China
Il mondo ai tempi di Trump
di Alberto Forchielli
Qualche considerazione vale la pena di farla dopo il summit dell’APEC – ossia dell’Asia-Pacific Economic Cooperation – che si è tenuto il 19 e 20 novembre a Lima, in Perù, con i leader dei 21 Paesi appartenenti a quell’area geografica, compresi ovviamente Stati Uniti (per l’ultimo ultimo viaggio all’estero di Obama come presidente uscente prima di lasciare la Casa Bianca in gennaio), Cina, Giappone e Messico, sul tema della loro cooperazione economica, che per inciso rappresenta quasi il 60% del PIL globale! Forum che per questo motivo è stato sotto i riflettori dei media internazionali – tranne ovviamente i riflettori appannati di quelli italiani evidentemente troppo impegnati a prevedere chi vincerà tra “sì” e “no” nel nostro cortile di casa – in funzione dei nuovi equilibri geopolitici; e quindi, inevitabilmente, anche economici, derivanti dalle nuove linee guida dettate dalla presidenza targata Donald Trump o almeno dai suoi proclami in campagna presidenziale. Con due aspetti da non sottovalutare.
Il primo è di carattere personale. Difatti, secondo diverse fonti autorevoli, “The Donald” ha deciso di diventare il presidente degli Stati Uniti d’America più per la soddisfazione di occupare la poltrona più importante dell’Occidente che per l’idea di governare realmente il suo Paese. E ora che dopo l’onore del trionfo inaspettato gli tocca l’onere di prendere decisioni quotidiane per il bene collettivo, siamo tutti curiosi di vedere come si comporterà e cosa succederà. Mentre il secondo aspetto, di rilevanza globale, è legato ai suoi proclami e alle promesse elettorali di avviare una politica davvero nuova per gli USA, che possiamo sintetizzare definendola una politica più “egoista”, sia nella sfera commerciale sia in quella del disimpegno dal ruolo di “sceriffi” del pianeta. E in questo senso c’è da essere spaventati a morte – io lo sono – perché, mettetevi il cuore in pace, senza gli Stati Uniti che lottano per il loro bene – che fortunatamente è di riflesso anche il bene dell’Occidente – si rischia di fare una brutta fine.
Perciò i segnali in arrivo dal forum peruviano dell’APEC non possono non essere che di grande timore perché tutti si rendono conto che con Trump gli USA possono realmente smettere di essere la “gallina dalle uova d’oro”. D’altro canto e non poteva che essere così, nelle dichiarazioni complessive resta l’auspicio di rafforzare il legame economico di libero scambio anche con lui.
Auspicio confermato dallo stesso Obama che, oltre agli incontri dell’APEC, ha interagito anche con il primo ministro australiano Malcolm Turnbull e con il primo ministro canadese Justin Trudeau, tranquillizzandoli sulla solidità delle rispettive alleanze per il futuro, ovvero anche sotto l’amministrazione Trump. E poi rassicurando un po’ tutti, dicendo che non si aspetta modifiche significative alla politica degli Stati Uniti, anche se, lo sottolineo ancora, Trump può modificare alcuni accordi decisivi.
Così, tra timori sotto traccia e buoni auspici di facciata, a Lima si è iniziato anche a pensare ad alternative alle eventuali mosse “isolazioniste” peraltro confermate da Trump il giorno successivo al summit di Lima, con l’uscita degli USA dal TTP (il Trans Pacific Partnership voluto da Obama per contenere l’espansionismo economico della Cina) in favore di accordi con i singoli Paesi (per Trump più efficaci). Alternative che vanno nella direzione di un TPP senza gli USA o attraverso un coinvolgimento di Cina e Russia. Anche perché, inevitabilmente, se gli Stati Uniti decidono di tirarsi indietro, il vuoto che lasciano, la Cina è disposta a riempirlo di corsa.
In conclusione, lo spartiacque rischia di essere davvero epocale e probabilmente non è stato ancora compreso appieno nemmeno dall’opinione pubblica anti-americana che abbiamo in Europa e che a vario titolo contesta gli USA a prescindere: dagli eccessi verso Putin al sostegno a Israele, dalla posizione in Iraq e Afghanistan al contenimento commerciale (e non solo) della Cina. Ricordiamoci però che dalla Seconda Guerra Mondiale, basti pensare al D-Day, diamo per scontata la protezione degli Stati Uniti sulla libertà del mondo e il suo conseguente benessere, come se la morte dei ragazzi americani in un qualche conflitto rientri in un fatto del tutto normale – tra un “chissenefrega” e un “se la sono cercata” – mentre quella, per esempio, dei ragazzi italiani, no, non debba avvenire per difendere gli stessi principi di libertà.
Ecco, personalmente, mi sono sempre vergognato di questo atteggiamento tipicamente italiano, tra la viltà e il paraculismo che ci contraddistinguono tanto quanto essere un popolo di poeti, santi e navigatori. Perché ragioniamo così? Perché, come in un condominio litigioso, abbiamo finora sempre esercitato il lusso di dare la nostra delega agli USA, per sporcarsi le mani al nostro posto. E se adesso davvero toccasse a noi andare a litigare?
Chai Jing’s review: Under the Dome – Investigating China’s Smog
A Hundred-Year Stagnation? For Who?
The creation of the Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) is a necessary objective. Anyone who travels in the Far East finds confirmation of the desperate lack of efficient networks. With the exception of Japan and other developed economies, countries see their ambitions reduced by chronic underdevelopment.
How can we forcefully industrialize agrarian countries if the goods produced are not transported on paved roads, via trucks, for eventual export? Is it reasonable to use polluting energies to then spend the earnings cleaning the air and water after only a few years?
Two years ago, McKinsey published a report on Asia’s infrastructure necessities, and it was a milestone for analysts, engineers and governments. The needs and opportunities are impressive. Even in the depths of crisis, Asian countries seem inclined not to bend from the desire to grow. They can count on internal resources, acquired know-how and international cooperation.
And they are wheedling this more than in the past. Administrative rigidities have been softened – a frequent vehicle for not-so-transparent awards – and, in general, there is a climate of greater cooperation with multinationals.
The numbers are striking. The report says more than US$ 8 billion will be invested in Asian infrastructure over 10 years. The fraction reserved for foreign companies is incredibly tempting: US$ 1 billion. Clearly, infrastructure is considered an absolute priority: energy and transportation are not similar to any other exchanged good.
In Boston and Washington where I live and work, the intellectual debate goes beyond these sums. Perhaps US$ 8 billion over 10 years is not impressive on the other side of the world and cannot revise the pessimistic predictions of a “hundred-year stagnation.”
The quote belongs to Larry Summers, Harvard professor and Treasury Secretary under Bill Clinton, and director of the National Economic Council under Barack Obama. His prestige makes his predictions even more alarming. We’re probably heading toward a hundred-year stagnation, where the progresses of the past will be memories.
The very concept of growth is called into question. It’s not necessary and perhaps no longer achievable. We habitually read about economic concepts in the news: liquidity traps, recession and reluctance to invest. Summers argues that deflation cannot be cured with monetary maneuvers. No interest rate will be sufficiently low to stimulate investments.
The predictions are arresting, with the knowledge that prices will be lower with every passing day. The recovery of the last few years was faint (nonexistent in Europe), uncertain, fragile, not homogenous and short-lived.
Paul Krugman confirmed Summers’ analyses and pushes them toward political aspects. Governments, he says, should be more audacious and forget the inflationist phobias of monetarist schools of thought, otherwise Summers’ predictions will become a tragic, fateful reality.
The Nobel laureate writes: “In this situation, the normal laws of economics don’t apply; virtue becomes vice, prudence transforms into folly.” Therefore, we need to defeat savings with any type of spending. Summers and Krugman regretfully recognize that pre-crisis growth was due, more than anything, to bubbles that then burst. Now it’s too late, and the economy’s tailspin leaves little hope.
The two economic gurus’ arguments are beyond reproach. Their theoretical approach is solid. But are the consequences of their analyses acceptable in developing Asia? Can governments resign themselves to stagnation? Can citizens tolerate centuries more of privations because there are not enough finances for development?
McKinsey reminds us that wealth created overseas also creates income for multinationals. GDP created in Asia needs resources, and it’s not a given that they need to come from China necessarily. If stagnation is a real threat in the West, Asia does not automatically have to follow the same path.
Actually, a security valve capable of compensating for growth differences and breathing oxygen into the asphyxiating economy could be built. However, all of this entails a new definition of international assets that need courage and forward thinking.
As long as traditional institutions like the World Bank and Asian Development Bank finance Asian infrastructure, we will likely witness a slow decline. If, instead, the G8’s offices accept the birth of new players like the AIIB, China’s role will be less marginal and Asia’s future more promising.
Alberto Forchielli is the managing partner of Mandarin Capital Partners