Europa e Mediterraneo
INTERCETTAZIONI: MASTELLA O NO?
di Fernando Cancedda
“Sarebbe davvero singolare se la prima legge promossa dal governo di centro sinistra riguardo all’informazione fosse una legge liberticida, come questa sulle intercettazioni telefoniche”. Paolo Serventi Longhi, segretario generale della FNSI, interviene senza peli sulla lingua al convegno su un tema delicato e attualissimo: segreto investigativo e diritto all’informazione. Un’ipotesi, quella di Serventi, nient’affatto remota. La legge che prende il nome dal ministro Mastella, approvata da larghissima maggioranza alla Camera e attesa nelle prossime settimane al Senato, è in dirittura d’arrivo.
“Se fate un po’ di baccano maggioranza e opposizione faranno a gara per non farla passare”, dice con apparente convinzione Francesco Cossiga, ospite d’eccezione nella sala “Tobagi”, affollata da giornalisti e politici illustri ma anche – buon segno – da decine di studenti delle scuole di giornalismo. I promotori della manifestazione, a cominciare dal presidente dell’Ordine regionale Bruno Tucci e dal segretario del Consiglio nazionale dell’Ordine Vittorio Roidi, non sembrano però condividere l’ottimismo dell’ex presidente della Repubblica. Alla Camera, dove pure i giornalisti sono numerosi, soltanto pochi deputati si sono astenuti. Uno di loro, Giuseppe Caldarola, ha accennato nel suo intervento all’insofferenza diffusa tra i politici per la pubblicazione di conversazioni intercorse nelle stanze del potere. E di “irritazione generale” nei confronti della stampa ha parlato anche un altro dei parlamentari astenuti presenti, il professor Roberto Zaccaria.
Giovanni Valentini (La Repubblica) e Antonio Padellaro (L’Unità) hanno ricordato che il nodo principale è il divieto di pubblicazione previsto fino al termine delle indagini preliminari, che in Italia durano mesi o addirittura anni. Senza le rivelazioni sui “furbetti del quartierino” e altri più o meno recenti scandali nazionali gli italiani sarebbero probabilmente all’oscuro di gravissimi episodi di corruzione. Una sanzione monetaria notevolmente aggravata (fino a centomila euro) creerebbe inoltre una discriminazione fra ricchi e poveri. E poi perché dovrebbero essere i giornalisti i primi (e i soli) a pagare? “Voi potete pubblicare tutto – ha assicurato Cossiga – e in Senato io non mi limiterò a votare contro. Proporrò un emendamento: nessuna sanzione ad un giornalista prima che sia pronunciata e passata in giudicato la sentenza a carico del magistrato o del funzionario o dell’ufficiale o del sottufficiale che gli ha passato la notizia”.
Eppure non tutti i giornalisti sono contrari alla legge. Secondo Paolo Gambescia, già direttore del “Messaggero” e oggi deputato, “non si tratta affatto di una legge liberticida ma di una legge civile”. E’ possibile, ha domandato, che l’indagato debba avere conoscenza delle prove che lo riguardano dalla lettura dei giornali?
Anche il sottosegretario alla Giustizia Li Gotti – che il moderatore Roberto Martinelli ha presentato come “il padre della legge” – ha denunciato una scarsa conoscenza della nuova normativa, la quale secondo lui innoverebbe pochissimo rispetto a quella in vigore. Fino dalla riforma del codice di procedura penale del 1989 – ha detto – il divieto di pubblicazione è attribuito alla necessità che il giudice delle indagini preliminari apprenda il contenuto delle prove solo ed esclusivamente dalle parti in giudizio. E non prima, dalla lettura dei giornali. E’ in gioco la sua “terzietà”.
“Ma l’intercettazione è una prova come un’altra – ha osservato subito dopo il professor Franco Coppi – Un testimone non ha l’obbligo del segreto. Perché l’intercettazione dovrebbe essere trattata diversamente dalle dichiarazioni di un testimone alla stampa?” Diverso, ha proseguito l’avvocato Coppi (difensore, lo ricordiamo, delle persone implicate nei presunti episodi di pedofilia di Rignano Flaminio) è il caso di intercettazioni che non riguardano il processo e che non dovrebbero neppure essere messe agli atti.
“Le intercettazioni telefoniche non sono prove come le altre – ha obbiettato l’onorevole avvocato Gaetano Pecorella – appunto perché sono reti in cui entrano pesci che non hanno niente a che fare con l’oggetto del procedimento”. Che ci sia stato a volte un uso disinvolto delle intercettazioni hanno ammesso anche Bodo dell’agenzia ANSA e prima di lui il segretario dell’Ordine nazionale Roidi, il quale ha tuttavia ricordato l’indifferenza della politica e delle istituzioni alle tante proposte di riforma dell’ordinamento professionale dei giornalisti anche in tema di deontologia.
Proprio a questo riguardo vorrei aggiungere alla cronaca una mia riflessione. Di questa annunciata sciagura che pone un limite pericoloso alla libertà di stampa e soprattutto al diritto dei cittadini di avere un’informazione completa e imparziale, saranno in molti ad avere la responsabilità. In primo luogo i parlamentari e i politici che l’hanno proposta e approvata, quelli in mala fede, alla continua ricerca di alibi per sfuggire al controllo dell’opinione pubblica, e quelli in buona fede, che hanno creduto di trovare un (pur necessario) rimedio alle violazioni della privacy e al disinvolto coinvolgimento di fatti e persone che non hanno interesse pubblico. Senza accorgersi che in questo caso la toppa era peggiore del buco.
Ma proprio perché si tratta di una sciagura annunciata, parte della responsabilità – se e quando la legge Mastella sarà definitivamente approvata – andrà attribuita a noi giornalisti, sia a quelli “distratti” che hanno sempre considerato l’etica professionale un “optional” poco remunerativo, sia a quelli che avrebbero dovuto denunciarli, fermarli e adeguatamente sanzionarli. Sempre e non solo occasionalmente. Per dovere nei confronti del pubblico, per tutelare l’interesse di tutti all’autoregolamentazione e per non offrire alibi all’ipocrisia di chi non la vuole e si rifiuta di cambiare una legge professionale antiquata. Nei rapporti interni alla nostra categoria è spesso più facile trovare omertà che solidarietà. Anche per questo l’autoregolamentazione non ha funzionato.
“La verità è che soffia un vento illiberale non solo in Italia, ma anche in altri paesi d’Europa”, ha detto, concludendo il convegno, il presidente della FNSI Siddi. E il Presidente del Sindacato Cronisti Columba ha annunciato la necessità e l’urgenza di una forte mobilitazione della categoria in coincidenza con il dibattito decisivo al Senato. Il Presidente Marini li riceverà il 24 maggio.
ELEZIONI FRANCESI E PD
di Francesco Grillo
Sarkozy e le note della marsigliese intonate a Place de la Concorde; il sorriso meraviglioso, la determinazione di Ségolène nel dibattito televisivo come momento più bello della campagna elettorale; ma prima di loro la Merkele, Zapatero, Blair (anche se ad un passo dall’addio). Non c’è più ormai un solo Paese europeo che non abbia profondamente rinnovato la propria classe dirigente politica. Ed il fantasma del cambiamento, di una modernizzazione che supera le categorie della Sinistra e della Destra si aggira potente per l’Europa.
Con una eccezione però. Quella del Paese più bello del mondo che si ritrova come prigioniero di un incantesimo. Come nella “Bella addormentata nel Bosco”, dove non solo la principessa ma l’intero villaggio si è come pietrificato e dopo dieci anni tutte le persone e i personaggi sembrano essere rimasti uguali a se stessi. Immobili nello stesso posto, intenti nella stessa azione. Persino le rughe nel paese addormentato sembrano meno feroci che altrove.
Ma qualcosa sa cambiando. C’è il rischio che sia la solita trovata pubblicitaria che dura lo spazio di un paio di mesi. O forse per sopravvivenza e disperazione, il villaggio si sta veramente rassegnando all’idea che per svegliarsi non può aspettare un principe azzurro che all’orizzonte non si riesce proprio a vedere.
La nascita del Partito Democratico (o dovremmo forse dire la cerimonia di chiusura dei Partiti dei Democratici di Sinistra e della Margherita) è stata, finora, l’evento politico meglio riuscito dell’anno. E non solo dal punto di vista della comunicazione.
In particolar modo il congresso dei Democratici di Sinistra segna un abbandono vero. Il distacco da una tradizione, da una consuetudine organizzativa e da un gruppo di valori che non poteva non essere difficile e che è stato visibilmente vissuto con sofferenza sincera.
Hanno rinunciato sia i DS che la Margherita a punti di riferimento che ne hanno definito –anche se sotto nomi che sono cambiati numerose volte – l’identità per decenni. È un rischio vero quello che entrambi i gruppi dirigenti hanno deciso di correre. Una innovazione autentica anche se i suoi contorni devono ancora essere definiti.
Si capiscono i motivi della svolta: la totale crisi della politica, la domanda di chiarezza e di novità da parte degli elettori. Del tutto incerti però sono – come è stato notato – gli approdi e le rotte della nave che ha preso il largo.
E tuttavia, proprio per questi motivi, sono convinto che la nascita del Partito Democratico apra una opportunità importante. Bisognerà, infatti, definirne gli obiettivi, le agende, probabilmente i valori. Forse persino una ideologia, o perlomeno, una visione del mondo che accomuni quella parte della società che in questo partito si riconoscono.
Di fronte a questa sfida non basterà fondere le due visioni, quella di derivazione cattolica e quella socialista, marxista. E ciò perché quelle due visioni fondibili, riducibili l’una all’altra non sono. Teoricamente, allora, quattro appaiono le possibilità: far prevalere l’agenda di sinistra ma così si perderebbe nel tempo l’elettorato moderato andando dritti verso il fallimento del viaggio; far vincere quella moderata e però in questa maniera si otterrebbe il risultato opposto e lo stesso esito finale; far finta che siano sufficienti ipotesi programmatiche come quella proposta dall’Unione alle ultime elezioni, dimenticandosi però che quella appunto era la piattaforma programmatica di una coalizione e non il manifesto di un partito che necessariamente deve poter contare su un senso di appartenenza di livello molto più alto; infine, riconoscere l’inadeguatezza delle famiglie politiche, delle categorie del passato e cominciare ad elaborare una interpretazione del mondo, a costruire strumenti di governo del tutto nuovi. Partendo dall’ammissione che sia davvero una discontinuità (tecnologica, economica) radicale quella che la politica del futuro deve capire e affrontare.
Mai come in questo caso sembrerebbero coincidere le necessità del consenso, della sopravvivenza di un certo sistema di potere, con le ragioni della riflessione strategica finalizzata a proporre soluzioni a problemi complessi. E ciò apre opportunità per iniziative indipendenti, coraggiose, serie come Vision. Se un pezzo così rilevante della politica italiana decide di lasciare il proprio porto per avventurarsi in un percorso mai tentato prima, significa che al cambiamento non c’è più quasi davvero alternativa.
DONNE IN EUROPA
di LAURA TUSSI
Riconoscere la soggettività della donna corrisponde a riconoscere anche la differenza: la pari dignità non viene stabilita sulla base di una omogeneizzazione dei due sessi, ma sulla identificazione della differenza come valore. Non per elogio del pensiero della differenza sessuale (che è comunque un momento alto della partecipazione femminile all’elaborazione culturale), ma sottolineare ancora una volta che la rilevazione della differenza sessuale come positività attribuisce diritto di cittadinanza culturale a tutte le altre differenze (etnica, culturale appunto, ma anche di età, di salute, di stato sociale ecc.). Ciò sembra importante soprattutto in un momento in cui le differenze etniche-culturali stanno spaccando nazioni, anche da lungo tempo costruite sull’unione di etnie diverse, in tanti piccoli satelliti.
Rimane certamente un problema quello delle varie forme di discriminazione e di violenza sulle donne e sulle bambine. Una questione grave è il precariato sul lavoro, il cosiddetto mobbing e la precedenza data al licenziamento, o alla messa in cassa integrazione, delle donne nelle situazioni di chiusura totale o di de-localizzazione delle aziende. Legati al fenomeno dell’immigrazione ci sono i problemi dello sfruttamento e del traffico di donne. Di crescente rilievo sociale, giuridico e morale è la piaga culturale che riguarda quelle donne immigrate le quali, lavorando in particolare quali badanti o infermiere nelle nostre case e nei nostri ospedali, fanno partecipi le nostre famiglie dello stato di disagio in cui si trovano le loro stesse famiglie rimaste nei paesi di provenienza: prive di madri, figlie, sorelle… La sfida del ricongiungimento del nucleo familiare ci coinvolge nel nostro più intimo vissuto quotidiano.
Partire dai diritti umani delle donne e delle bambine porta a considerare con mente nuova la pratica della socialità, della politica, dell’economia, dell’educare e del formare per un avvenire globale completo. Alla fine non può non scattare una più avvertita consapevolezza del valore della centralità della famiglia, del rilievo e della irrinunciabilità degli essenziali servizi sociali, della necessità di politiche pubbliche sostanziate di adeguate risorse.
E’ stato grande l’apporto femminile nella crescita globale dell’attenzione e responsabilizzazione verso i soggetti più deboli (bambini, anziani, handicappati) che, essendo un tempo gestiti individualmente dalle donne nell’ambito familiare, poi non venivano presi in responsabilità dal sistema sociale. Altrettanto grande è stato il contributo femminile alla sensibilizzazione verso le tematiche ecologiche, alla tutela e preservazione dell’ambiente, legata anche all’antica consuetudine, come donne, della gestione del quotidiano. Al femminile è la presa di coscienza dei grandi temi della pace, del ripudio della guerra, delle denunce alla violazione dei diritti umani in ogni realtà. Non vi è dubbio che per portare avanti un impegno in prima istanza individuale, una presa di coscienza, e poi collettiva, le donne devono innanzitutto conoscere e riconoscere se stesse per poter chiedere all’alterità un corrispondente riconoscimento. In questo senso le donne devono compiere ancora lunghi percorsi di emancipazione. In alcuni casi debbono creare e ricreare immagini di sé che non hanno avuto, non limitandosi ad un inventario dell’esistente, della realtà di fatto, del contingente.
Le culture si sono sviluppate sui tentativi successivi degli umani di superare le diversità, di colmare lo scarto, di rendere realizzabile l’utopico. La rivelazione della differenza sessuale come positività, attribuisce diritto di cittadinanza culturale a tutte le altre differenze, etniche, culturali, ma anche di età, intergenerazionali, di salute, di stato sociale. Questo è importante soprattutto in un momento in cui le differenze etnico-culturali sgretolano nazioni, anche da lungo tempo costruite sull’unione di etnie diverse, in tanti piccoli satelliti. La differenza di sesso è forse attualmente quella che subisce i maggiori attacchi. Anche le scienze dimostrano che riconoscersi in un sesso è un processo culturale oltre che fisiologico e psichico. Le elaborazioni del neofemminismo hanno dimostrato che la partecipazione delle donne ai processi culturali è stata di notevole spessore, anche se sotterranea, tacita, priva di protagonismi, quasi ignorata dalle donne stesse.
Proprio nella quotidianità e non nelle orchestrazioni metafisiche si gioca il senso più rilevante della nostra esistenza, anche come donne. In questo senso Hannah Arendt scriveva con evidente lucidità: “E’ vano cercare un senso nella politica o un significato nella storia quando tutto ciò che non sia comportamento quotidiano o tendenza automatica è stato scartato come irrilevante”.
Abbiamo come donne forza, tenacia, creatività, capacità di resistenza anche in situazioni di tensione. Abbiamo anche una certa “innocenza” che deriva dal fatto di essere state lontane dai luoghi di potere.
Abbiamo dimestichezza con le origini della vita e della morte: “sappiamo” per retaggio atavico. Eros e Tanatos trovano ricomposizione nella nostra stessa esistenza.
Dobbiamo innanzitutto riuscire ad utilizzare le forze positive che si liberano nell’inevitabile conflitto tra i “diversi”, per sesso, per età, per cultura, come stimoli a cambiare, a crescere, neutralizzando la parte negativa del conflitto che si esprime in prevaricazione, ricerca di possesso dell’altro, tentativo di omologazione dell’altrui diversità ad un modello costruito a nostra immagine e somiglianza o per nostro tornaconto.
Il conflitto sessuale non è a se stante, ma partecipa di una conflittualità che permea tutto il reale, perché è un atto creazionale, proiettato nell’avvenire.
UN PARTITO DEL FUTURO
di Andrea Scopetti
Spesso ci si chiede da dove nasca il Partito Democratico, quali sono le sue origine, quali le sue basi ideali culturali e storiche.
Nonostante sia convinto che il P.D. debba essere essenzialmente un soggetto nuovo che guarda al futuro con basi nel presente più che nel passato, ritengo che guardarsi indietro costituisca la “conditio sine qua non” per meglio capire la storia degli ultimi decenni e rendersi conto che la situazione attuale rappresenta il passaggio cruciale di un percorso con origini molto più lontane di quelle che comunemente si ritiene.
I cambiamenti di questo paese non hanno certo inizio negli anni duemila o negli anni novanta, non c’è dubbio che la fine degli anni ‘60 e gli inizi degli anni ‘70 hanno rappresentato per l’Italia un punto di svolta che ancora oggi necessita di studi e approfondimenti.
Sono anni caratterizzati da grandi movimenti di protesta e di lotte per ideali e diritti, da grandi conquiste civili: il referendum sul divorzio e più tardi l’approvazione della legge 194 (sull’interruzione della gravidanza) rappresentano ancora oggi uno dei momenti più alti della crescita sociale e politica del nostro paese.
Non c’è dubbio, però, che la forza che si portava dietro la generazione di quel periodo non riuscì a produrre le innovazioni sperate e con gli anni, purtroppo, andò spegnendosi subendo anche forti strumentalizzazioni.
Gli anni fine ‘70- inizi ‘80 rappresentano bene questa situazione: la stagione del terrorismo e l’inizio dei grandi cambiamenti politici.
La reazione dello Stato permette di vincere la guerra al terrorismo ma la politica non riesce a captare la spinta del cambiamento, con la conseguenza di un rafforzamento interno dell’apparato, ma soprattutto, con la costruzione di un sistema che alla fine supererà il lecito consentito.
Anche in questi anni, però, il paese riesce a dare l’ennesima prova di vitalità, esempio su tutti la bocciatura del referendum che chiedeva l’abolizione della legge 194, a riprova che quando i cittadini vengono chiamati a difendere e conquistarsi diritti di libertà e di democrazia la risposta che giunge è sempre molto attiva e partecipata.
La fine anni ‘80 e inizi ‘90 sono caratterizzati dal crollo del sistema su cui si basava il paese e dall’azzeramento di un’intera classe dirigente e di un intera struttura politica e partitica.
Da lì inizia la costruzione, ancora in atto e caratterizzata da mille incertezze, difetti e debolezze, di un nuovo sistema burocratico, democratico, politico e partitico.
Sono gli anni che vedono la crescita di una nuova coscienza civile che lotta per nuovi diritti: per la pace, per la difesa dell’ambiente, contro la fame nel mondo, contro le nuove forme di discriminazione e di intolleranza,.
Un movimento che vede insieme diverse generazioni, un fenomeno planetario forse più vasto di quello del ‘68.
La scommessa a cui siamo chiamati a lavorare oggi è quella di non perdere la forza innovatrice di questo movimento ma costruire, su questo, un sistema, politico e partitico, che sappia valorizzarlo offrendo soluzioni adeguate.
La transizione, di cui tanto si parla nel nostro paese, ha quindi tempi molto più lunghi di quelli che spesso si vuole far credere, è ormai qualche decennio che la politica è chiamata a dare risposte che non riesce dare.
Con tutto questo non intendo certo dire che le radici del P.D. possano trovarsi nel movimento del ‘68 o negli avvenimenti degli anni ‘70 e ‘80; probabilmente è sbagliato anche ricercarle nelle vicende seguite a tangentopoli e nei percorsi politici intrapresi successivamente.
La situazione del 1994, quando nacque il bipolarismo, è diversa rispetto a quella che ci troviamo ad affrontare oggi, così come la situazione mondiale, con cui dobbiamo fare i conti anche dopo il 2001, è profondamente cambiata.
Quello che penso è che il Partito Democratico che nasce oggi deve avere la forza del movimento del ‘68, deve valorizzare l’energia che questo paese ha profuso per la conquista di tanti importanti diritti, deve ricordarsi delle risposte che riuscì a dare negli anni ‘70 e ‘80 senza dimenticarsi di tutte quelle che non riuscì a dare, deve tenere sempre ben presente i gravi errori commessi tra la fine degli anni ‘80 e inizi ‘90.
Un Partito di giovani e di donne che, fondandosi sulla forza del grande movimento civile del nostro millennio, riesca a raccontare e far convivere l’esperienze di tutte le generazioni che hanno contribuito a fare la storia degli ultimi 40 anni.
Il Partito del confronto e dell’integrazione, il partito della partecipazione, il partito della democrazia attiva, il partito DEMOCRATICO.
Credo che questi siano concetti che possano rappresentare la base per formulare quelle risposte e quelle proposte innovative, riformiste e di sinistra che oggi in tanti attendono.
Oggi è necessario un partito che dia rappresentanza a tutti quelli che intendono contribuire a costruire una sinistra nuova che non sia impegnata soltanto a fare i conti con la propria storia ma, soprattutto, riesca a fare i conti con una nuova realtà, nuove difficoltà sociali, nuovi problemi globali, nuovi scenari mondiali.
Se riusciremo a fare tutto questo, tra qualche tempo, fugheremo ogni dubbio su derive moderate, progetti calati dall’alto, finte partecipazioni, scarsa rappresentanza democratica.
Riusciremo a far capire l’importanza di parlare una linguaggio nuovo che fugga da schematismi ormai vecchi e obsoleti.
Se tutto questo non riusciremo a fare saremo di nuovo costretti a raccontare, tra qualche tempo, dell’ennesima occasione persa e del fallimento a cui il nostro paese è andato incontro.
Nonostante la situazione non sia semplice e l’inizio di questo percorso non sia stato dei migliori, siamo in tanti a credere ancora nel successo dell’operazione e per questo non ci stancheremo di lavorare e di lottare.
Orvieto, 12 maggio 2007
PER LA COSTITUENTE DEL PD
“Comunicato sulla Road mad del PD fino ad Ottobre 2007”
Siamo a un passaggio fondamentale di una impresa politica di portata storica.
E’ una impresa alla quale lavoriamo da ormai dodici anni, che diventa partito nel segno e nel solco dell’esperienza dell’Ulivo.
Abbiamo deciso di dare vita al Partito Democratico per unire le culture e le tradizioni riformiste del nostro paese – socialista, cattolica, liberale e ambientalista – e dare così all’Italia una grande forza politica che vuole migliorare il paese, promuovendone lo sviluppo economico e la giustizia sociale, nel segno della democrazia piena, rispondendo alla domanda di partecipazione dei cittadini.
Abbiamo iniziato a ragionare operativamente su questo progetto dopo la vittoria elettorale dello scorso anno, vittoria preceduta dalla straordinaria esperienza delle primarie del 16 ottobre 2005, modello di rapporto virtuoso tra la militanza attiva di partito e la apertura ai cittadini.
Abbiamo tenuto a Orvieto un seminario sulle ragioni storiche del Partito Democratico, sul suo profilo programmatico e sulla forma p artito. Abbiamo incaricato un gruppo di saggi di redigere un Manifesto che sia punto di riferimento ideale del confronto nella fase costituente del partito. Abbiamo deciso che si tenessero congressi sincronizzati di ds e margherita, i due partiti promotori della nostra comune impresa.
Ora i congressi sono alle nostre spalle e la decisione è stata presa. E’ stata una decisione non facile, ma partecipata e convinta. I congressi si sono conclusi con l’approvazione di un documento comune che impegna i due partiti promotori e l’Ulivo a promuovere il partito nuovo e unitario capace di coinvolgere le espressioni migliori delle culture democratiche e riformiste, fondato sulla partecipazione e sulla adesione personale e diretta dei cittadini.
Il documento approvato dai due congressi apre la fase costituente del partito democratico.
Noi dobbiamo ora dare attuazione a quello impegno, stabilendo le modalità operative di quello che a grandi linee è previsto dal dispositivo congressuale.
Nel dispositivo è previsto che entro ottobre 2007 venga eletta l’assemblea costituente del PD e che fino all’elezione dell’assemblea costituente “tutte le attività connesse alla costruzione del Partito Democratico saranno affidate a un comitato di coordinamento composto da esponenti DS, DL e personalità non aderenti ai partiti promotori”.
L’elezione dell’Assemblea costituente sarà un passaggio fondamentale: dobbiamo fare sì che questo appuntamento sia preparato in modo approfondito e che sia assicurata una larghissima partecipazione di popolo dando la possibilità a tutti i cittadini che lo desiderano di dichiararsi aderenti del nascente partito democratico all’atto dell’elezione dei delegati all’assemblea, secondo il principio una testa un voto. Al successo di questo momento fondante siamo tutti legati e a questo successo dovremo dedicare i nostri sforzi e le nostre energie.
Penso che la data migliore per l’elezione della costituente sia metà ottobre, il 14 ottobre: se avessimo potuto farlo prima meglio. Ma non possiamo riuscirci prima perché abbiamo bisogno di un tempo sufficiente per preparare una impresa tanto grandiosa.
A chi affidare la direzione politica ed operativa della fase che è già cominciata e che precede l’elezione dell’assemblea?
Credo che abbiamo bisogno di un organismo sufficientemente largo per essere rappresentativo delle personalità e d elle sensibilità che ci sono tra noi, ma anche sufficientemente ristretto ed agile perché possa riunirsi e funzionare come strumento di direzione di questa fase. Questo Comitato può essere composto da una trentina di persone, con non meno di un terzo di donne e secondo queste proporzioni: una decina di personalità ds, una decina della margherita – che verranno indicate dai rispettivi partiti – e una decina di personalità non iscritte a questi partiti che mi farò carico di proporre (designare) personalmente. Potremo chiamare questo organismo: ”Comitato promotore nazionale della costituente del Partito Democratico”.
Questo Comitato sarà insediato entro una decina di giorni e dovrà essere in grado di riunirsi con una frequenza quindicinale. Il compito di istruire i lavori del comitato e di assicurare l’attuazione delle decisioni dello stesso po trebbe essere affidato a tre “Coordinatori”, quelli che hanno già dato buona prova nella fase precedente.
I compiti del Comitato nazionale saranno fondamentalmente i seguenti:
– promuovere iniziative di presentazione del progetto del Partito Democratico
– approvare i regolamenti e le procedure elettorali, insediando gli opportuni organi tecnici e di garanzia: la proposta di regolamento elettorale sarà posta all’esame del coordinamento entro la fine di giugno e i tre coordinatori, che si avvarranno di esperti, istruiranno una proposta per quella data
– promuovere nel Paese un confronto di idee e di proposte che, assumendo il Manifesto come orizzonte ideale e punto di riferimento, confluiranno nella assemblea costituente
– favorire e riconoscere comitati promotori provinciali che avviino la fase costituente nei territori con l’obiettivo di aprire le porte alla partecipazione dei cittadini e svolgano anche funzioni di garanzia verso tutti coloro che intendono partecipare attivamente al processo.
– promuovere forum tematici, a partire da un forum delle donne, sul modello di quelli già avviati per l’ambiente, la famiglia, il lavoro e i governi locali.
La condizione perché questa nostra impresa abbia successo è che l’elezione dell’assemblea costituente veda una partecipazione larghissima.
L’assemblea così eletta avrà una grandissima legittimazione e potrà, attraverso i propri organismi, svolgere due compiti fondamentali:
– Approvare il Manifesto programmatico
– Adottare lo statuto
C’è molto da fare.
Per avviare la fase costituente dovremo dare vita, in SS Apostoli, e lo faremo subito, ad una struttura operativa, diretta dai Coordinatori, e che abbia (svolga in modo appropriato le necessarie) funzioni politiche, operative e comunicative e che disponga anche delle adeguate risorse finanziarie.
Il Partito Democratico vive già da tempo nel segno dell’Ulivo tra i nostri elettori.
Ora è il momento di farlo vivere come soggetto politico vero e proprio preparando la nascita di un partito nuovo e unitario.
PARTITO DEMOCRATICO: E LE DONNE??
P.D. = Partito democratico
P.N.D. = Partito non democratico
di Rosanna Oliva
Dal mattino si vede… il cattivo giorno: il comitato incaricato di preparare l’elezione dell’Assemblea costituente, coordinato da tre uomini, sarà composto, contrariamente a quanto proposto da Prodi (50 e 50) e in violazione dei principi del Manifesto,(40a 60) con una presenza di donne al 30 per cento.
Viene meno ogni dimostrazione di volontà di rinnovamento e di lavorare per una democrazia paritaria.
Preso atto di quanto sopra, proponiamo che sia eliminata la norma di garanzia dal Manifesto e che sia modificato il nome del futuro partito in PND= Partito non democratico.
Sul mancato rispetto di quanto annunciato da Prodi il 3 maggio all’inaugurazione dell’Anno Europeo per le Pari Opportunità, due ipotesi altrettanto inquietanti: un gioco delle parti oppure un leader che non ha voce in capitolo rispetto ad un gruppo composto prevalentemente di uomini che dimostrano di non tenere nessun conto anche di quanto si decide in Europa.
Aspettiamo di vedere le scelte che saranno operate da questo Comitato sul sistema per eleggere l’Assemblea costituente e purtroppo quanto avvenuto oggi allontana la speranza che si possa accogliere il suggerimento avanzato da più parti di prevedere primarie per la scelta dei candidati e delle candidate da presentare in collegi binominali, il che assicurerebbe un’Assemblea composta al cinquanta e cinquanta.
La telenovela continua….
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GOOD BYE TONY
di Marco Giordano
E’ finita l’epoca di Tony Blair. Chiunque si riconosca, in un modo o nell’altro, in una cultura di tipo riformista non può che nutrire una gratitudine e un’ammirazione immensa per quest’uomo che, insieme ad altri (e penso innanzitutto a Gordon Brown e Anthony Giddens), ha traghettato il Labour verso l’era globale, illustrando al mondo intero quali sono le nuove frontiere ed i nuovi orizzonti della sinistra mondiale.
Cosa significhi, oggi, equità e giustizia sociale ce l’hanno insegnato Tony e i suoi boys: uguaglianza di opportunità, garantire a tutti, ad un tempo, basi di partenza e strumenti culturali, sociali e formativi omogenei, ed allo stesso modo la certezza che i destini professionali ed economici siano determinati in base al merito, l’applicazione, la passione delle persone.
Per primo, dunque, il leader inglese ha riunificato nella cultura progressista i due principali termini della rivoluzione francese, uguaglianza e libertà, riconoscendo a quest’ultima la doverosa primazia: soltanto nella libertà vi è uguaglianza, aborrendo quell’odioso egualitarismo al ribasso che ancora, ahinoi, informa gran parte del bagaglio ideologico dei partiti socialisti e dei sindacati continentali, per i quali vi è giustizia sociale soltanto nell’appiattimento sic et simpliciter degli standard retributivi (economici e non) delle varie categorie umane.
Non a caso il new Labour è stata l’unica formazione progressista a vincere, e ripetutamente, in Europa (do you understand PSF e DS?), perchè è stata l’unica a recepire e interpretare le istanze progressiste effettive nelle società moderne: il riconoscimento e la valorizzazione del merito.
Senza Blair e il New Labour oggi non esisterebbe il progetto del PD, Segolene Royal e il suo tentativo di rinnovamento di quei quattro babbioni del PSF e il socialismo liberale, libertario e ciudadano di Josè Luis Rodriguez Zapatero e il suo Nuevo Psoe (guarda caso l’unica altra formazione progressista che vince oggi in Europa).
Peccato che non proprio tutti abbiano appreso a pieno la lezione.
Come in ogni classe, anche in quella del riformismo europeo c’è qualche elemento che rimane un po’ indietro rispetto agli insegnanti e ai compagni più brillanti.
Tipo gli amici dell’Unità, che invece di tributare un doveroso omaggio al leader laburista, sulla prima pagina del loro fogliastro titolano: “Blair se ne va e lascia in eredità il disastro dell’Iraq”.
Come se la parentesi più significativa dei 10 anni di governo blairiano fosse l’Iraq.
SERVONO LE REGOLE – GREGORIO GITTI
Da “Il Corriere della Sera” del 9 maggio 2007
“Servono le regole”
di Gregorio Gitti (presidente APD)
La confusione politica sul processo costituente del partito democratico alimenta incertezze nel pubblico degli appassionati al progetto, finché durano, e malcelata tensione tra gli aspiranti leader. Il rincorrersi di dichiarazioni polemiche e non sorvegliate sovverte spesso la logica degli assunti e delle conseguenze. Emergono autocandidature alla guida di un partito che ancora non c’è, si sovrappongono o invece si contrappongono formule comunque tautologiche come “assemblea costituente” o “congresso fondativo” senza chiarirne la sostanza, mentre si finge di litigare sulla relativa data di celebrazione.
Proviamo a mettere in ordine qualche concetto, formulando una proposta precisa. Per costituire un partito nuovo occorre disporre di uno statuto, ossia dell’insieme delle regole che ne disciplinano la vita e i rapporti tra i soci, e soprattutto di un progr amma. Evocare subito un congresso fondativo senza aver ampiamente condiviso questi strumenti fondamentali significa concepire in modo autoreferenziale la costituzione del partito: un gruppo ristrettissimo di maggiorenti cala dall’alto una proposta, imponendola ai singoli aspiranti soci, di questo passo, vien da pensare, sempre meno appassionati. Non è dunque strano che chi, all’interno dei vecchi partiti, nei mesi scorsi frenava oggi vuole correre.
Viceversa mi sembra necessario scolpire i passaggi che debbono condurre all’obiettivo, da tutti formalmente auspicato, di una ampia discussione e condivisione dello statuto e del programma del futuro partito. Raggruppamenti di cittadini dovrebbero competere sulla base di differenziate proposte politiche sia organizzative sia programmatiche nel comune alveo ideale disegnato dal manifesto dei saggi del febbraio scorso. Questo c onfronto competitivo dovrebbe poi sfociare nell’elezione, a metà del prossimo ottobre come si dice, di un’assemblea che approverebbe in modo definitivo lo schema statutario e il programma in modo da garantire democraticamente la successiva costituzione formale del nuovo partito. Solo dopo quindi e secondo le regole condivise si potrebbero eleggere i suoi organi dirigenti. Esattamente il contrario di ciò che vogliono e affermano i maggiorenti dei vecchi partiti.
Il problema più cospicuo al momento è comunque rappresentato dal sistema di elezione di questa assemblea. Sarebbe bene assicurarle la più ampia rappresentatività e perciò la rappresentanza di tutti i diversi raggruppamenti di cittadini secondo un metodo proporzionale. Le madri e i padri democratici, per esempio in numero complessivo di 1500, dovrebbero essere eletti in numerose circoscrizioni, quindi in ambiti territorialmente ristretti, in modo da garantire il diretto raccordo con i cittadini elettori, sulla base di liste concorrenti composta ciascuna al massimo da tre candidati, evitando in tal modo il mercato, spesso addomesticato, delle preferenze. Nel contempo si dovrebbe garantire la democraticità della compilazione della lista: a tal fine un’assemblea pubblica dei promotori delle liste concorrenti nella singola circoscrizione potrebbe scegliere i potenziali candidati, votandoli in una elezione primaria e in tal modo fissandone anche l’ordine di presentazione. Bisognerebbe infine assicurare un fondo di garanzia per tutti i raggruppamenti al fine di riconoscere risorse o servizi perequativi a tutti i candidati, ma su questo punto cedo volentieri la parola ai tesorieri dei vecchi partiti, notoriamente gelosi del loro ruolo e di ciò che ne consegue.
L’EUROPA E LA FRANCIA
Monsieur Sarkozy e le ricette per la sfida europea
di Tommaso Visone
Con la vittoria di Sarkozy alle presidenziali francesi si annuncia una ripresa dell’iniziativa della Francia in sede europea. Se i problemi sul tavolo dell’ Unione restano sempre gli stessi- l’impasse dovuta alla mancata ratifica del trattato del 2004- le soluzioni di certo non appaiono innovative. La proposta del neoeletto Président, volta a creare un tavolo per giungere ad un compromesso su un “nuovo” Trattato europeo (a detta del proponente la semplificazione del vecchio), ha il triste e ben noto sapore del compromesso a ribasso per tutti coloro che speravano in un rinnovato impegno d’oltralpe sul testo dell’attuale Trattato, già ratificato da ben diciotto stati. Tuttavia, un compromesso a ribasso risulta maggiormente digeribile se confrontato con il persistere dell’attuale stasi sul fronte delle riforme istituzionale dell’Unione. Detto questo, occorre fare alcune osservazioni.
Primo, se si lavorerà per una versione semplificata del “Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa” si dovrà tener conto del fatto che esso a sua volta semplifica ed integra le molteplici componenti dell’acquis comunitario, il che rende consapevoli della difficoltà concernente lo stendere in modo egualmente esaustivo un Trattato ulteriormente semplificato che, per forza di cose, dovrebbe quindi escludere alcuni ambiti od alcune conquiste del precedente testo.
Secondo, semplificare il precedente accordo significa, non di meno, riproporne, in forma più accessibile e en bref, le principali acquisizioni; altrimenti si tratterebbe non di una semplificazione bensì di uno stravolgimento. Queste ultime sono: la creazione della carica di Ministro degli affari esteri dell’Unione; l’elezione a maggioranza qualificata del Presidente del Consiglio europeo; la riduzione del numero dei commissari a partire dal 2014; l’abolizione dei pilastri istituiti col Trattato di Maastricht; il riordino delle competenze tra Stati ed Unione; la semplificazione degli strumenti e delle procedure dell’Unione stessa, la possibilità d’iniziativa popolare (art.I-47) per invitare la Commissione ad elaborare una proposta; le basi per una politica comune di difesa.
Sarà in grado Sarkozy di far entrare dalla finestra della conferenza intergovernativa quelle innovazioni che i francesi avevano rifiutato dalla porta referendaria? E soprattutto riuscirà la conferenza intergovernativa a mantenere le fondamentali innovazioni previste nel testo del 2004? Non si può far a meno di concordare con G.Napolitano sul fatto che “aprire un nuovo negoziato può significare aprire un vaso di Pandora, correre il rischio di ripartire da zero, avviare un confronto dai risultati e dai tempi imprevedibili”.
Il rischio che si profila all’orizzonte è il rallentamento esiziale del processo di integrazione politica europeo il quale comporterebbe (come già sta comportando) una perdita d’influenza mondiale per tutto il continente, legata ad un indebolimento costante delle singole influenze nazionali europee (causato dalla loro “piccolezza” geopolitica) sullo scacchiere globale. La campagna francese è stata condotta da entrambi i candidati all’insegna del rêve francese, un sogno che si può ancora esprimere attraverso il motto rivoluzionario liberté, egalité, fraternité. Ma si badi, senza un implementazione dell’integrazione politica europea, quei tre valori sono destinati a restare sulla carta. La Francia deve capire che non ha un futuro di potenza ed influenza al di fuori dell’Europa e deve inoltre riflettere sul fatto che i passati tentativi intergovernativi (es. De Gaulle), volti a rendere l’Europa una potenza “strumento” della Francia stessa, hanno incontrato la ferma opposizione dei paesi più piccoli dell’Unione (all’epoca della Comunità) in quanto non vi è garanzia per gli Stati più piccoli al di fuori di istituzioni comuni (ed inclusive) nei confronti di tutti i membri, piccoli e grandi. Quindi, se non vi è chance per un Europa intergovernativa o per una Francia solista, a quel grande rêve condiviso da tutti i francesi resta aperta solo la strada sovranazionale. Infondo, per Sarkozy vale oggi la stessa indicazione che Spinelli fantasticava di inviare a De Gaulle. “Potete voi dubitare un solo istante del posto che spetta alla vostra nazione, alla sua civiltà, alla sua lingua, a voi stesso, per l’avvio di questa impresa? Non credete che dando la Francia all’Europa voi darete, in realtà, l’Europa alla Francia?”
LE RIFORME DI PADOA SCHIOPPA
da Repubblica
“I sindacati lo devono capire. La riforma delle pensioni va fatta, è un’occasione da non perdere”. A poche ore dall’apertura del tavolo sul Welfare, Tommaso Padoa-Schioppa in un’intervista a Repubblica lancia il suo appello a Cgil, Cisl e Uil: “Capisco le loro difficoltà. Ma stavolta anche a Epifani, Bonanni e Angeletti chiedo di essere ambiziosi e coraggiosi, e di vincere la battaglia in casa loro, invece che di portarla sempre in casa d’altri”.
Il ministro del Tesoro è fiducioso. Ma alla sinistra sindacale dice: “Il negoziato non può durare in eterno, va chiuso in fretta”. E alla sinistra politica ripete: con il “tesoretto” evitiamo la manovra 2008, se lo sprecassimo oggi “saremmo scellerati”. Il risanamento dei conti è compiuto, la crescita economica supera le previsioni. Il ministro è soddisfatto: “Gradisce un caffè?”, chiede all’intervistatore. È il segnale che le cose, per il Belpaese, vanno meglio davvero. Fino a qualche mese fa, per risparmiare denaro pubblico, nell’ufficio che ospitò Quintino Sella avevano tagliato anche i caffè. Oggi si respira un clima più rilassato. Missione compiuta, in un solo anno? “Non me lo aspettavo, ma ci speravo – risponde – la congiuntura ci ha aiutato, ma la risposta del Paese c’è stata, ed è stata superiore alle aspettative. Le imprese hanno reagito, c’è un clima molto positivo e la lotta all’evasione sta dando buoni risultati. Ma queste risposte non le avremmo avute, se non ci fosse un governo che ispira fiducia”.
Ministro Padoa-Schioppa, non teme la solita, italica “sindrome da appagamento”?
“Questo è un rischio che mi preoccupa. L’anno scorso la prova più difficile era far sì che, dopo la campagna elettorale, ci si rendesse conto che occorreva una grande determinazione per il risanamento. Sembra una banalità, e invece allora non era affatto chiaro. Né per il governo uscente, né per la maggioranza vincente. In poco più di un mese, tra il giuramento del nuovo esecutivo e il Dpef, riuscimmo ad ottenere il pieno consenso della maggioranza. Oggi la sfida è diversa. Superata l’emergenza, l’incognita vera è verificare se nel Paese, nel governo, nella politica e nella società c’è un’ambizione che ci consenta di fare il vero salto di qualità”.
È dura, con una coalizione piena di disfattisti che dicono “il governo non dura quindi spendiamo tutto”, e di trionfalisti che dicono “abbiamo già vinto, quindi spendiamo tutto lo stesso”.
“Non possiamo cadere in questa deriva, accontentandoci di aver rimesso la testa fuori dall’acqua e fermandoci lì. Lo considero un errore esiziale. La grande prova è questa: se abbiamo l’ambizione di fare davvero il salto in avanti, dobbiamo riconoscere che siamo ancora lontani dalla meta, e dobbiamo proporci obiettivi molti più importanti. Se non superiamo la prova, ci ripieghiamo su noi stessi. Non c’è più l’emergenza, c’è la mediocrità. Ma se invece superiamo la prova, allora succede davvero un fatto nuovo per questo Paese. Smettiamo di fare l’eterna rincorsa sui nostri partner internazionali, e cominciamo a fare con loro una vera e propria “gara di testa”. In tutti i campi: la crescita, la competitività, la ricerca e l’università, le infrastrutture, i tavoli di concertazione, lo Stato Sociale. Per riuscirci serve l’impegno di tutti: forze politiche, governo, parti sociali”.
Oggi comincia la trattativa su lavoro e previdenza. Cosa si aspetta da questo tavolo, finora assai improduttivo?
“Mi aspetto risposte all’altezza della sfida che ho appena descritto. Dobbiamo puntare ad un assetto del mercato del lavoro e delle relative tutele in cui si realizzi la piena accettazione della flessibilità, che è un dato ineludibile della tecnologia e del mercato globale, ma anche la fuoriuscita dalla precarietà, che invece è dannosa soprattutto per la generazione con meno di 40 anni. Vincere la sfida dell’eccellenza vuol dire proprio questo: porre il problema dei giovani al centro della questione del lavoro e della previdenza”.
Cosa le fa pensare che il sindacato accetterà l’aumento dell’età pensionabile e la revisione dei coefficienti?
“Non entro nel dettaglio di una trattativa che dobbiamo ancora concludere. Ma ci sono due principi, ai quali non possiamo derogare. Il primo è che vi sono ancora oggi, per molte persone, trattamenti pensionistici insufficienti. Il secondo è che ogni ipotesi di riforma previdenziale deve avvenire nel rigoroso rispetto degli equilibri finanziari del sistema vigente che, piaccia o no, contempla tanto la legge Dini del ’95, tanto la legge Maroni del 2005”.
Vuol dire che bisogna tener conto sia dell’impegno a rivedere i coefficienti, sia dello “scalone”?
“Questo è il quadro delle compatibilità normative. Ogni intervento di modifica deve essere “neutrale” dal punto di vista finanziario. D’altra parte, se lei va a rileggere il memorandum che firmammo con i sindacati nel settembre del 2006, troverà esattamente questi impegni, scritti nero su bianco”.
Ma Cgil, Cisl e Uil già minacciano lo sciopero generale. Come fa ad essere ottimista, con questi chiari di luna?
“Non mi piace il termine “ottimista”. Diciamo che sono fiducioso. Ho fiducia che le forze politiche e le organizzazioni sindacali capiscano che questa è un’occasione da non perdere. La perdemmo già una volta, nella legislatura 1996/2001, e il risultato fu la sconfitta elettorale e poi l’intervento della legge Maroni, compiuto in modo piuttosto rozzo e fortemente conflittuale. Ripetere oggi quella sequenza di errori sarebbe imperdonabile”.
Intanto la scadenza del 31 marzo 2007 è passata invano.
“Ha ragione, io per primo sono dispiaciuto per questo ritardo. Non è detto che i negoziati, anche quelli più difficili, debbano durare così a lungo. Gli accordi di Bretton Woods furono sottoscritti in due settimane e mezzo. La Costituzione americana fu redatta in sei settimane. Onestamente mi sembra che la trattativa sulla previdenza sia un po’ meno complessa. Non può durare in eterno”.
Cosa si sente di dire a Epifani, Bonanni e Angeletti?
“Li incoraggio ad essere, a loro volta, ambiziosi. Anche loro devono vincere sfide, al loro interno, esattamente come stiamo facendo noi. Capisco le tensioni tra le confederazioni, vedo il travaglio che attraversa la Cgil. Ma ognuno di noi deve fare in casa sua un pezzo della battaglia. Non può limitarsi a trasferirla nella casa degli altri”.
In questo momento la battaglia in casa vostra è sul “tesoretto”. Cosa risponde a chi vuole usarlo tutto e subito?
“Capisco che quando si è stati stretti a lungo in una morsa, appena si ha la sensazione che la morsa si allenti, prevalga l’istinto immediato a muoversi. Ma in realtà le divergenze interne al governo su come usare le risorse aggiuntive sono meno aspre di quel che sembra. Ci sono due limiti accettati da tutti. Il primo: nessuno pensa che si possa fare a settembre una manovra correttiva sul 2008, per correggere un uso smodato delle risorse aggiuntive effettuato prima. Il secondo: nessuno pensa che si possa rompere la disciplina imposta dal Patto di stabilità”.
Basta questo a renderla tranquillo? E non c’è forse un braccio di ferro tra voi su come impiegare queste risorse?
“C’è una discussione, che a volte si sviluppa in modo forse un po’ troppo dialettico. Questo è un problema: non vorrei che facessimo come nell’autunno scorso, quando sulla Finanziaria convenimmo tutti i principi di fondo, dall’ordine di grandezza della manovra ai tempi del risanamento concordati con la Ue, ma nonostante questo riuscimmo a dare al Paese la sensazione che tra noi vi fosse un dibattito caotico e inconcludente”.
A quanto ammonta questo “tesoretto”?
“Al momento possiamo contare su un miglioramento strutturale del nostro indebitamento netto pari a 8/10 miliardi di euro in più rispetto alle stime del settembre scorso. Secondo i patti con Bruxelles, siamo tenuti ad un aggiustamento strutturale di mezzo punto di Pil sul 2008. Questo vuol dire che, se vogliamo evitare una manovra correttiva nel prossimo autunno, 7,5 miliardi sono “ipotecati” per quell’obiettivo. Le risorse aggiuntive che restano ammontano a circa 2,5 miliardi di euro”.
E questo è quello che possiamo spendere?
“Direi di sì. La manovra correttiva per il 2008 l’abbiamo già fatta, e sta in quegli 8/10 miliardi di risorse aggiuntive. Saremmo scellerati se la disfacessimo ora, per poi doverla rifare fra tre mesi”.
Non c’è molta benzina nel motore. Come si fa correre l’Italia, in queste condizioni?
“Questo è un punto fondamentale. Il Paese ha bisogno di risorse complessive superiori ai 2,5 miliardi. Per le infrastrutture, per il sostegno ai redditi più bassi, per gli investimenti in ricerca e sviluppo. Trovare queste risorse è possibile e necessario, a condizione di escludere due scorciatoie, entrambe improponibili. La prima: non si rompe il Patto di stabilità. La seconda: non si aumenta ancora la pressione fiscale”.
Quindi mai più nuove tasse?
“È così. Fissati questi due argini, la via possibile è una sola: incidere sulla spesa pubblica. Cioè spendere meglio e, a parità di servizi resi, spendere meno. Io sto cercando di farlo qui al Tesoro, dove ci proponiamo di chiudere nei prossimi mesi 40 uffici provinciali del ministero e 40 della Ragioneria. Ora il nostro obiettivo è convincere tutti i settori della pubbliche amministrazioni, centrali e locali, a muoversi sulla stessa linea di riforme e risparmi: dalla sicurezza ai tribunali, dalle infrastrutture alle università”.
Sono quegli sprechi che Prodi chiama “i costi della politica”?
“Chiamiamoli i costi delle funzioni pubbliche. Ho appena letto il gran bel libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, “La casta”. Ciò che ora va fatto è tradurre questa eccellente inchiesta giornalistica in misure correttive. È il nostro vero “tesoro” nascosto. Si tratta solo di farlo emergere. Anche perché non bisogna alimentare un senso di ostilità nei confronti della politica, già troppo diffuso nell’opinione pubblica. Resto convinto che dalla cattiva politica si esca con la buona politica, e non con l’anti-politica”.
E nella disputa Prodi-Rutelli sull’Ici lei come si schiera?
“In nessun modo. Le questioni di compatibilità di bilancio competono al mio ministero, quelle di priorità degli interventi devono rientrare in una sfera collegiale. Quello che posso dirle, è che dobbiamo fare riferimento alle tre categorie già usate in Finanziaria: risanamento, crescita, equità. E dunque, se sul risanamento si tratta ormai di mantenere la rotta e non di correggerla, adesso dobbiamo concentrarci sulla crescita e sull’equità”.
Proprio la crescita resta il nostro tallone d’Achille: possiamo stare al traino della ripresa europea?
“Certo che no. Quest’anno cresceremo del 2%, secondo le nostre stime, e dell’1,9% secondo quelle della Ue. Sono livelli superiori alle stime, ma restano comunque inferiori alla media europea. Di nuovo: non possiamo accontentarci. Nei prossimi mesi dobbiamo perseguire tre grandi obiettivi. Il primo, appunto, è crescere stabilmente oltre il 2%. Il secondo è completare la riforma del nostro Stato Sociale, che è abbastanza avanzato per pensioni e sanità, ma ancora in parte inadeguato per la povertà e la disoccupazione.
Il terzo, lo ripeto, è scommettere tutto sull’eccellenza”.
“Vaste programme”, le avrebbe risposto De Gaulle. Come pensa di riuscire a realizzarlo?
“Io ho due bussole. Una bussola mi dice che dobbiamo allungare oltre l’orizzonte. Non ragionare più di anno in anno, ma su una prospettiva di 5, 10 o 15 anni. La Germania ha impiegato un lustro, per realizzare un formidabile recupero di competitività. Un’altra bussola mi suggerisce che, in tutti i campi, dobbiamo separare il grano dal loglio, come dice la parabola. Distinguere ciò che è produttivo da ciò che è rendita. Incentivare fortemente il primo, e penalizzare severamente la seconda. In altri termini, dobbiamo fare quello che in Italia non si è fatto mai abbastanza: riconoscere il merito, e premiarlo”.
Cominciate a farlo nei contratti pubblici, allora. Quello che avete firmato proprio qui al Tesoro ha sollevato enormi polemiche.
“Chi ha polemizzato lo ha fatto senza voler conoscere i fatti. Per il biennio 2005-2006 abbiamo più che dimezzato i premi, per il 2007 e per gli anni successivi abbiamo fissato dei tetti, il 30% delle risorse verrà distribuito in base ai risultati dei singoli uffici, i dipendenti con sanzioni disciplinari subiranno, per la prima volta qui dentro, delle decurtazioni. Mi sembrano passi avanti tutt’altro che irrilevanti”.
Un’altra polemica velenosa che le è piovuta addosso riguarda l’affare Telecom. Siete intervenuti pesantemente. Galeotta, quella sua telefonata a Bernheim…
“Non voglio riaccendere polemiche. Mi limito a questo: pensare che la politica economica e il mercato siano due realtà che devono astenersi dall’interagire, per conservare una specie di purezza incontaminata, è una visione sognante sia della politica sia dell’economia”.
Per concludere: cosa si devono aspettare gli italiani, sempre che questo governo duri? Altri sacrifici?
“Sacrifici non è la parola giusta. Meglio parlare di impegni e di sforzi che devono riguardare tutti. Il governo può creare un clima, ma poi la spinta vera deve venire dalla società, dalle classi dirigenti e dai cittadini. Non adagiamoci su ciò che si è fatto. Il Paese non si deve accontentare del poco. Se saremo poco ambiziosi, saremo sempre poco soddisfatti. È questa la sfida, per l’Italia di oggi”.