Significativamente Oltre

Energia e Ambiente

INTERCETTAZIONI: MASTELLA O NO?

di Fernando Cancedda

“Sarebbe davvero singolare se la prima legge promossa dal governo di centro sinistra riguardo all’informazione fosse una legge liberticida, come questa sulle intercettazioni telefoniche”. Paolo Serventi Longhi, segretario generale della FNSI, interviene senza peli sulla lingua al convegno su un tema delicato e attualissimo: segreto investigativo e diritto all’informazione. Un’ipotesi, quella di Serventi, nient’affatto remota. La legge che prende il nome dal ministro Mastella, approvata da larghissima maggioranza alla Camera e attesa nelle prossime settimane al Senato, è in dirittura d’arrivo.

“Se fate un po’ di baccano maggioranza e opposizione faranno a gara per non farla passare”, dice con apparente convinzione Francesco Cossiga, ospite d’eccezione nella sala “Tobagi”, affollata da giornalisti e politici illustri ma anche – buon segno – da decine di studenti delle scuole di giornalismo. I promotori della manifestazione, a cominciare dal presidente dell’Ordine regionale Bruno Tucci e dal segretario del Consiglio nazionale dell’Ordine Vittorio Roidi, non sembrano però condividere l’ottimismo dell’ex presidente della Repubblica. Alla Camera, dove pure i giornalisti sono numerosi, soltanto pochi deputati si sono astenuti. Uno di loro, Giuseppe Caldarola, ha accennato nel suo intervento all’insofferenza diffusa tra i politici per la pubblicazione di conversazioni intercorse nelle stanze del potere. E di “irritazione generale” nei confronti della stampa ha parlato anche un altro dei parlamentari astenuti presenti, il professor Roberto Zaccaria.
Giovanni Valentini (La Repubblica) e Antonio Padellaro (L’Unità) hanno ricordato che il nodo principale è il divieto di pubblicazione previsto fino al termine delle indagini preliminari, che in Italia durano mesi o addirittura anni. Senza le rivelazioni sui “furbetti del quartierino” e altri più o meno recenti scandali nazionali gli italiani sarebbero probabilmente all’oscuro di gravissimi episodi di corruzione. Una sanzione monetaria notevolmente aggravata (fino a centomila euro) creerebbe inoltre una discriminazione fra ricchi e poveri. E poi perché dovrebbero essere i giornalisti i primi (e i soli) a pagare? “Voi potete pubblicare tutto – ha assicurato Cossiga – e in Senato io non mi limiterò a votare contro. Proporrò un emendamento: nessuna sanzione ad un giornalista prima che sia pronunciata e passata in giudicato la sentenza a carico del magistrato o del funzionario o dell’ufficiale o del sottufficiale che gli ha passato la notizia”.

Eppure non tutti i giornalisti sono contrari alla legge. Secondo Paolo Gambescia, già direttore del “Messaggero” e oggi deputato, “non si tratta affatto di una legge liberticida ma di una legge civile”. E’ possibile, ha domandato, che l’indagato debba avere conoscenza delle prove che lo riguardano dalla lettura dei giornali?

Anche il sottosegretario alla Giustizia Li Gotti – che il moderatore Roberto Martinelli ha presentato come “il padre della legge” – ha denunciato una scarsa conoscenza della nuova normativa, la quale secondo lui innoverebbe pochissimo rispetto a quella in vigore. Fino dalla riforma del codice di procedura penale del 1989 – ha detto – il divieto di pubblicazione è attribuito alla necessità che il giudice delle indagini preliminari apprenda il contenuto delle prove solo ed esclusivamente dalle parti in giudizio. E non prima, dalla lettura dei giornali. E’ in gioco la sua “terzietà”.
“Ma l’intercettazione è una prova come un’altra – ha osservato subito dopo il professor Franco Coppi – Un testimone non ha l’obbligo del segreto. Perché l’intercettazione dovrebbe essere trattata diversamente dalle dichiarazioni di un testimone alla stampa?” Diverso, ha proseguito l’avvocato Coppi (difensore, lo ricordiamo, delle persone implicate nei presunti episodi di pedofilia di Rignano Flaminio) è il caso di intercettazioni che non riguardano il processo e che non dovrebbero neppure essere messe agli atti.

“Le intercettazioni telefoniche non sono prove come le altre – ha obbiettato l’onorevole avvocato Gaetano Pecorella – appunto perché sono reti in cui entrano pesci che non hanno niente a che fare con l’oggetto del procedimento”. Che ci sia stato a volte un uso disinvolto delle intercettazioni hanno ammesso anche Bodo dell’agenzia ANSA e prima di lui il segretario dell’Ordine nazionale Roidi, il quale ha tuttavia ricordato l’indifferenza della politica e delle istituzioni alle tante proposte di riforma dell’ordinamento professionale dei giornalisti anche in tema di deontologia.
Proprio a questo riguardo vorrei aggiungere alla cronaca una mia riflessione. Di questa annunciata sciagura che pone un limite pericoloso alla libertà di stampa e soprattutto al diritto dei cittadini di avere un’informazione completa e imparziale, saranno in molti ad avere la responsabilità. In primo luogo i parlamentari e i politici che l’hanno proposta e approvata, quelli in mala fede, alla continua ricerca di alibi per sfuggire al controllo dell’opinione pubblica, e quelli in buona fede, che hanno creduto di trovare un (pur necessario) rimedio alle violazioni della privacy e al disinvolto coinvolgimento di fatti e persone che non hanno interesse pubblico. Senza accorgersi che in questo caso la toppa era peggiore del buco.
Ma proprio perché si tratta di una sciagura annunciata, parte della responsabilità – se e quando la legge Mastella sarà definitivamente approvata – andrà attribuita a noi giornalisti, sia a quelli “distratti” che hanno sempre considerato l’etica professionale un “optional” poco remunerativo, sia a quelli che avrebbero dovuto denunciarli, fermarli e adeguatamente sanzionarli. Sempre e non solo occasionalmente. Per dovere nei confronti del pubblico, per tutelare l’interesse di tutti all’autoregolamentazione e per non offrire alibi all’ipocrisia di chi non la vuole e si rifiuta di cambiare una legge professionale antiquata. Nei rapporti interni alla nostra categoria è spesso più facile trovare omertà che solidarietà. Anche per questo l’autoregolamentazione non ha funzionato.

“La verità è che soffia un vento illiberale non solo in Italia, ma anche in altri paesi d’Europa”, ha detto, concludendo il convegno, il presidente della FNSI Siddi. E il Presidente del Sindacato Cronisti Columba ha annunciato la necessità e l’urgenza di una forte mobilitazione della categoria in coincidenza con il dibattito decisivo al Senato. Il Presidente Marini li riceverà il 24 maggio.

ELEZIONI FRANCESI E PD

di Francesco Grillo

Sarkozy e le note della marsigliese intonate a Place de la Concorde; il sorriso meraviglioso, la determinazione di Ségolène nel dibattito televisivo come momento più bello della campagna elettorale; ma prima di loro la Merkele, Zapatero, Blair (anche se ad un passo dall’addio). Non c’è più ormai un solo Paese europeo che non abbia profondamente rinnovato la propria classe dirigente politica. Ed il fantasma del cambiamento, di una modernizzazione che supera le categorie della Sinistra e della Destra si aggira potente per l’Europa.
Con una eccezione però. Quella del Paese più bello del mondo che si ritrova come prigioniero di un incantesimo. Come nella “Bella addormentata nel Bosco”, dove non solo la principessa ma l’intero villaggio si è come pietrificato e dopo dieci anni tutte le persone e i personaggi sembrano essere rimasti uguali a se stessi. Immobili nello stesso posto, intenti nella stessa azione. Persino le rughe nel paese addormentato sembrano meno feroci che altrove.
Ma qualcosa sa cambiando. C’è il rischio che sia la solita trovata pubblicitaria che dura lo spazio di un paio di mesi. O forse per sopravvivenza e disperazione, il villaggio si sta veramente rassegnando all’idea che per svegliarsi non può aspettare un principe azzurro che all’orizzonte non si riesce proprio a vedere.
La nascita del Partito Democratico (o dovremmo forse dire la cerimonia di chiusura dei Partiti dei Democratici di Sinistra e della Margherita) è stata, finora, l’evento politico meglio riuscito dell’anno. E non solo dal punto di vista della comunicazione.
In particolar modo il congresso dei Democratici di Sinistra segna un abbandono vero. Il distacco da una tradizione, da una consuetudine organizzativa e da un gruppo di valori che non poteva non essere difficile e che è stato visibilmente vissuto con sofferenza sincera.

Hanno rinunciato sia i DS che la Margherita a punti di riferimento che ne hanno definito –anche se sotto nomi che sono cambiati numerose volte – l’identità per decenni. È un rischio vero quello che entrambi i gruppi dirigenti hanno deciso di correre. Una innovazione autentica anche se i suoi contorni devono ancora essere definiti.

Si capiscono i motivi della svolta: la totale crisi della politica, la domanda di chiarezza e di novità da parte degli elettori. Del tutto incerti però sono – come è stato notato – gli approdi e le rotte della nave che ha preso il largo.

E tuttavia, proprio per questi motivi, sono convinto che la nascita del Partito Democratico apra una opportunità importante. Bisognerà, infatti, definirne gli obiettivi, le agende, probabilmente i valori. Forse persino una ideologia, o perlomeno, una visione del mondo che accomuni quella parte della società che in questo partito si riconoscono.

Di fronte a questa sfida non basterà fondere le due visioni, quella di derivazione cattolica e quella socialista, marxista. E ciò perché quelle due visioni fondibili, riducibili l’una all’altra non sono. Teoricamente, allora, quattro appaiono le possibilità: far prevalere l’agenda di sinistra ma così si perderebbe nel tempo l’elettorato moderato andando dritti verso il fallimento del viaggio; far vincere quella moderata e però in questa maniera si otterrebbe il risultato opposto e lo stesso esito finale; far finta che siano sufficienti ipotesi programmatiche come quella proposta dall’Unione alle ultime elezioni, dimenticandosi però che quella appunto era la piattaforma programmatica di una coalizione e non il manifesto di un partito che necessariamente deve poter contare su un senso di appartenenza di livello molto più alto; infine, riconoscere l’inadeguatezza delle famiglie politiche, delle categorie del passato e cominciare ad elaborare una interpretazione del mondo, a costruire strumenti di governo del tutto nuovi. Partendo dall’ammissione che sia davvero una discontinuità (tecnologica, economica) radicale quella che la politica del futuro deve capire e affrontare.

Mai come in questo caso sembrerebbero coincidere le necessità del consenso, della sopravvivenza di un certo sistema di potere, con le ragioni della riflessione strategica finalizzata a proporre soluzioni a problemi complessi. E ciò apre opportunità per iniziative indipendenti, coraggiose, serie come Vision. Se un pezzo così rilevante della politica italiana decide di lasciare il proprio porto per avventurarsi in un percorso mai tentato prima, significa che al cambiamento non c’è più quasi davvero alternativa.

DONNE IN EUROPA

di LAURA TUSSI


Riconoscere la soggettività della donna corrisponde a riconoscere anche la differenza: la pari dignità non viene stabilita sulla base di una omogeneizzazione dei due sessi, ma sulla identificazione della differenza come valore. Non per elogio del pensiero della differenza sessuale (che è comunque un momento alto della partecipazione femminile all’elaborazione culturale), ma sottolineare ancora una volta che la rilevazione della differenza sessuale come positività attribuisce diritto di cittadinanza culturale a tutte le altre differenze (etnica, culturale appunto, ma anche di età, di salute, di stato sociale ecc.). Ciò sembra importante soprattutto in un momento in cui le differenze etniche-culturali stanno spaccando nazioni, anche da lungo tempo costruite sull’unione di etnie diverse, in tanti piccoli satelliti.
Rimane certamente un problema quello delle varie forme di discriminazione e di violenza sulle donne e sulle bambine. Una questione grave è il precariato sul lavoro, il cosiddetto mobbing e la precedenza data al licenziamento, o alla messa in cassa integrazione, delle donne nelle situazioni di chiusura totale o di de-localizzazione delle aziende. Legati al fenomeno dell’immigrazione ci sono i problemi dello sfruttamento e del traffico di donne. Di crescente rilievo sociale, giuridico e morale è la piaga culturale che riguarda quelle donne immigrate le quali, lavorando in particolare quali badanti o infermiere nelle nostre case e nei nostri ospedali, fanno partecipi le nostre famiglie dello stato di disagio in cui si trovano le loro stesse famiglie rimaste nei paesi di provenienza: prive di madri, figlie, sorelle… La sfida del ricongiungimento del nucleo familiare ci coinvolge nel nostro più intimo vissuto quotidiano.
Partire dai diritti umani delle donne e delle bambine porta a considerare con mente nuova la pratica della socialità, della politica, dell’economia, dell’educare e del formare per un avvenire globale completo. Alla fine non può non scattare una più avvertita consapevolezza del valore della centralità della famiglia, del rilievo e della irrinunciabilità degli essenziali servizi sociali, della necessità di politiche pubbliche sostanziate di adeguate risorse.
E’ stato grande l’apporto femminile nella crescita globale dell’attenzione e responsabilizzazione verso i soggetti più deboli (bambini, anziani, handicappati) che, essendo un tempo gestiti individualmente dalle donne nell’ambito familiare, poi non venivano presi in responsabilità dal sistema sociale. Altrettanto grande è stato il contributo femminile alla sensibilizzazione verso le tematiche ecologiche, alla tutela e preservazione dell’ambiente, legata anche all’antica consuetudine, come donne, della gestione del quotidiano. Al femminile è la presa di coscienza dei grandi temi della pace, del ripudio della guerra, delle denunce alla violazione dei diritti umani in ogni realtà. Non vi è dubbio che per portare avanti un impegno in prima istanza individuale, una presa di coscienza, e poi collettiva, le donne devono innanzitutto conoscere e riconoscere se stesse per poter chiedere all’alterità un corrispondente riconoscimento. In questo senso le donne devono compiere ancora lunghi percorsi di emancipazione. In alcuni casi debbono creare e ricreare immagini di sé che non hanno avuto, non limitandosi ad un inventario dell’esistente, della realtà di fatto, del contingente.

Le culture si sono sviluppate sui tentativi successivi degli umani di superare le diversità, di colmare lo scarto, di rendere realizzabile l’utopico. La rivelazione della differenza sessuale come positività, attribuisce diritto di cittadinanza culturale a tutte le altre differenze, etniche, culturali, ma anche di età, intergenerazionali, di salute, di stato sociale. Questo è importante soprattutto in un momento in cui le differenze etnico-culturali sgretolano nazioni, anche da lungo tempo costruite sull’unione di etnie diverse, in tanti piccoli satelliti. La differenza di sesso è forse attualmente quella che subisce i maggiori attacchi. Anche le scienze dimostrano che riconoscersi in un sesso è un processo culturale oltre che fisiologico e psichico. Le elaborazioni del neofemminismo hanno dimostrato che la partecipazione delle donne ai processi culturali è stata di notevole spessore, anche se sotterranea, tacita, priva di protagonismi, quasi ignorata dalle donne stesse.

Proprio nella quotidianità e non nelle orchestrazioni metafisiche si gioca il senso più rilevante della nostra esistenza, anche come donne. In questo senso Hannah Arendt scriveva con evidente lucidità: “E’ vano cercare un senso nella politica o un significato nella storia quando tutto ciò che non sia comportamento quotidiano o tendenza automatica è stato scartato come irrilevante”.
Abbiamo come donne forza, tenacia, creatività, capacità di resistenza anche in situazioni di tensione. Abbiamo anche una certa “innocenza” che deriva dal fatto di essere state lontane dai luoghi di potere.
Abbiamo dimestichezza con le origini della vita e della morte: “sappiamo” per retaggio atavico. Eros e Tanatos trovano ricomposizione nella nostra stessa esistenza.
Dobbiamo innanzitutto riuscire ad utilizzare le forze positive che si liberano nell’inevitabile conflitto tra i “diversi”, per sesso, per età, per cultura, come stimoli a cambiare, a crescere, neutralizzando la parte negativa del conflitto che si esprime in prevaricazione, ricerca di possesso dell’altro, tentativo di omologazione dell’altrui diversità ad un modello costruito a nostra immagine e somiglianza o per nostro tornaconto.
Il conflitto sessuale non è a se stante, ma partecipa di una conflittualità che permea tutto il reale, perché è un atto creazionale, proiettato nell’avvenire.

UN PARTITO DEL FUTURO

di Andrea Scopetti

Spesso ci si chiede da dove nasca il Partito Democratico, quali sono le sue origine, quali le sue basi ideali culturali e storiche.
Nonostante sia convinto che il P.D. debba essere essenzialmente un soggetto nuovo che guarda al futuro con basi nel presente più che nel passato, ritengo che guardarsi indietro costituisca la “conditio sine qua non” per meglio capire la storia degli ultimi decenni e rendersi conto che la situazione attuale rappresenta il passaggio cruciale di un percorso con origini molto più lontane di quelle che comunemente si ritiene.
I cambiamenti di questo paese non hanno certo inizio negli anni duemila o negli anni novanta, non c’è dubbio che la fine degli anni ‘60 e gli inizi degli anni ‘70 hanno rappresentato per l’Italia un punto di svolta che ancora oggi necessita di studi e approfondimenti.
Sono anni caratterizzati da grandi movimenti di protesta e di lotte per ideali e diritti, da grandi conquiste civili: il referendum sul divorzio e più tardi l’approvazione della legge 194 (sull’interruzione della gravidanza) rappresentano ancora oggi uno dei momenti più alti della crescita sociale e politica del nostro paese.
Non c’è dubbio, però, che la forza che si portava dietro la generazione di quel periodo non riuscì a produrre le innovazioni sperate e con gli anni, purtroppo, andò spegnendosi subendo anche forti strumentalizzazioni.
Gli anni fine ‘70- inizi ‘80 rappresentano bene questa situazione: la stagione del terrorismo e l’inizio dei grandi cambiamenti politici.
La reazione dello Stato permette di vincere la guerra al terrorismo ma la politica non riesce a captare la spinta del cambiamento, con la conseguenza di un rafforzamento interno dell’apparato, ma soprattutto, con la costruzione di un sistema che alla fine supererà il lecito consentito.
Anche in questi anni, però, il paese riesce a dare l’ennesima prova di vitalità, esempio su tutti la bocciatura del referendum che chiedeva l’abolizione della legge 194, a riprova che quando i cittadini vengono chiamati a difendere e conquistarsi diritti di libertà e di democrazia la risposta che giunge è sempre molto attiva e partecipata.
La fine anni ‘80 e inizi ‘90 sono caratterizzati dal crollo del sistema su cui si basava il paese e dall’azzeramento di un’intera classe dirigente e di un intera struttura politica e partitica.
Da lì inizia la costruzione, ancora in atto e caratterizzata da mille incertezze, difetti e debolezze, di un nuovo sistema burocratico, democratico, politico e partitico.
Sono gli anni che vedono la crescita di una nuova coscienza civile che lotta per nuovi diritti: per la pace, per la difesa dell’ambiente, contro la fame nel mondo, contro le nuove forme di discriminazione e di intolleranza,.
Un movimento che vede insieme diverse generazioni, un fenomeno planetario forse più vasto di quello del ‘68.
La scommessa a cui siamo chiamati a lavorare oggi è quella di non perdere la forza innovatrice di questo movimento ma costruire, su questo, un sistema, politico e partitico, che sappia valorizzarlo offrendo soluzioni adeguate.
La transizione, di cui tanto si parla nel nostro paese, ha quindi tempi molto più lunghi di quelli che spesso si vuole far credere, è ormai qualche decennio che la politica è chiamata a dare risposte che non riesce dare.
Con tutto questo non intendo certo dire che le radici del P.D. possano trovarsi nel movimento del ‘68 o negli avvenimenti degli anni ‘70 e ‘80; probabilmente è sbagliato anche ricercarle nelle vicende seguite a tangentopoli e nei percorsi politici intrapresi successivamente.
La situazione del 1994, quando nacque il bipolarismo, è diversa rispetto a quella che ci troviamo ad affrontare oggi, così come la situazione mondiale, con cui dobbiamo fare i conti anche dopo il 2001, è profondamente cambiata.
Quello che penso è che il Partito Democratico che nasce oggi deve avere la forza del movimento del ‘68, deve valorizzare l’energia che questo paese ha profuso per la conquista di tanti importanti diritti, deve ricordarsi delle risposte che riuscì a dare negli anni ‘70 e ‘80 senza dimenticarsi di tutte quelle che non riuscì a dare, deve tenere sempre ben presente i gravi errori commessi tra la fine degli anni ‘80 e inizi ‘90.
Un Partito di giovani e di donne che, fondandosi sulla forza del grande movimento civile del nostro millennio, riesca a raccontare e far convivere l’esperienze di tutte le generazioni che hanno contribuito a fare la storia degli ultimi 40 anni.
Il Partito del confronto e dell’integrazione, il partito della partecipazione, il partito della democrazia attiva, il partito DEMOCRATICO.
Credo che questi siano concetti che possano rappresentare la base per formulare quelle risposte e quelle proposte innovative, riformiste e di sinistra che oggi in tanti attendono.
Oggi è necessario un partito che dia rappresentanza a tutti quelli che intendono contribuire a costruire una sinistra nuova che non sia impegnata soltanto a fare i conti con la propria storia ma, soprattutto, riesca a fare i conti con una nuova realtà, nuove difficoltà sociali, nuovi problemi globali, nuovi scenari mondiali.
Se riusciremo a fare tutto questo, tra qualche tempo, fugheremo ogni dubbio su derive moderate, progetti calati dall’alto, finte partecipazioni, scarsa rappresentanza democratica.
Riusciremo a far capire l’importanza di parlare una linguaggio nuovo che fugga da schematismi ormai vecchi e obsoleti.
Se tutto questo non riusciremo a fare saremo di nuovo costretti a raccontare, tra qualche tempo, dell’ennesima occasione persa e del fallimento a cui il nostro paese è andato incontro.
Nonostante la situazione non sia semplice e l’inizio di questo percorso non sia stato dei migliori, siamo in tanti a credere ancora nel successo dell’operazione e per questo non ci stancheremo di lavorare e di lottare.

Orvieto, 12 maggio 2007

PER LA COSTITUENTE DEL PD

“Comunicato sulla Road mad del PD fino ad Ottobre 2007”

Siamo a un passaggio fondamentale di una impresa politica di portata storica.

E’ una impresa alla quale lavoriamo da ormai dodici anni, che diventa partito nel segno e nel solco dell’esperienza dell’Ulivo.

Abbiamo deciso di dare vita al Partito Democratico per unire le culture e le tradizioni riformiste del nostro paese – socialista, cattolica, liberale e ambientalista – e dare così all’Italia una grande forza politica che vuole migliorare il paese, promuovendone lo sviluppo economico e la giustizia sociale, nel segno della democrazia piena, rispondendo alla domanda di partecipazione dei cittadini.

Abbiamo iniziato a ragionare operativamente su questo progetto dopo la vittoria elettorale dello scorso anno, vittoria preceduta dalla straordinaria esperienza delle primarie del 16 ottobre 2005, modello di rapporto virtuoso tra la militanza attiva di partito e la apertura ai cittadini.

Abbiamo tenuto a Orvieto un seminario sulle ragioni storiche del Partito Democratico, sul suo profilo programmatico e sulla forma p artito. Abbiamo incaricato un gruppo di saggi di redigere un Manifesto che sia punto di riferimento ideale del confronto nella fase costituente del partito. Abbiamo deciso che si tenessero congressi sincronizzati di ds e margherita, i due partiti promotori della nostra comune impresa.

Ora i congressi sono alle nostre spalle e la decisione è stata presa. E’ stata una decisione non facile, ma partecipata e convinta. I congressi si sono conclusi con l’approvazione di un documento comune che impegna i due partiti promotori e l’Ulivo a promuovere il partito nuovo e unitario capace di coinvolgere le espressioni migliori delle culture democratiche e riformiste, fondato sulla partecipazione e sulla adesione personale e diretta dei cittadini.

Il documento approvato dai due congressi apre la fase costituente del partito democratico.

Noi dobbiamo ora dare attuazione a quello impegno, stabilendo le modalità operative di quello che a grandi linee è previsto dal dispositivo congressuale.

Nel dispositivo è previsto che entro ottobre 2007 venga eletta l’assemblea costituente del PD e che fino all’elezione dell’assemblea costituente “tutte le attività connesse alla costruzione del Partito Democratico saranno affidate a un comitato di coordinamento composto da esponenti DS, DL e personalità non aderenti ai partiti promotori”.

L’elezione dell’Assemblea costituente sarà un passaggio fondamentale: dobbiamo fare sì che questo appuntamento sia preparato in modo approfondito e che sia assicurata una larghissima partecipazione di popolo dando la possibilità a tutti i cittadini che lo desiderano di dichiararsi aderenti del nascente partito democratico all’atto dell’elezione dei delegati all’assemblea, secondo il principio una testa un voto. Al successo di questo momento fondante siamo tutti legati e a questo successo dovremo dedicare i nostri sforzi e le nostre energie.

Penso che la data migliore per l’elezione della costituente sia metà ottobre, il 14 ottobre: se avessimo potuto farlo prima meglio. Ma non possiamo riuscirci prima perché abbiamo bisogno di un tempo sufficiente per preparare una impresa tanto grandiosa.

A chi affidare la direzione politica ed operativa della fase che è già cominciata e che precede l’elezione dell’assemblea?

Credo che abbiamo bisogno di un organismo sufficientemente largo per essere rappresentativo delle personalità e d elle sensibilità che ci sono tra noi, ma anche sufficientemente ristretto ed agile perché possa riunirsi e funzionare come strumento di direzione di questa fase. Questo Comitato può essere composto da una trentina di persone, con non meno di un terzo di donne e secondo queste proporzioni: una decina di personalità ds, una decina della margherita – che verranno indicate dai rispettivi partiti – e una decina di personalità non iscritte a questi partiti che mi farò carico di proporre (designare) personalmente. Potremo chiamare questo organismo: ”Comitato promotore nazionale della costituente del Partito Democratico”.

Questo Comitato sarà insediato entro una decina di giorni e dovrà essere in grado di riunirsi con una frequenza quindicinale. Il compito di istruire i lavori del comitato e di assicurare l’attuazione delle decisioni dello stesso po trebbe essere affidato a tre “Coordinatori”, quelli che hanno già dato buona prova nella fase precedente.

I compiti del Comitato nazionale saranno fondamentalmente i seguenti:

– promuovere iniziative di presentazione del progetto del Partito Democratico

– approvare i regolamenti e le procedure elettorali, insediando gli opportuni organi tecnici e di garanzia: la proposta di regolamento elettorale sarà posta all’esame del coordinamento entro la fine di giugno e i tre coordinatori, che si avvarranno di esperti, istruiranno una proposta per quella data

– promuovere nel Paese un confronto di idee e di proposte che, assumendo il Manifesto come orizzonte ideale e punto di riferimento, confluiranno nella assemblea costituente

– favorire e riconoscere comitati promotori provinciali che avviino la fase costituente nei territori con l’obiettivo di aprire le porte alla partecipazione dei cittadini e svolgano anche funzioni di garanzia verso tutti coloro che intendono partecipare attivamente al processo.

– promuovere forum tematici, a partire da un forum delle donne, sul modello di quelli già avviati per l’ambiente, la famiglia, il lavoro e i governi locali.

La condizione perché questa nostra impresa abbia successo è che l’elezione dell’assemblea costituente veda una partecipazione larghissima.

L’assemblea così eletta avrà una grandissima legittimazione e potrà, attraverso i propri organismi, svolgere due compiti fondamentali:

– Approvare il Manifesto programmatico

– Adottare lo statuto

C’è molto da fare.

Per avviare la fase costituente dovremo dare vita, in SS Apostoli, e lo faremo subito, ad una struttura operativa, diretta dai Coordinatori, e che abbia (svolga in modo appropriato le necessarie) funzioni politiche, operative e comunicative e che disponga anche delle adeguate risorse finanziarie.

Il Partito Democratico vive già da tempo nel segno dell’Ulivo tra i nostri elettori.

Ora è il momento di farlo vivere come soggetto politico vero e proprio preparando la nascita di un partito nuovo e unitario.

PARTITO DEMOCRATICO: E LE DONNE??

P.D. = Partito democratico

P.N.D. = Partito non democratico

di Rosanna Oliva

Dal mattino si vede… il cattivo giorno: il comitato incaricato di preparare l’elezione dell’Assemblea costituente, coordinato da tre uomini, sarà composto, contrariamente a quanto proposto da Prodi (50 e 50) e in violazione dei principi del Manifesto,(40a 60) con una presenza di donne al 30 per cento.
Viene meno ogni dimostrazione di volontà di rinnovamento e di lavorare per una democrazia paritaria.
Preso atto di quanto sopra, proponiamo che sia eliminata la norma di garanzia dal Manifesto e che sia modificato il nome del futuro partito in PND= Partito non democratico.

Sul mancato rispetto di quanto annunciato da Prodi il 3 maggio all’inaugurazione dell’Anno Europeo per le Pari Opportunità, due ipotesi altrettanto inquietanti: un gioco delle parti oppure un leader che non ha voce in capitolo rispetto ad un gruppo composto prevalentemente di uomini che dimostrano di non tenere nessun conto anche di quanto si decide in Europa.

Aspettiamo di vedere le scelte che saranno operate da questo Comitato sul sistema per eleggere l’Assemblea costituente e purtroppo quanto avvenuto oggi allontana la speranza che si possa accogliere il suggerimento avanzato da più parti di prevedere primarie per la scelta dei candidati e delle candidate da presentare in collegi binominali, il che assicurerebbe un’Assemblea composta al cinquanta e cinquanta.

La telenovela continua….

www.aspettarestanca.it

GOOD BYE TONY

di Marco Giordano

E’ finita l’epoca di Tony Blair. Chiunque si riconosca, in un modo o nell’altro, in una cultura di tipo riformista non può che nutrire una gratitudine e un’ammirazione immensa per quest’uomo che, insieme ad altri (e penso innanzitutto a Gordon Brown e Anthony Giddens), ha traghettato il Labour verso l’era globale, illustrando al mondo intero quali sono le nuove frontiere ed i nuovi orizzonti della sinistra mondiale.

Cosa significhi, oggi, equità e giustizia sociale ce l’hanno insegnato Tony e i suoi boys: uguaglianza di opportunità, garantire a tutti, ad un tempo, basi di partenza e strumenti culturali, sociali e formativi omogenei, ed allo stesso modo la certezza che i destini professionali ed economici siano determinati in base al merito, l’applicazione, la passione delle persone.

Per primo, dunque, il leader inglese ha riunificato nella cultura progressista i due principali termini della rivoluzione francese, uguaglianza e libertà, riconoscendo a quest’ultima la doverosa primazia: soltanto nella libertà vi è uguaglianza, aborrendo quell’odioso egualitarismo al ribasso che ancora, ahinoi, informa gran parte del bagaglio ideologico dei partiti socialisti e dei sindacati continentali, per i quali vi è giustizia sociale soltanto nell’appiattimento sic et simpliciter degli standard retributivi (economici e non) delle varie categorie umane.
Non a caso il new Labour è stata l’unica formazione progressista a vincere, e ripetutamente, in Europa (do you understand PSF e DS?), perchè è stata l’unica a recepire e interpretare le istanze progressiste effettive nelle società moderne: il riconoscimento e la valorizzazione del merito.

Senza Blair e il New Labour oggi non esisterebbe il progetto del PD, Segolene Royal e il suo tentativo di rinnovamento di quei quattro babbioni del PSF e il socialismo liberale, libertario e ciudadano di Josè Luis Rodriguez Zapatero e il suo Nuevo Psoe (guarda caso l’unica altra formazione progressista che vince oggi in Europa).
Peccato che non proprio tutti abbiano appreso a pieno la lezione.
Come in ogni classe, anche in quella del riformismo europeo c’è qualche elemento che rimane un po’ indietro rispetto agli insegnanti e ai compagni più brillanti.

Tipo gli amici dell’Unità, che invece di tributare un doveroso omaggio al leader laburista, sulla prima pagina del loro fogliastro titolano: “Blair se ne va e lascia in eredità il disastro dell’Iraq”.

Come se la parentesi più significativa dei 10 anni di governo blairiano fosse l’Iraq.

SERVONO LE REGOLE – GREGORIO GITTI

Da “Il Corriere della Sera” del 9 maggio 2007

“Servono le regole”

di Gregorio Gitti (presidente APD)

La confusione politica sul processo costituente del partito democratico alimenta incertezze nel pubblico degli appassionati al progetto, finché durano, e malcelata tensione tra gli aspiranti leader. Il rincorrersi di dichiarazioni polemiche e non sorvegliate sovverte spesso la logica degli assunti e delle conseguenze. Emergono autocandidature alla guida di un partito che ancora non c’è, si sovrappongono o invece si contrappongono formule comunque tautologiche come “assemblea costituente” o “congresso fondativo” senza chiarirne la sostanza, mentre si finge di litigare sulla relativa data di celebrazione.

Proviamo a mettere in ordine qualche concetto, formulando una proposta precisa. Per costituire un partito nuovo occorre disporre di uno statuto, ossia dell’insieme delle regole che ne disciplinano la vita e i rapporti tra i soci, e soprattutto di un progr amma. Evocare subito un congresso fondativo senza aver ampiamente condiviso questi strumenti fondamentali significa concepire in modo autoreferenziale la costituzione del partito: un gruppo ristrettissimo di maggiorenti cala dall’alto una proposta, imponendola ai singoli aspiranti soci, di questo passo, vien da pensare, sempre meno appassionati. Non è dunque strano che chi, all’interno dei vecchi partiti, nei mesi scorsi frenava oggi vuole correre.

Viceversa mi sembra necessario scolpire i passaggi che debbono condurre all’obiettivo, da tutti formalmente auspicato, di una ampia discussione e condivisione dello statuto e del programma del futuro partito. Raggruppamenti di cittadini dovrebbero competere sulla base di differenziate proposte politiche sia organizzative sia programmatiche nel comune alveo ideale disegnato dal manifesto dei saggi del febbraio scorso. Questo c onfronto competitivo dovrebbe poi sfociare nell’elezione, a metà del prossimo ottobre come si dice, di un’assemblea che approverebbe in modo definitivo lo schema statutario e il programma in modo da garantire democraticamente la successiva costituzione formale del nuovo partito. Solo dopo quindi e secondo le regole condivise si potrebbero eleggere i suoi organi dirigenti. Esattamente il contrario di ciò che vogliono e affermano i maggiorenti dei vecchi partiti.

Il problema più cospicuo al momento è comunque rappresentato dal sistema di elezione di questa assemblea. Sarebbe bene assicurarle la più ampia rappresentatività e perciò la rappresentanza di tutti i diversi raggruppamenti di cittadini secondo un metodo proporzionale. Le madri e i padri democratici, per esempio in numero complessivo di 1500, dovrebbero essere eletti in numerose circoscrizioni, quindi in ambiti territorialmente ristretti, in modo da garantire il diretto raccordo con i cittadini elettori, sulla base di liste concorrenti composta ciascuna al massimo da tre candidati, evitando in tal modo il mercato, spesso addomesticato, delle preferenze. Nel contempo si dovrebbe garantire la democraticità della compilazione della lista: a tal fine un’assemblea pubblica dei promotori delle liste concorrenti nella singola circoscrizione potrebbe scegliere i potenziali candidati, votandoli in una elezione primaria e in tal modo fissandone anche l’ordine di presentazione. Bisognerebbe infine assicurare un fondo di garanzia per tutti i raggruppamenti al fine di riconoscere risorse o servizi perequativi a tutti i candidati, ma su questo punto cedo volentieri la parola ai tesorieri dei vecchi partiti, notoriamente gelosi del loro ruolo e di ciò che ne consegue.

INTESA EU SU ENERGIA E CLIMA

Intesa europea su energia e clima – rinnovabili obbligatorie, sì al nucleare

BRUXELLES – Il Consiglio Ue si è concluso con un accordo complessivo sul piano d’azione energetico per contrastare i cambiamenti climatici. L’Europa si impegna a stabilire ambiziose quote vincolanti nella riduzione di emissioni di gas serra, nella produzione di energia da fonti rinnovabili e nel risparmio energetico. I 27 hanno raggiunto infatti un’intesa sul piano proposto dal cancelliere tedesco Angela Merkel, presidente di turno dell’Unione. Il testo di compromesso, ha commentato la Merkel, rappresenta una “svolta” nell’impegno a contrastare il riscaldamento globale. “Spero – ha proseguito il cancelliere tedesco – che otterremo l’accordo degli stati membri su questo testo che ha sicuramente dei nuovi elementi di qualità  “.
Un difficile compromesso. Il nucleo storico dell’Unione è riuscita quindi a convincere con le adeguate compensazioni i nuovi entrati dell’Europa orientale della necessità  di fissare obiettivi vincolanti sia nel campo del risparmio energetico che in quello della produzione da fonti rinnovabili come sole, vento e biomasse.
Obiettivo 20%. Il consiglio europeo indica un “obiettivo vincolante del 20% entro il 2020 del totale dei consumi di energia da fonti rinnovabili”. Un traguardo ambizioso, anche perchè raggiunta l’intesa politica rimane ancora irrisolto il nodo di come tradurre il tutto da un punto di vista giuridico in una legislazione europea coerente. Per raggiungere l’obiettivo si terrà conto della media di quanto fatto da tutti gli stati, con quote differenziate a livello nazionale. Queste al momento non sono state ancora fissate, ma fonti Ue precisano che verrà  fatto “al più presto” tenendo conto dei mix energetici di ciascun paese. Unico obiettivo vincolante dovrebbe essere quello minimo sui biocombustibili, fissato al 10%.

Il nodo legislativo. “Proporremo una legislazione”, ha detto il presidente della Ue, Josè Manuel Durao Barroso, annunciando che l’esecutivo presenterà le sue proposte “nel terzo trimestre dell’anno”. L’utilizzo dello strumento legislativo – che sarà oggetto di nuovi negoziati – consentirebbe alla Commissione di fare ricorso alla Corte di giustizia europea contro uno Stato inadempiente.
Il pedaggio pagato alla Francia. L’intesa è stata possibile anche grazie alle concessioni fatte alle pressioni francesi sul ruolo dell’energia atomica nel limitare le emissioni di anidride carbonica. Nella piano si riconosce infatti “il contributo dell’energia nucleare” per far fronte alle preoccupazioni sulla sicurezza e approvvigionamento dell’energia e per la riduzione delle emissioni di C02, rilevando però “l’importanza capitale” che siano tenute in considerazione la sicurezza dei processi.
Il ritardo italiano. Per quanto riguarda l’Italia, che parte con un grosso ritardo dopo anni di scarsa attenzione al problema, “bisogna veramente cambiare la struttura produttiva del settore energetico italiano” ha spiegato il presidente del Consiglio Romano Prodi, precisando che si tratta di “un impegno di grandissimo respiro, non è una cosa da poco”.
La soddisfazione di Barroso. Estremamente soddisfatto il presidente della Commissione Ue. “Questo – ha sottolineato Barroso – è stato il vertice più significativo cui ho partecipato, l’Europa ha dimostrato che è possibile prendere decisioni importanti e ambiziose e quando i leader europei andranno al G8 a giugno potremo dire che l’Europa assume la leadership” e che gli altri “devono unirsi a noi nella lotta ai cambiamenti climatici”.

“Importante come Kyoto”. Cantano vittoria anche le associazioni ambientaliste. E’ la più importante decisione presa da due anni a questa parte, dopo la ratifica del Protocollo di Kyoto nel febbraio 2005″, ha commentato Francesco Tedesco, responsabile Campagna Energia e Clima di Greenpeace. “Con questa svolta storica l’Europa si mette al primo posto nella lotta al cambiamento climatico, dobbiamo essere davvero orgogliosi di questo”, ha aggiunto.
Il momento di passare ai fatti. Molto positivo pure il giudizio di Legambiente, che invita però il governo italiano “a passare dalle parole ai fatti”. “Non è infatti più ammissibile – afferma il presidente Roberto Della Seta – che alla posizione avanzata del nostro Paese nelle trattative internazionali sul clima non corrisponda un impegno concreto dell’esecutivo per favorire la produzione di energia pulita, attraverso nuovi meccanismi d’incentivazione delle fonti rinnovabili e la semplificazione delle procedure autorizzative”.
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