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Chimica, ultima chiamata per l’Italia: senza “big player” non c’è futuro

di Leonardo Maugeri su la Repubblica – Affari & Finanza del 4 aprile 2016

L’Eni si avvia a vendere Versalis, ovvero quel che rimane della grande chimica italiana, sollevando interrogativi e preoccupazioni. Per molti dovrebbe rinunciare all’operazione e impegnarsi essa stessa nel rilancio della chimica, evitando di cederla a un soggetto finanziario straniero piccolo e senza una storia di grandi operazioni alle spalle; per altri, la vendita a un soggetto apparentemente interessato a occuparsi davvero di chimica è di per sé una buona cosa, indipendentemente dalla nazionalità e dalle dimensioni del soggetto stesso. Per altri ancora l’Eni dovrebbe impegnarsi nella ricerca di acquirenti con le spalle più larghe.

A rendere più teso il confronto c’è poi la storia di speranze e fallimenti, parabole politico-industriali, successi, follie e malversazioni proprie della chimica italiana – ma anche una domanda che aleggia come una Spada di Damocle: è ancora “strategico” per un paese avanzato avere un’industria chimica forte, incentrata su un grande soggetto nazionale e in grado di catalizzare lo sviluppo di tante piccole e medie imprese? Affrontare questi temi richiede di ripercorrere brevemente il passato, per poi guardare alla realtà presente e alle possibilità del futuro.

LA STORIA. Quello che oggi rimane della chimica Eni non è stato il frutto di un disegno industriale perseguito dall’Eni stessa. All’inizio, negli anni ’50, il suo sviluppo scaturì soprattutto dalla insensata competizione tra Enrico

Mattei e l’industria privata che lo avversava – a partire dalla Montecatini, che della chimica italiana rappresentava la vera eccellenza (dalla Montecatini vennero, tra l’altro, alcuni dei fertilizzanti chimici di Giacomo Fauser che rivoluzionarono l’agricoltura, e il Nobel per Giulio Natta per quello che commercialmente sarebbe passato alla storia come Moplen). Purtroppo, la guerra tra Eni, Montecatini, Edison e altre società portò alla moltiplicazione di impianti troppo piccoli, spesso costruiti in aree contigue, già deboli a livello internazionale ma capaci di canniba-lizzarsi l’un l’altro. A fare le prime spese di quella guerra fu la migliore, la Montecatini, risucchiata dalla Edison nell’operazione da cui nacque Montedison (1966). La competizione andò avanti, alimentata oltremodo dalle leggi che incentivarono l’industrializzazione delle aree depresse del Paese – soprattutto al sud e nelle isole: siti industriali che non avevano alcun senso economico e logistico sorsero come funghi, mentre gli operatori rimanevano comunque troppo piccoli. La crisi economica degli anni ’70 mandò tutto in frantumi. Società private che avevano beneficiato di copiosi finanziamenti pubblici – come la Sir di Nino Rovelli o la Liquigas di Raffaele Ursini – andarono a gambe all’aria, insieme a società più piccole. Per ovviare al disastro occupazionale, fu imposto all’Eni – allora ente di stato – di incorporare i siti petrolchimici delle società fallite (mentre i loro proprietari, finiti in guai giudiziari, fuggivano all’estero con un cospicuo bottino). Molti dei siti petrolchimici ancora in capo all’Eni sono l’eredità di quell’imposizione di stato, cui sono legati anche gli oneri di danno ambientale e risanamento che ancora oggi gravano sull’Eni stessa. Tra gli anni ’80 e i primi anni ’90, poi, si ebbero altre operazioni insensate – culminate nella disastrosa fusione tra Eni e Montedison da cui nacque Enimont, la “madre di tutte le tangenti” dell’era Tangentopoli. L’impatto economico di quelle operazioni fu devastante, tanto da rischiare di far deragliare l’intera Eni agli inizi degli anni ’90.

IL MOSTRO. Non si può prescindere da questa storia di lacrime e sangue per valutare il successivo atteggiamento dell’Eni post-Tangentopoli nei confronti della chimica. Per quanto vi fossero dei gioielli che meritavano attenzione, l’impulso immediato di chi aveva attraversato tutte quelle vicende fu di disfarsi dei tanti pezzi senza andar troppo per il sottile – anche perché la chimica rimaneva oggetto di continue interferenze politiche, rappresentando un bacino di voti e di affari sul territorio (cosa che, per esempio, non valeva per gas e petrolio). In breve, la chimica divenne una sorta di “mostro” da confinare in un angolo remoto come un malato da accompagnare a lungo in una lenta eutanasia. Negli stessi anni, d’altra parte, l’Eni cominciò a volare, macinando utili crescenti e perfino impressionanti fino alla prima metà degli anni 2000 – quando il greggio stava a livelli di poco superiori a quelli di oggi: nel 2005, con un prezzo medio del greggio di 54 dollari a barile l’utile netto dell’Eni fu di 8.8 miliardi di dollari – un record ineguagliato rispetto al valore del greggio. Nel frattempo, però, l’ordalia della chimica Eni continuò, con vendite continue di altri pezzi, perdite sanguinose, massicce ondate di tagli dei costi e razionalizzazioni. Parlare di grande chimica italiana in riferimento a quella dell’Eni, pertanto, è fuori luogo. Eppure, sebbene offuscata dai tanti problemi di siti petrolchimici critici (ritornerò su questo tema), essa ha mantenuto la co-leadership mondiale nelle tecnologie per gli elastomeri (gomme sintetiche) e gli stirenici (una delle maggiori categorie di plastiche), ricercatori e manager di eccellente livello, lavoratori tra i più competenti, dediti e appassionati che l’industria italiana conosca. Avendo ben presente la realtà con le sue tante ombre, è da queste luci che bisogna ripartire se si vuole pensare ancora a costruire una chimica italiana grande e di successo.

IL RUOLO DELLA CHIMICA. Al di là dell’information technology, tutti i più grandi cambiamenti nelle economie avanzate riguardano settori (dai nuovi materiali all’energia, dalle biotecnologie all’ambiente, e via dicendo) che hanno in comune l’incrocio tra chimica, fisica e ingegneria – un intreccio che è tipico della grande industria chimica. Da questo intreccio deriva una possibilità infinita di fertilizzazioni incrociate: sovente, studiando molecole per un certo uso, se ne scoprono altre per impieghi che non si erano nemmeno immaginati, e si aprono campi completamente nuovi di applicazione industriale. In teoria, questo è possibile anche per gruppi di ricerca indipendenti o piccole e medie imprese italiane, che nel tempo hanno dimostrato eccellenza nell’innovazione. Il loro problema è come finanziare e sviluppare le fasi successive all’invenzione uscita dal laboratorio.

PICCOLO NON È BELLO. Il primo ostacolo si presenta già al momento di coprire con brevetti internazionali l’invenzione che, per molti, presenta già costi insormontabili. Le difficoltà aumentano esponenzialmente nel momento in cui l’invenzione deve essere testata su un progetto pilota – un piccolo impianto il cui costo può raggiungere qualche decina di milioni di euro. Gran parte delle piccole imprese italiane è costretta a arrendersi. Infine, se il progetto pilota supera l’esame, è necessario passare alla prima applicazione su scala industriale, che può comportare investimenti anche dell’ordine di molte decine o di qualche centinaio di milioni. Questo percorso accidentato può spianarsi quando il “piccolo” può contare su un grande partner industriale, con cui abbia facilità di relazione e sintonia culturale: il primo diventa il volano del secondo, magari tramite un’alleanza in forma di joint venture. Per questo nel mondo anglosassone i grandi gruppi industriali vengono considerati uno dei “pilastri” dello sviluppo tecnologico di un sistema paese, sia che facciano ricerca in proprio o fertilizzino quella di terzi. Questo stesso modello fu sperimentato, con straordinario successo, negli anni gloriosi della Montecatini. Le tante invenzioni rivoluzionarie di Fauser furono sviluppate attraverso una joint venture tra la piccola società creata da Fauser stesso – che aveva pochi mezzi – e la Montecatini, guidata allora dal genio di Guido Donegani, che fornì a Fauser risorse finanziarie e quant’altro necessario per il successo finale. Per tutte queste ragioni, penso che una grande industria chimica italiana potrebbe fornire un contributo importantissimo allo sviluppo economico e industriale futuro del nostro Paese. Ma il percorso non è facile.

L’EUROPA AI MARGINI. La chimica sta vivendo una rivoluzione che lascia l’Europa ai margini. Da un lato, Stati Uniti e Golfo Persico, avvantaggiati dalla disponibilità di materia prima a basso costo, stanno costruendo impianti di grande scala che aumenteranno l’offerta di prodotti nei prossimi anni – col rischio di esportazioni a basso costo che potrebbero abbattersi anche sull’Europa. Lo stesso avviene in Asia, e soprattutto in Cina – in questo caso, per far fronte a una domanda interna che cresce in modo rigoglioso e necessita comunque di importazioni. La speranza dei produttori europei è che l’export americano e mediorientale si indirizzi verso l’Asia senza compromettere la già minor competitività di gran parte della petrolchimica europea – che non dispone di materia prima in loco né di una forte domanda interna. La situazione dell’Italia è ancora peggiore.

I SITI ITALIANI. Molti siti petrolchimici italiani – a partire da quelli dell’Eni – sono piccoli e non integrati con quelli di raffinazione; talvolta la logistica è pessima. Alcuni aspetti assurdi della nostra legislazione, in gran parte derivanti da inaccettabili oneri di sistema, rendono i costi dell’energia (una delle componenti più importanti dei costi di produzione) i più alti d’Europa. Le normative ambientali sono così severe e onerose (per chi intende rispettarle) da rendere impossibile un risanamento di aree inquinate simile a quello realizzato dalla Germania nel bacino della Ruhr – che Berlino vanta sempre come esempio da seguire. Lo stesso apparato normativo italiano rende arduo realizzare investimenti in tempi accettabili anche all’interno di siti industriali già esistenti: troppe autorità (nazionali, regionali, locali) si sovrappongono con poteri di autorizzazione o di veto. Cito sempre un esempio: nell’anno e poco più in cui fui a capo della petrolchimica Eni mi venne presentata una lista di ben 51 (!) autorizzazioni necessarie per sostituire una piccola centrale elettrica (delle dimensioni di due roulotte) in un sito di interesse nazionale; se tutto fosse andato bene, sarebbero occorsi tre anni e mezzo per averla in funzione.

COME RICOSTRUIRE. Per tutte queste ragioni, occorre grande realismo nel pensare al futuro della chimica italiana, evitando improvvisazioni e – soprattutto – pericolosi voli di Icaro. Eppure un futuro di successo è possibile, lavorando su tre pilastri. Il primo, naturalmente, è costituito dalla ricerca e dallo sviluppo tecnologico – che già a breve, ma soprattutto a medio-lungo termine, possono rivitalizzare completamente la chimica. Si tratta però di indirizzare bene la ricerca, di collegarla alle necessità del mondo che cambia rifuggendo dallo slogan sterile per cui la ricerca è sempre utile. Il secondo pilastro, che è parte del primo, è la chimica verde, potenzialmente capace di garantire all’Italia una leadership internazionale, essendo ancora un settore di nicchia con molti concorrenti ma senza protagonisti già definiti. Anche in questo caso, però, attenzione ai facili slogan e a entusiasmi ingiustificati: parliamo di un futuro a medio-lungo termine. E’ bene ricordare, infatti, che occorrono almeno 5 anni per passare da un’idea a una realizzazione industriale. Se tutto va bene, pertanto, una solida transizione verso la chimica verde richiede almeno un decennio, forse più: come tutte le nuove frontiere, infatti, la chimica verde sembra avere a portata di mano cose che non lo sono, e purtroppo vengono spesso sbandierate come possibili già oggi da chi poco comprende di processi chimici o di evoluzione dei mercati. Gettarsi a capofitto in queste vere e proprie trappole significherebbe bruciare risorse per la ricerca e per investimenti che meritino davvero d’essere effettuati.

IL FUTURO. La costruzione del futuro fondata sui due pilastri che ho appena sintetizzato, tuttavia, passa inevitabilmente dal puntellare e mettere in sicurezza un terzo pilastro – che sorregge anche i precedenti. È quello che presenta le maggiori difficoltà, essendo costituito dai siti petrolchimici esistenti, con i loro problemi e le loro opportunità: senza gestirli al meglio, senza fare tutto ciò che è necessario per renderli più competitivi nell’ambito del possibile – magari con sviluppi e riconversioni mirate in modo chirurgico, ove conveniente – tutto il sistema che ho prefigurato imploderebbe, perché le perdite della chimica tradizionale toglierebbero ogni possibilità di sviluppo alla ricerca, alla tecnologia e alla chimica verde. Pensare di ricostruire una chimica italiana di grande valore mondiale partendo da quello che rimane oggi nell’Eni è quindi difficile, ma possibile. Per farlo, però, occorrono conoscenza adeguata delle specificità spesso assai singolari del sistema italiano e visione strategica globale, fede nell’innovazione continua, grande conoscenza di processi e impianti industriali complessi. Occorrono, soprattutto, una passione e un’anima imprenditoriali già declinati in un record comprovato di salvataggi quasi impossibili di realtà industriali che sembravano prossime al capolinea. La porta è strettissima, ma credo (e ho sentore) che ci siano ancora soggetti nazionali in grado di gettarsi in questa missione. Viceversa, tendo a pensare che essa rappresenti una proposizione impossibile per un piccolo fondo semisconosciuto, con pochissime persone e mezzi finanziari, senza una tradizione di grandi e importanti operazioni industriali alle spalle. Qualunque sia la sua nazionalità.

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