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BCE: Irreversibilità dell’ Euro, crisi di liquidità o pericoli di insolvenza ?

di Pierluigi Sorti

Il conflitto fra strategia di Draghi e netta opposizione della Bundesbank ,in tema di politica monetaria,  ha una rappresentazione mediatica niente affatto convincente.

Il  governatore della Bce è abile nel riassumere il suo pensiero con aforistiche espressioni , fra le quali  “L’ euro è irreversibile “  profferisce un efficace richiamo a fatalistiche predestinazioni  : particolarmente se enfatizzato dai  caratteri  cubitali della carta stampata e dai titoli televisivi in  sovrimpressione.

Ma con l’ efficacia dello slogan, cresce il pericolo di coinvolgere menti e iniziative su un presupposto errato:  la accresciuta disponibilità di liquido contrabbandata come panacea ella crisi monetaria europea. .

Riportandoci  infatti al profilo delle modalità operative della Bce, sappiamo che a provvedere alla sua dotazione finanziaria,  sono gli Stati dell’ eurozona e che essa è costituita per finalità stabilite dal suo statuto.

L’ uso che se ne è fatto per i recenti interventi , a favore di Grecia, Spagna Italia, destinati alla sottoscrizione dei  titoli del loro rispettivo Debito Pubblico,  discende solo “ indirettamente “ dallo Statuto ( come più volte gli stessi protagonisti della contesa hanno più volte ricordato ) e con ricorso obbligato alla funzione di  tramite delle banche.

Sono queste ultime che, appena ricevuti  i soldi dalla Bce ( al tasso dell’ 1% ), hanno  acquistato i titoli di Stato ( a tassi oscillanti fra 5%  e 6 % ) del rispettivo  paese di appartenenza  ricavandone , come è noto, notevoli plusvalenze per il differenziale dei tassi di interesse  fra le due operazioni effettuate.

Ma tale cospicuo privilegio fruito dalle banche non esaurisce la serie dei vantaggi di cui esse possono beneficiare.

I titoli pubblici in portafoglio, vengono ovviamente inseriti nell’ attivo patrimoniale, e nella qualità di titoli di sicura esazione, sono legittimati ad essere classificati fra le voci di più sicuro rientro ( contante a parte  naturalmente ) : in tal modo, per l’ implicito valore di garanzia , accrescono l’ ammontare dei prestiti che le banche stesse possono concedere agli investitori privati, ( per investimento o per credito commerciale) ai tassi variabili dl mercato secondo le quotazioni correnti.

Ma se la solvibilità degli investitori loro clienti  viene meno ? Appunto per la perdurante crisi economica , la  loro vulnerabilità, in termini di liquidità si è già ampiamente verificata , e tutto lascia presagire che proseguirà, dato il quadro geopolitico che esibisce  presenze crescenti di nuovi  possenti protagonisti, nell’ economia, nella finanza, nelle ricchezze di materie prime e nella forza militare.

Appare pertanto omissivo ( o illusorio ) l’ insistenza di Draghi a enfatizzare la sacralità dell’ euro mentre tace su un meccanismo che se, causa insolvenza degli operatori, si rompe in un punto , si propagherà con effetto domino, in tutti i paesi dell’ eurozona e oltre.

E’ dunque la crisi economica, non l’ euro, ad essere finora irreversibile. Nel silenzio, forse strategico, di Draghi a questo riguardo, sarebbe auspicabile che tale più consona profondità d’analisi facesse capolino più frequentemente nella opinione  pubblica tutta .

Alla fine del tunnel?

  di Francesco Grillo (su Il Mattino)

Le parole sono, come macigni. Soprattutto quelle pronunciate dai leader politici europei e dai dirigenti delle più importanti istituzioni internazionali, in un momento di volatilità alta come quello che i Paesi dell’Euro vivono sui mercati internazionali. Ed è comprensibile che il nostro Presidente del Consiglio cerchi di sfruttare l’abbrivio creato dalle affermazioni rassicuranti di Mario Draghi, invocando un ulteriore sforzo da parte di tutti perché “siamo quasi fuori dal tunnel”.

Quelle di Monti sono ovviamente parole sensate: servono per preparare un bilancio positivo per un governo tecnico rispetto al quale è saggio ritenere che un qualsiasi prossimo governo politico dovrà cercare una continuità; e servono per allontanare di qualche ulteriore centimetro un punto di non ritorno oltre il quale perderemmo il controllo della crisi. Esiste, però, nelle parole di Monti anche un rischio: quello di  ritenere che il peggio sia passato, che forse ancora una volta il sistema ha retto e che possiamo andare in vacanza con la convinzione che presto potremo tornare alle antiche abitudini.

Del resto, pochissime ore dopo le parole di Draghi, il governo ha già dovuto subire un assalto che ha parecchio depotenziato la revisione della spesa e, in parte, compromesso il piccolo ma significativo risultato di aver ridotto il numero delle province.

Se passasse questa convinzione di ritorno alla normalità, lasceremmo intatte le ragioni della crisi ed essa sarebbe destinata a ripresentarsi ancora più grande ed irreversibile tra qualche settimana.

In effetti, anche se capiamo le ragioni di Monti, siamo lontanissimi dalla fine del tunnel. O perlomeno ne siamo assai distanti se decidiamo, una volta e per tutte, che il problema da risolvere non è solo o tanto quello di uno spread che comunque rimane vicino ai 500 punti, ma di rimuovere gli ostacoli che impediscono  alla società italiana di poter essere più produttiva e più giusta.

La realtà dell’Italia è, in fin dei conti, piuttosto semplice da raccontare. Non ha semplicemente futuro, giusto per fare uno degli esempi più eclatanti, un Paese che spende in pensioni duecentotrentasette miliardi di euro all’anno che sono una cifra quattro volte superiore a quella (cinquantatre miliardi) che viene impiegata per la scuola e per l’università di ogni ordine e grado.

E il livello di ingiustizia sociale cresce ulteriormente se si considera che nonostante una spesa così elevata, nessun altro Paese europeo ha quasi il quindici per cento di anziani sotto la soglia di povertà. Molti dei quali, in questi giorni torridi, sono lasciati languire a casa da soli con quattrocento euro di pensione al mese. E non ha prospettiva una società che si permette il lusso di fare a meno di due milioni e mezzo di giovani – un quarto dei dieci milioni di italiani in età compresa tra i quindici e i trenta anni – che sono fuori sia dal mondo del lavoro che da quello della formazione. Non è neppure immaginabile che stia per uscire dal tunnel un Paese che non riesce a trattenere più della metà dei laureati con centodieci e lode e che attrae nelle proprie università dagli altri paesi europei un numero di studenti tre volte inferiore a quello della Spagna.

Sono problemi strutturali quelli che fanno dell’Italia e, in misura inferiore, dell’Europa nel suo complesso, una società che contemporaneamente riesce ad ottenere il minimo di efficienza e il massimo di ingiustizia. Un sistema che ha costruito una sorta di piramide rovesciata che, spesso, premia gli incapaci e mortifica il talento. E non piacerebbe sia a chi lo volesse osservare dal punto di vista di una autentica destra liberale sia da quello di una sinistra davvero sensibile alle diseguaglianze. Un Paese che non solo non cresce ma che rischia anche di non riuscire a stare più insieme. Nonostante gli appelli energici di un Presidente della Repubblica che è stato in questi anni l’unico punto di riferimento.

Non siamo alla fine del tunnel e l’opera appena intrapresa dal Governo Monti ha bisogno di molto più tempo, coraggio, energia politica per scalfire “diritti acquisiti” e corporazioni che continuano a litigare per difendere la propria fetta di una torta che sta per sparire.

Il tunnel dal quale dobbiamo uscire è quello della foresta pietrificata, di un’economia e di una società che può cominciare a crescere – non solo in termini di ricchezza prodotta, ma di idee, qualità della vita – solo se mette pesantemente in discussione equilibri di potere che hanno esaurito da tempo qualsiasi ragione d’essere.

In questo senso ha ancora ragione la Merkel ma anche Draghi: la crescita di cui abbiamo bisogno deve essere vera e per essere duratura può solo venire da riforme che spostino risorse pubbliche e private verso utilizzi più produttivi. Questa deve essere, assolutamente, la contropartita di un qualsiasi intervento finanziario che altrimenti rischia di annacquare quelle responsabilità con le quali Stati e opinioni pubbliche devono fare i conti.

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