Questo libro si legge come un romanzo storico – ha detto Impegno –  ed apre interrogativi forti come: qual è il senso della Politica? Quali insegnamenti si possono trarre dal passato di rotture, scissioni, unificazioni, della sinistra  del PSI e del PCI per proporre oggi una “ nuova sinistra”?

Impegno si è definito un “ socialista eretico” che è “ confluito” nel PCI ma che ritiene oggi necessario costituire un “ socialismo liberale” di cui i socialisti sono stati  gli anticipatori.

Ed infine Impegno ha espresso “ stima ed ammirazione” per Ugo Intini per  il suo “ coerente impegno politico” e per la sua incessante apertura al “ dialogo nella sinistra”.

A questa riunione dopo molti anni, anni di liberismo sfrenato con la distruzione dello “ stato sociale”, della “ spettacolarizzazione della ricchezza”  e della crescente povertà, della distruzione della Politica con la P in maiuscolo, ci siamo chiamati “ compagni” come si chiamavano i socialisti, i comunisti e gli aderenti al piccolo Partito d’ Azione.

E’ una parola di “ conforto e di gioia” ricorda Ugo Intini che fu  inventata da Edmondo De Amicis, quello del libro “ Cuore”, socialista, in un fondo sull’ “ Avanti!” del 1 maggio 1897.

“ All’ “ Avanti!”  e tra i socialisti per un secolo si  respirerà sempre questo  spirito, si avvertirà sempre l’ appartenenza ad una comunità di “ compagni” scrive Intini.

L’ osservazione di Intini è stata così toccante che ho ritenuto di intervenire ricordando quella poesia di  Paul Elaurd dedicata ad un martire della Resistenza francese, Gabriel Péri, dove il poeta dice che “ ci sono parole che fanno vivere e sono parole semplici. Amore, Giustizia, Libertà. Certi nomi di fiori e certi nomi di frutti. La parola coraggio, la parola scoprire, la parola fratello e la parola compagno. Péri è morto per quel che ci fa vivere. E diamogli del tu gli hanno spezzato il petto. Ma grazie a lui ci conosciamo meglio. E diamoci del tu la sua speranza è viva”.

Ecco: a me pare che la lunga storia dell’ “ Avanti”, del Partito Socialista e dei suoi uomini e donne, grandi e piccoli, della sua tragedia finale,   come ogni “ storia vivente” è fatta di Luci ed Ombre ma le Luci sono ampiamente superiori alle Ombre tanto che richiedono di essere riaccese per il Mondo che  ne ha bisogno, per le nuove generazioni che debbono riconquistare la Speranza per una società civile più giusta e più umana che si può realizzare solo con un “ socialismo dal volto umano”.

Intini chiude il suo libro con la rilevazione dolorosa che l’ “ Avanti!” chiude nel 1993  senza un saluto di commiato” come un vecchio che muore di inedia dopo aver molto vissuto. Dopo una storia che, credo, valeva la pena di raccontare”.

 

 

 

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