Significativamente Oltre

Cina

La seconda fase dello sviluppo cinese offre nuove opportunità per l’Italia (nella Sanità)

 

 La sanità, ultimo treno per l’Italia verso la Cina

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 08 febbraio 2014

È ormai un luogo comune parlare con preoccupazione del rallentamento della crescita cinese. Anche qui a Pechino si scrive con un certo allarmismo che l’aumento dello scorso anno è stato il più basso dal 1990 e che peggiorerà ancora nell’anno in corso. Quando tuttavia analizziamo a fondo i dati statistici, vediamo che la crescita è stata nel 2014 del 7,4% e che, nell’anno in corso si manterrà al di sopra del 7%, anche secondo le più pessimistiche previsioni. Per un paese che ha raggiunto un livello di reddito abbastanza elevato questi dati valgono più della crescita a due cifre che ha accompagnato la prima fase dello sviluppo cinese.

Le preoccupazioni non possono perciò nascere dal tasso di crescita del PIL che, nonostante il suo rallentamento, fa invidia a tutti, ma dalle decisioni politiche che il paese deve affrontare nel prossimo futuro per proseguire a correre a ritmo sostenuto e completare quindi il processo di modernizzazione iniziato quasi quarant’anni fa.

Il governo cinese si è recentemente imposto il compito di cambiare quello che noi definiamo un “modello di sviluppo” fondato sugli investimenti e sulle esportazioni, per passare ad una crescita più equilibrata, con un aumento dei consumi e del ruolo del mercato interno.

L’inizio di questa nuova strategia ha comportato una politica monetaria più prudente e un controllo di una “bolla immobiliare” che rischiava di fare salire al cielo il tasso di inflazione. Il governo ha perciò dovuto mettere mano al freno.

Il crollo del prezzo del petrolio e delle materie prime, delle quali la Cina è il massimo importatore, ha reso più facile questo riequilibrio dell’economia e, nello stesso tempo, ha provocato un progressivo rallentamento dell’aumento dei prezzi. L’inflazione è oggi al livello minimo da molti anni, per cui sono oggi possibili gli stimoli all’economia che fino a poche settimane fa rischiavano di innestare un processo inflazionistico.

Anche se può sembrare strano, un ulteriore elemento ha influito sulla minore crescita degli ultimi mesi: la lotta contro la corruzione, iniziata in grande stile dal presidente Xi. Una lotta che ha portato ad una diminuzione degli acquisti di un’ampia gamma di beni di lusso che costituivano uno dei rifugi più praticati dei proventi della corruzione.

Una lotta contro la corruzione che non solo esercita i suoi effetti nelle boutique dei beni di pregio ma che è l’oggetto principale delle conversazioni di Pechino, perché ha già portato veri e propri sconvolgimenti nelle cariche dello stato, nell’alta burocrazia e nel potente ambiente dei dirigenti delle imprese pubbliche. Una guerra fondata sulla convinzione che la corruzione era così diffusa da divenire un impedimento per lo stesso sviluppo economico della Cina. Una guerra, tuttavia, che può essere definitivamente vinta solo attraverso una maggiore indipendenza della magistratura dal potere politico. Un obiettivo solennemente annunciato dal Presidente Xi ma che si presenta ancora di difficile attuazione.

Dato per condiviso il fatto che la nuova fase di crescita non può consolidarsi senza un aumento dei consumi interni, è anche diventata dottrina comune che, senza un miglioramento della protezione pensionistica e sanitaria, i cittadini cinesi saranno ancora obbligati a risparmiare e non a spendere.

Si aprono quindi, almeno in teoria, nuove forme di possibili collaborazioni con noi europei, dato che il sistema sanitario americano, che fino ad ora è stato ed è ancora il principale se non esclusivo punto di riferimento dei cinesi, è intollerabilmente costoso, pur non offrendo una copertura universale, che è invece il fondamento dei migliori sistemi sanitari europei.

Se vogliamo fare un confronto che tocca direttamente il nostro paese dobbiamo ancora una volta ricordare che, nonostante tutti i rilievi che si possono compiere, il costo della sanità italiana è tra i più bassi d’Europa (spendiamo infatti tra il 7 e l’8% del nostro PIL) e noi italiani viviamo in media quasi quattro anni di più degli americani che spendono invece intorno al 17-18%.

Ebbene in questi giorni è in visita ufficiale a Pechino il primo ministro francese Valls e leggiamo che, nel contorno di questa visita, si è intensamente parlato di una strategia di cooperazione fra il sistema sanitario francese e quello cinese.

In Cina, per la debolezza delle nostre strutture, abbiamo lasciato agli altri ( cominciando dai nostri amici francesi) l’organizzazione delle moderne catene distributive. Non siamo ovviamente presenti nelle strutture alberghiere dove americani, asiatici e altri europei fanno da padroni e siamo quasi assenti dalle organizzazioni professionali e di consulenza che raggiungono ormai fatturati astronomici. Mentre cioè le nuove realtà, a partire da quella cinese, fondano la seconda fase del loro sviluppo sui servizi, noi praticamente non esistiamo, anche se i più alti profitti si realizzano soprattutto nel settore terziario. Non vedo tuttavia perché l’Italia non cerchi di recuperare parte del terreno perduto almeno nei campi, come quello sanitario, nei quali vi è ancora spazio per una nostra presenza. Non si tratta solo di prestigio (anche se il settore sanitario contribuisce tanto all’immagine di un paese) ma di una realtà che mobilita enormi ricadute economiche.

Certo tutte le nostre regioni (che hanno la competenza in materia sanitaria) hanno una dimensione nettamente inferiore a quella di una qualsiasi metropoli cinese, ma si dovrà pure trovare il modo di essere presenti con l’intero pese nei settori nei quali si può entrare solo se si opera in modo efficiente, integrato e capace di dialogare in modo paritario con le strutture pubbliche cinesi.

Operando in modo disperso e senza un sistema distributivo alle spalle abbiamo fino ad ora perso anche la gara del mercato del vino. La nostra insufficiente presenza in Cina è soprattutto affidata ad alcune medie imprese specializzate nella loro nicchia di mercato. Pur nei limiti della loro dimensione queste imprese stanno facendo grandi cose. È tuttavia ora di affrontare anche le sfide nelle quali si deve impegnare l’intero paese. La sanità, pur con infinite difficoltà, è ancora una sfida alla nostra portata.

Quello che abbiamo visto a Pechino

C’è molta simpatia verso il Belpaese e una conoscenza dettagliata del nostro sistema di piccole e medie imprese volta al miglioramento delle imprese cinesi. Matteo Orfini e Enzo Amendola – Europa

dragone cinese  gold-dragon
La delegazione del Pd ha avuto la possibilità di interloquire con dirigenti del Pcc proprio nelle ore della chiusura del plenum. C’è molta simpatia verso il Belpaese e una conoscenza dettagliata del nostro sistema di piccole e medie imprese volta al miglioramento delle imprese cinesi.
La frenata dell’economia cinese, rispetto alla prevista crescita del 7,5% del Pil, non è una notizia che fa discutere solo la classe dirigente di Pechino ma muove i destini delle principali piazze mondiali a partire da Wall Street, dove nessuno si sorprende per l’interdipendenza strettissima con le mosse dell’Impero di Mezzo. Per questo, tutti i riflettori erano puntati nei giorni scorsi sul quarto plenum del comitato centrale del Partito comunista cinese. Con una delegazione del Pd abbiamo avuto la possibilità di interloquire con dirigenti del Pcc proprio nelle ore della chiusura del plenum.
A sorpresa è stato diramato il comunicato ufficiale dal conclave segreto e la dichiarazione finale, più che sulla contingenza economica, si è concentrata sullo stato di diritto e la funzionalità delle istituzioni. Tradotto, la lotta alla corruzione dilagante ai livelli locali dove la commistione tra potere politico e organi di controllo, ovviamente non autonomi, ha fatto scoppiare una “bolla corruttiva” preoccupante per i vertici del partito. Sul tema aveva avuto gran eco il processo di Bo Xilai, proprio all’inizio della presidenza di Xi Jinping, che molti osservatori avevano letto come frutto di una conta interna, tra le diverse correnti del partito, portata avanti con altri mezzi.
In tutti i casi la corruzione, combattuta oggi anche con “tribunali mobili” di secondo grado, è un tema di conversazione con i visitatori stranieri; una novità interessante per una classe dirigente che vuole portare la Cina al vertice dell’economia mondiale, non accontentandosi più di avere il marchio di “fabbrica del mondo” o semplice prestatore di liquidità ma gelosa, agli occhi esterni, dei suoi meccanismi di funzionamento politico.
Ad una prima lettura ci si chiede se magari la tendenza è verso la divisione dei poteri, esecutivo e giudiziario nel caso, tipico delle democrazie liberali. Tuttavia appare piuttosto una manovra di contenimento decisa dal comitato permanente dell’ufficio politico, i 7 uomini più potenti della Cina, verso i suoi 83 milioni di iscritti per debellare un virus, commistione tra governo e affari, che mina l’ascesa impetuosa della Cina. Tutto in linea con le scelte dei precedenti plenum e della strategia di “riforme e apertura” che non prevede ancora di intaccare il monopartitismo.
Questo scenario scontenta chi si accosta alle vicende del colosso asiatico con il paradigma che alle libertà economiche diffuse seguano rapidamente riforme istituzionali. Infatti le scelte e l’agenda della politica locale hanno una narrativa chiara negli incontri, dal ministero degli esteri al Politburo del Pcc, senza diplomatismi di maniera, ma legata a visioni pragmatiche di chi sta tentando di portare a stabile profitto la rivoluzione avviata da Deng a fine anni ’70. In questa stagione, sotto la guida di Xi Jinping, la priorità è uno “sviluppo di qualità”, sostenibile nella dimensione sociale ed ambientale, con consumi interni sostenuti e non più basato su una manifattura di bassa qualità tecnologica e bassi salari. Impetuosi sono stati gli investimenti esteri finalizzati anche ad una crescita di competenze nel mondo della produzione per innervare l’industria cinese di un know-how tecnologico spesso poco competitivo.
«Siamo fieri del rapporto con l’Italia, dello scambio di visite tra Renzi e il nostro primo ministro Li Keqiang, che ha portato accordi per 10 miliardi di dollari» ci dice Ren Hongbin all’Accademia del ministero del commercio. Un dato impressionante non solo per la simpatia verso il Belpaese, salito rapidamente ai vertici dei partner cinesi per investimenti, ma per la conoscenza dettagliata del nostro sistema di piccole e medie imprese volta al miglioramento delle imprese cinesi. Una analisi che certamente farebbe rabbrividire i protezionisti di casa nostra ma entusiasmerebbe un ascoltatore non intimorito dalla chiosa di Hongbin «nel nostro interscambio quello che vorremmo far crescere è la ricerca, adesso troppo bassa, puntando su università e centri di eccellenza».
Infatti la Cina non raffredda i suoi livelli di produzione interna, stabilizzando il Pil dal 9% del passato al 7,5% previsionale, per un calcolo pessimistico o perché stretta tra la paura per la possibile bolla immobiliare, figlia di una urbanizzazione scriteriata, e una corruzione che corrode le leve del potere locale.
Piuttosto il timore è quello di aver toccato i vertici dell’economia mondiale con uno sviluppo carente di coesione sociale e arretrato dal punto di vista del valore aggiunto rispetto al suo principale rivale ed alleato economico di oltrepacifico, proprio adesso che è partita la guerra commerciale globale.
Non a caso, proprio sul grande scacchiere delle rotte dello scambio, la Cina pianifica una “via della seta del Ventunesimo secolo” per via marittima, toccando tutti i continenti,  sorretta da un nuovo canale per solcare gli oceani da costruire in Nicaragua, competitivo rispetto al raddoppio del canale di Panama.
Gli Usa inseguono la supremazia commerciale nel Pacifico con il Tpp (Transpacific partnership agreement) per unire 800 milioni di persone, escludendo la Cina, e nell’Atlantico con il Ttip (Transatlantic trade and investment partnership) per legare Usa e Ue. Dietro queste scelte si staglia il blocco operativo del Wto, il neoprotezionismo dei Brics e la ripresa necessaria, per aggirare lo stallo, di accordi bilaterali o multilaterali collegati da geostrategie comuni. Anche la Cina non si fa trovare impreparata sul punto, e mentre ha aperto a 100 sui 167 settori di servizio richiesti dal Wto, ha siglato più di 20 trattati bilaterali di commercio.
A tutto ciò si aggiunge la sfida moderna per la supremazia nel Pacifico al di là delle rotte commerciali, che si muove su nuove linee di scontro geopolitico ben più pericolose. Le tensioni sono cresciute visto l’attivismo cinese nel mare continentale scuotendo i paesi limitrofi con dispute sulle acque territoriali e la ricerca di materie prime off shore. La reazione Usa non si è fatta attendere frutto della tradizionale politica di protettorato verso i paesi minacciati dall’egemonismo cinese. In fin dei conti, se dal punto di vista economico tra gli Usa, con la sua teoria del “pivot to Asia”, e la Cina, con la sua “via della seta”, una convivenza è necessaria, al contempo è ipotizzabile che sul terreno delle alleanze militari si possa sviluppare la “cool war” di cui parla Noah Feldman.
Infatti le relazioni e gli scambi di merce e liquidità hanno saldato in un destino comune i due giganti, che sul piano della libertà del capitalismo non vivono il muro e le distanze tipiche della vecchia “cold war”. La partnership competitiva è nei fondamenti della loro relazioni poiché la Cina da magazzino della produzione del mondo si è trasformata in prestatore di risorse Usa sviluppando una coesistenza economica evidente tra le prime due economie del globo. Ma i rischi da “guerra fresca” sono piuttosto su altri versanti geopolitici dove la convivenza tra le due ambizioni possono irrigidire le distanze tra Washington e Pechino su faglie conflittuali, a partire da quella più esplosiva che è Taiwan.
In questo contesto si intuisce la determinazione verso la nostra insistenza, con i vertici del ministero degli esteri e del dipartimento esteri del Pcc, sul tema Hong Kong. «Interferenze esterne» oppure «quando Hong Kong era inglese non si tenevano elezioni», sono le risposte di forma che non spiegano il fenomeno di protesta giovanile nell’importante autonomo centro finanziario sotto bandiera cinese. La sfida di Hong Kong è paradigmatica e mette in discussione la tenuta dell’assetto “due sistemi-uno stato”, schema istituzionale che la Cina vorrebbe consolidare se non esportare ad altri stati satellite; un modello che se esplodesse nella ex colonia britannica avrebbe conseguenze più complicate per l’aspirazione da grande potenza.
Ma per sfatare i pessimismi su una convivenza tra le due superpotenze un ruolo lo potrà avere sicuramente l’Europa unita che non si rinchiude solo nei benefici dell’interscambio commerciale. Il modello di integrazione europeo, paradossalmente oggi in crisi tra i 28, è molto apprezzato a Pechino, analizzato nei suoi fondamenti storici, esaltato poiché si è realizzato con l’aumento graduale di scambi economici e la parallela integrazione di istituzioni giuridiche che hanno allontanato i rischi di guerra. Un antidoto ad un multilateralismo troppo debole dinanzi ai nuovi rischi globali.
Fonte: Europa

“Win-win situation” per la Cina con l’Europa

scelta di Alberto Forchielli (su Piano Inclinato)

Sappiamo che nella globalizzazione è sbiadito il rigore dell’ideologia, la certezza dell’identità. Il fenomeno ci costringe a una trattativa perenne, dove la forza deve coniugarsi con la capacità di gestione. Quest’ultima è carente sia per l’Europa che per la Cina. Bruxelles è dilaniata da divisioni interne che ne riducono impatto ed efficacia; Pechino è tradizionalmente abituata a negoziare con la sola leva della forza: mostrata, subìta o messa in atto. La recente missione del presidente Xi Jin Ping in Europa ha messo chiaramente in luce questa impasse. Gli accordi commerciali – soprattutto con Germania e Francia – sono stati copiosi e di grande portata.

Non poteva che essere così: Pechino ha bisogno di qualità, l’Europa vuole in cambio valuta, reddito e occupazione. Tuttavia Pechino ambisce a molto di più: un rapporto politico di neutralità imperniata sugli affari, se non proprio di amicizia. Nella piatta scacchiera della globalizzazione, l’Europa può in parte compensare l’ambivalenza delle relazioni con gli Stati Uniti. I rapporti tra Pechino e Washington sono in una fase dove prevalgono le tensioni invece che gli accordi; la Cina è ora più uno strategic competitor piuttosto che uno strategic partner. Per il Dragone le relazioni con l’Europa sviluppata, aperta, prospera ma stagnante sono un eccellente banco di prova per dimostrare l’abilità della sua nuova diplomazia. Erano tre i cardini di una possibile intesa: la rimozione dell’embargo militare, la disponibilità a fornire tecnologia, il riconoscimento dello status di economia di mercato a Pechino.

Questi obiettivi sembrano ora insufficienti e potrebbero squagliarsi in un più vasto accordo commerciale e politico, un vero e proprio Free Trade Agreement. La Cina ne trarrebbe grandi vantaggi: accesso completo ai mercati ricchi, disponibilità di nuove capacità produttive, possibilità di acquisire asset importanti in economie in crisi. Inoltre, motivo forse più importante, troverebbe un partner aggiuntivo e forse concorrenziale agli Stati Uniti. Esistono dunque tutte le premesse per insistere sull’accordo da parte cinese. Tuttavia, all’altra estremità dell’Eurasia, trova un interlocutore instabile, diviso, impotente e forse inesistente. Kissinger si chiedeva chi doveva chiamare per parlare con l’Europa; Pechino si interroga su chi potrebbe rispondere. Nel dubbio, privilegia Berlino a Bruxelles, almeno in Germania si concludono gli affari. Nel frattempo la Commissione Europea dimostra la propria inconsistenza. Tutte le sue minacce a Pechino sono rientrate, l’Europa dei diritti è sacrificata a quella delle merci, si discute sulle parole prima ancora che sui valori, da veri burocrati. Barroso e Van Rompuy sono stati chiarissimi dopo il colloquio con Xi: “L’Europa è d’accordo di procedere verso un trattato (di FTA) nel medio termine. Noi preferiamo andare avanti inizialmente con un accordo sugli investimenti (BIT)”.

Contemporaneamente nell’Eurozona la crisi incalza, la disoccupazione è drammatica, si sente fortissima la necessità di un’iniziativa politica. Aumentano pericolosamente le posizioni anti-euro, il risentimento verso Bruxelles, il rimpianto per le monete nazionali e l’ostracismo alla Cina. Queste posizioni sono retrograde, ma Bruxelles non fa nulla per evitarle. Dovrebbe gestire una situazione complessa; è invece prigioniera delle proprie debolezze: veti incrociati, mancanza di una visione lungimirante, assenza di leader adeguati. Gestire un trattato con la Cina richiede impegno, competenza, condivisione degli obiettivi. Si tratta di dialogare senza svendere il patrimonio ideale e materiale che l’Europa ha accumulato in decenni di prosperità e democrazia. Tutto è invece lasciato alla forza di Pechino rispetto alle necessità spesso egoiste dei singoli stati. Se il bilateralismo con la Commissione arranca, inevitabilmente prevale quello con le Cancellerie del vecchio continente. Alla Commissione Europea non rimane che ripiegarsi e perpetuare l’agonia dei comunicati. Vi abbondano espressioni infruttuose e ripetitive: collaborazione, dialogo, win-win situation, una partita dove se non si negozia con acume sarà la Cina a vincere due volte, anche se è ancora più probabile che le divisioni interne tra i paesi europei creino un invisibile muro di nulla di fatto.

La chiave

new_yorkdi Michele Mezza da New York

Vi propongo una riflessione a meta’ viaggio a New York.

La sensazione e’ che proprio New York, ossia l’osservatorio piu’ avanzato e prefigurante dell’occidente, ci faccia intendere oggi che siamo all’entrata di una curva da cui non si capisce come e dove usciremo.

La citta’ e’ indubitabilmente in movimento. La crisi e’ alle spalle, ma non si produce un nuovo sapere sul futuro.

Qualcosa sta incubando, lontano, e new York ne riporta l’eco, ma non ne e’ piu’  la fornace. Ovviamente le mie sono percezioni epidermiche di un turista. Ma ormai conosco abbastanza Manhattan per cogliere  la tendenza.

L’Europa e’ ferma, vista da qui. I giornali e le Tv snobbano completamente il vecchio continente. Non si attendono ne sorprese ne conferme, solo sbadigli. Il centro dell’attenzione degli americani, ormai è sempre piu’ la Cina.

Nel bene, come fondamentale varabile dei nuovi equilibri geo politici, e nel male, come minaccia imprevedibile di una coesistenza non condivisa.

Da giorni i media battono la gran cassa su due temi: la minaccia alla sicurezza che viene dagli hacker, che in America vuol dire dalla Cina; e , contemporaneamente, l’auspicio – certezza che la nuova leadership di Xi Jiinping possa avviare il paese verso una forma inedita, ma chiara, di liberalizzazione dei diritti individuali.

Nel frattempo la pancia del paese sta digerendo la crisi, e rielaborando una nuova strategia: autonomia energetica, con fracking e fotovoltaico; riportare a casa i centri servizi; rilanciare al primato nel sapere. Sono i tre binari su cui l’America, tutta l’America, destra e sinistra, repubblicani e democratici, stanno ritrovando una medesima vision.

Rimane in sospeso il conflitto sul modello di welfare. Ma anche li’ si cercano nuove strade: il debito pubblico e’ considerato un’emergenza temporanea. Su tutti questi temi: geo politica, energia, welfare, diritti, l’America si trova sola in occidente.

Per la prima volta la vecchia zia europea non ha niente da dire. Io credo che questo sia il buco nero in cui rischiamo di cadere, inseguendo le chiacchere e le minacce di Berlusconi.

Parliamo di IMU e Bunga Bunga e ignoriamo che da anni non produciamo piu’ sapere ne teoria politica. Il mondo cambia, si complica, si torce in un nuovo processo sociale che noi ci ostiniamo a chiamare crisi e che invece e’ il nuovo modo di vivere di un pianeta dove nei prossimi 8 anni almeno 3 miliardi di persone si comporteranno da middle class.

Da qui dobbiamo partire: consumare meno per consumare meglio in molti. Chi saranno quei molti? chi decidera’ le gerarchie? cosa faranno gli esclusi? Gli americani vogliono mantenere le chiavi del nuovi equilibrio.

Sanno che i cinesi  invece pensano di poter decidere da soli. Gli europei non sanno nemmeno dov’e’ la serratura.

E gli italiani pensano che la chiave sia solo un film di Tinto Brass

Le lezioni su La7 di Romano Prodi: istruzioni per l’uso

Pubblichiamo con piacere questo ottimo articolo di Alessandro che ci spiega perchè il Professore – che è stato nei fatti il motore della nascita di Innovatori Europei nel 2006/7  – ha tanto da dare e da dire nel 2011 ad un’Italia carente di visione politica (e credibilità) internazionale.
 
 

prodi

E’ giunto il momento di aggiornare, brevemente, la parte dello Spazio della Politica dedicata alla “prodologia”, la disciplina che si occupa dello studio di Romano Prodi. Ne abbiamo parlato già a fine 2009, in un articolo in cui notavamo il suo attivismo nei rapporti internazionali e in particolare con la Cina, e a fine 2010 ne “L’eterno ritorno di Romano Prodi”, abbiamo esposto un punto di vista volutamente provocatorio sulla forza della sua leadership rispetto al resto del panorama politico-economico del Paese. Proprio in questi giorni, alla notizia della presenza televisiva di Prodi si è affiancata quella dell’uscita di un nuovo libretto, dal titolo “Futuro cercasi”. La dignità scientifica della prodologia può essere messa in discussione: perché Prodi? Perché ancora lui? Non è vecchio? Perché dobbiamo essere governati da Prodi e non da tanti Massimo Zedda?

A partire da questi presupposti, è interessante chiederci di che cosa parlerà Prodi nelle sue già celebrate lezioni su La7 e, soprattutto, perché è importante occuparcene, mantenendo un’attenzione sui temi, ancor più che sulla sua “campagna” per la presidenza della Repubblica. Ecco quindi un piccolo riassunto apocrifo dei suoi corsi.

1. Il mondo visto dalla Cina. Gli scritti sul Messaggero e  le conferenze degli ultimi anni (in gran parte consultabili qui) testimoniano un fatto: Prodi si è rimesso a studiare. I suoi studi si concentrano proprio su quella idea ambiziosa di “formazione globale” di cui tante volte su Lo Spazio della Politica abbiamo cercato di seguire le tracce. Perciò Prodi cercherà di raccontare ai suoi ascoltatori-studenti i cambiamenti e le contraddizioni del mondo, dalle opportunità e i rischi per l’Africa alla Cina, su cui come sappiamo Prodi ha accumulato un notevole capitale di conoscenza e di relazioni. Prodi cercherà di raccontare la Cina agli italiani attraverso piccole immagini efficaci per i cittadini e per le imprese, come questa di Wenzhou. Spiegherà che non dobbiamo avere paura di una “spartizione cinese dell’Europa”, ma dobbiamo pensare piuttosto a un “rinascimento cinese”, riprendendo la visione del suo collega alla CEIBS David Gosset, direttore dell’Academia Sinica Europea, nell’ultimo volume del rapporto Nomos & Khaos. L’attualità e la sua storia personale imporranno a Prodi una particolare attenzione per l’Europa: sugli squilibri attuali, sulle incertezze dell’ultimo decennio, sulle responsabilità della sua classe dirigente.

2. Il “capitalismo senza volto”. La raccolta di scritti pubblicata dal Mulino nel 1995 nella collana “Tendenze”, e intitolata “Il capitalismo ben temperato”, si apre con lo scritto del 1991 “Esiste un posto per l’Italia tra i due capitalismi?”. In esso Prodi si inserisce sul dibattito in corso sulle varietà dei capitalismi (richiama spesso che i suoi lavori risalgono allo stesso periodo di quelli di M. Albert), affrontando alcuni nodi irrisolti del caso italiano, quello appunto del “capitalismo senza volto”. Tra i saggi vi è anche un programmatico “La società istruita. Perché il futuro italiano si gioca in classe”. I temi affrontati dal Prodi studioso, e i nodi irrisolti del Prodi politico, saranno ripresi in un contesto, con la ripresa di una discussione sulle politiche industriali, che non può non considerare l’apporto dell’economia digitale. E ormai, quanti capitalismi esistono? Come abbiamo scritto in passato, il puzzle si è complicato. Mentre gli economisti si dividono, dobbiamo aggiungere il capitalismo brasiliano, il capitalismo turco e molti altri a una visione troppo ristretta. E Prodi aggiungerà: “Non pensate mica di poter dire ai cinesi che sono “renani”, perché si sentono piuttosto del “delta del fiume delle perle” o di quelle robe lì…”. Mentre si delibera sul modello perfetto o sui modelli meno imperfetti, sarà pur vero che qualcuno dovrà lavorare, competere, dare da mangiare ai propri figli, abbattere o accrescere il debito pubblico, portare rubinetti italiani in Estremo Oriente passando per Suez. Questo modo di ragionare resta prezioso: o ci appassioneremo alla realtà dell’Italia o non ce la caveremo affatto. In questo, Prodi può comunicare a una vasta platea la sua eredità fondamentale, che è stata colta una volta per tutte da Edmondo Berselli con queste parole:

Piuttosto che occuparsi dell’ultima impalpabile variazione della teoria sraffiana del valore, e della produzione di sofismi a mezzo di sofismi, valeva la pena di mettere sotto osservazione l’economia italiana nel suo aspetto fenomenologico. Ed ecco allora voluminose ricerche sull’industria delle calzature, sulla produzione di piastrelle del distretto ceramico di Sassuolo, sull’industrializzazione diffusa delle Marche, in sostanza sull’Italia osservata da vicino, e non fantastica o immaginaria.

3. Il futuro del welfare. Proprio Edmondo Berselli ha messo lo zampino anche nella terza grande questione di cui si occuperà Prodi: il futuro del welfare. Già durante la presentazione del libro postumo del suo amico, “L’economia giusta”, Prodi aveva sottolineato questo punto:

Ogni giorno viene tolto un pezzettino dello Stato sociale… Andiamo avanti in questa situazione di essere costretti ad arretrare nelle conquiste sociali o possiamo fare un salto in avanti tramite un discorso di solidarietà e riorganizzazione della nostra società? (…)

Nonostante la vorticosa crescita che dà un senso tutto opposto alla società cinese e indiana rispetto alla nostra, non di ritirata ma di grande avanzamento, però la differenza tra ricchi e poveri aumenta anche in queste società. (…)

È interessante, perché in tutte le analisi del mondo trovo in questo momento un solo Paese in cui per un periodo medio di un terzo di generazione la distanza è diminuita, ed è il Brasile. Questo in fondo social-liberal-mercat-cristianesimo che ha fatto Lula, in questa meravigliosa sintesi di una vita diversa da tutti gli altri, è uscito sconfitto in tre elezioni e a fare una sintesi di tutto. E a interpretare in modo notevole questi fatti. E riesce – in una situazione di sviluppo – eh eh, a non aumentare queste differenze che sono, come dice Edmondo, caratteristiche di una società puramente mercantile.

Riassunto delle puntate precedenti. Negli anni ’90, Bill Clinton, nella sua strada per i successi nell’abbattimento del debito pubblico degli Stati Uniti, ha affermato di voler chiudere la storia del “welfare come lo conosciamo”. Il punto è stato condiviso da Blair. Come sappiamo, nella spesa pubblica italiana le voci della pubblica amministrazione, della previdenza e della sanità hanno un peso determinante. Ma che cosa può esserci alla fine del welfare come lo conosciamo, concretamente? Se consideriamo la sua fine naturale, possono esserci gli effetti della crisi del debito europeo sulla lotta contro il cancro, che forniscono un’immagine del futuro possibile. Durante il congresso europeo di oncologia a Stoccolma, notevole attenzione è stata dedicata a uno studio sull’aumento dei costi delle cure, e un recente articolo pubblicato su “The Lancet Oncology” ha lanciato l’allarme della crisi del costi, in particolare nei Paesi che invecchiano. In Grecia, la Roche ha sospeso la fornitura di anti-tumorali ad alcuni ospedali greci fortemente indebitati.

Sintetizzando, la domanda “ci sarà una piazza Tahrir italiana in autunno?” (ne abbiamo parlato qui e qui) è ritenuta più interessante della domanda “ci saranno i soldi per i farmaci contro il cancro negli ospedali pubblici italiani in autunno?”. La seconda domanda è più farraginosa e parla di una cosa precisa: è prodiana. Ma parla di un futuro prossimo possibile dell’Europa e dell’Italia, e merita di essere considerata.

Come si vede da queste anticipazioni, con le lezioni di Prodi – magari la sua voce sonnecchiante, col bofonchiare imperturbabile in italo-bolognese, inglese o cinese, andrà intervallata da qualche servizio appassionante, chiedere per informazioni ad Al Jazeera e ai documentari di Niall Ferguson, astenersi CCTV – il nostro dibattito pubblico compirà qualche passo avanti. Gran parte del dibattito pubblico italiano, difatti, si avviluppa sul concetto di “informazione”. In realtà, seppur in un sistema televisivo anomalo, disponiamo di molta informazione. A volte ci manca la formazione. Per questo abbiamo ancora bisogno del vecchio Professore.

E adesso l’Italia agli ingegneri!

 di Massimo Preziuso (pubblicato su Lo Spazio della Politica)

Da giovane ingegnere mi è tornata alla mente una cosa che penso da tempo. Ovvero che, da quando in questo Paese il ruolo degli ingegneri è diventato sempre più marginale nelle imprese pubbliche e private, ma più in generale nella società, il Paese è pian piano diventato incapace di programmare ed attuare progetti ed investimenti di medio – lungo periodo. In questo senso, il caso della repentina e brusca approvazione da parte del governo del Decreto Rinnovabili è di scuola.

Qui si è visto all’opera l’approccio di una classe dirigente culturalmente indifferente alla programmazione, che non capisce che lo sviluppo di un Paese è semplicemente frutto del completamento di un insieme variegato di progetti e programmi possibilmente basati su tecnologie innovative, e che la realizzazione di questi richiede fondamentalmente il poter operare in scenari regolamentari il più possibile certi. Con la approvazione di un Decreto che vuole sostanzialmente annientare l’unica industria in crescita, in maniera anti ciclica, nel nostro paese – quella delle rinnovabili – risulta così ancora di più evidente l’assenza di un approccio manageriale – sistemico (proprio della cultura ingegneristica) allo sviluppo del Paese. Ed è per questo che l’Italia dei talenti imprenditoriali degli ingegneri Olivetti e Mattei è ormai un luogo lontano.

L’assenza dell’ingegnere dalla scena pubblica e privata comincia dalle Università. Basti guardare l’andamento delle iscrizioni negli ultimi venti anni: i giovani – assecondando i messaggi di una società che diceva loro che quel che conta davvero sono le cosiddette “soft skills” e non quelle “hard” – hanno pian piano abbandonato gli studi ingegneristici e si sono diretti verso le facoltà umanistiche (o al massimo ad Economia e Commercio).

Continua nel mondo delle imprese, oggi governate principalmente da professionisti con profili giuridici – economici, che portano con sé nella gestione societaria una logica manageriale di tipo amministrativo e burocratico, proprio oggi che una società complessa, sempre più basata su paradigmi tecnologici di breve durata e rapidissima intensità di crescita, dovrebbe svilupparsi attorno alle competenze tecniche e alla “cultura di progetto”, che un ingegnere più di tutti detiene, per formazione e forma-mentis.

Infine è presente nella politica. Mentre in Cina il potere politico è gestito da ingegneri (tra gli altri, Premier e Vice Premier lo sono) – e forse anche grazie a ciò quell’enorme e complesso Paese è riuscito a pianificare con un programma pluridecennale la crescita di quella che a breve diventerà la prima potenza economica del pianeta – in Italia esso è principalmente gestito da personalità di formazione giuridico – umanistica (il Premier è laureato in legge, il nostro Ministro dell’economia è un commercialista, il Ministro dello Sviluppo Economico ha la licenza liceale).

E’ per tutto questo che auspico a noi tutti che “l’Italia torni agli ingegneri e presto”, pena la fine di questo Paese.

Nota: L’articolo è chiaramente provocatorio, ma vuole mettere in risalto un fatto concreto: l’assenza dalla scena di quelle professionalità di formazione scientifica – che l’ingegnere rappresenta – che potrebbero invece far decollare il Sistema Italia.

Da Copenaghen, a Dicembre, una grande spinta verso un futuro Low Carbon

Dope la forte apertura di Obama, appena comunicata dalla stampa (“Taglio alle emissioni di gas inquinanti del 17% dai livelli del 2005 entro il 2020, 30% entro il 2025 e 42% entro il 2030. Sono queste le cifre della proposta americana che il presidente Barack Obama porterà alla Conferenza Onu sul clima di Copenaghen”), perde forza la tesi dei tanti “scettici” che da qualche settimana dichiarano che il COP15 di Copenaghen sarà un fiasco.

Perche’ invece certamente non andrà cosi’, sebbene non ne uscirà un accordo globale vincolante, per il quale ci sarà tempo nel 2010.

La preparazione di questo appuntamento ha infatti permesso una seria ed approfondita riflessione sul tema “cambiamento climatico” al di fuori dell’Unione Europea, e i Paesi in via di sviluppo, la Cina e gli Stati Uniti hanno lavorato seriamente per trovare un compromesso tra le propie esigenze di crescita (aumentate da una crisi che ha segnato le economie mondiali) e sviluppo sostenibile.

L’annuncio di Obama ne è una prima prova chiara, e fa ben sperare che il “dopo Kyoto” comporterà, come previsto da tempo dagli “ottimisti”, la nascita di quell’auspicato Carbon Market globale che andrà lentamente ma certamente a ridisegnare lo sviluppo economico del pianeta e ad alleggerire quelle serie tensioni geopolitiche che arriveranno a breve dal mercato dei combustibili fossili – Petrolio e Gas, risolvendo insieme il problema ambientale e quello della sicurezza degli approvigionamenti energetici.

In questo percorso vi sarà poi la possibilità di cambiare, in meglio, quei modelli di consumo e culturali che hanno imperato negli ultimi 20 anni almeno, e che han fatto dimenticare a molti l’importanza di avere le radici nella cosiddetta economia reale.

In questo contesto rimane pero’ una nota dolente, e viene dall’Italia.

Nel nostro Paese, in questa legislatura, si continua ad osteggiare (e alla fine si resterà da soli in questo) questo cammino virtuoso di cambiamento: a proposito vi consiglio di leggere questo articolo dal titolo “Alla faccia di Copenaghen” che parla di alcuni emendamenti alla Finanziaria 2010 che cercano di azzoppare il mercato delle rinnovabili (proprio in una fase cosi’ delicata).

Massimo

Aspettando il Global Kyoto a Copenhagen

copenhagen

di Massimo Preziuso


Le prime forti aperture della Cina ( “Taglio gas serra, la Cina apre: -40% entro dieci anni “ ), dopo quelle degli Stati Uniti di Obama, ad una politica globale di contrasto al Cambiamento Climatico, danno ragione a chi sosteneva che il Tema dovesse essere affrontato e regolato da una “regia” mondiale, ovvero che non potesse essere semplicemente regolata dalle forze di mercato.
Ne sono personalmente molto felice. Spiego perché.
Nel 2007, dopo i primi studi sul tema del Cambiamento Climatico, scrissi un piccolo articolo presso Peking University dal Titolo “Globalization and Climate Change: need of a Global Governance System”, contenente le premesse del mio lavoro di Tesi di Ph.D., che aveva avuto forti stimoli dal confronto con la realtà cinese.
A Settembre, tornato dalla Cina, fui invitato ad un incontro in LUISS, e comunicai la mia visione delle cose al Ministro degli Esteri inglese David Miliband: nemmeno lui, un politico – innovatore, prese sul serio quella mia osservazione, non considerando forse, a quel tempo, il Cambiamento Climatico quale problema di Governance.
Da quel Paper iniziai a fare ricerca di Ph.D. sulla necessità di un “Global Kyoto” che rimettesse in piedi un sistema energetico, culturale, geopolitico, ambientale ed economico, ormai in totale declino, grazie proprio alla “minaccia-opportunità” rappresentata dal Cambiamento Climatico.
Vivendo in quel periodo (2007-2008) a Londra ebbi la fortuna di vivere di persona la fase di prima euforia per la Green Economy, cominciata con l’assegnazione, ad Ottobre, del Premio Nobel per la Pace ad Al Gore ed al Comitato Intergovernativo per i Cambiamenti Climatici.
Ricordo le prime iniziative imprenditoriali e finanziarie promosse nella City (la nascita dei primi Fondi di Investimento Green, i primi Green Clubs, etc.), che nascevano in contemporanea all’ improvvisa e forte crisi delle Borse.
Nel giro di pochi mesi, nascevano a Londra le prime importanti iniziative istituzionali, come il Centro di Ricerca istituito in LSE da Sir Nicholas Stern, che aveva pubblicato lo “Stern Review on Climate Change” (su commissione del Governo Inglese), e le importanti iniziative di importanti banche d’affari, fino a poco prima lontane dalle tematiche ambientali.
Da Londra il dibattito “ambientale” si è poi rapidamente diffuso in tutto il mondo (dagli Stati Uniti all’Europa tutta, per poi passare al Sud America, ed infine alla Cina).
Nel Luglio-Agosto 2008, al Summit del G8 di Hokkaido, in Giappone (a cui ero stato invitato ad andare con il “G8 Research Group on Climate Change Oxford – LSE”) il Cambiamento Climatico è finalmente stato riconosciuto quale “global issue”.
Da quel momento si sta attendendo Novembre 2009, quando al vertice delle Nazioni Unite di Copenaghen si dovrebbe sancire la nascita del Global Kyoto, ovvero di una politica globale di contrasto al cambiamento climatico. E la Cina, insieme agli Stati Uniti, sarà il principale “protagonista” di quella scelta.
Intanto, ancora oggi alcune importanti personalità pubbliche (italiane) criticano la scelta della Green Economy come se fosse qualcosa su cui si può scegliere se e quando aderirvi. Ancora non si vuole capire che su temi così complessi non vi è da scegliere, ma solo da ascoltare e rispondere a quelle che sono le evoluzioni naturali del sistema economico, culturale e politico del Pianeta.
Oggi è evidente che quella traiettoria naturale porta il nome di sostenibilità (ambientale), che vuol dire rispetto dell’ambiente, ma anche molto di più.
Speriamo che non si aspetti ancora troppo (in Italia), per capirlo e rispondere alla realtà.
Massimo Preziuso

News da Twitter
News da Facebook