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Brexit

E se l’uscita di Londra scuotesse l’Europa?

Brexit

di Francesco Grillo

E se convenisse proprio a chi crede – davvero – nell’Europa che dal Regno Unito arrivi quella scossa di cui l’Europa ha bisogno? Per scuoterci dall’inerzia e non dare più per scontate certezze che si stanno sgretolando proprio per la nostra incapacità di concepire che il processo che ha portato all’Unione, possa cambiare direzione e portarci verso la sua disintegrazione?

La lettura dell’accordo strappato dal Premier inglese Cameron ai propri colleghi europei, lascia, in effetti, abbastanza allibiti. Romano Prodi che ha colto, da Presidente della Commissione, le ultime grandi vittorie del progetto federale (l’introduzione della moneta unica e l’allargamento ai Paesi dell’Est), confessava – ieri, da queste colonne – che non si capisce cosa, in quell’accordo, provoca la soddisfazione che tutti i ventisette leader, senza eccezione, hanno espresso tornando a casa (anche se, a dire il vero, mai è successo il contrario e, sempre, il sollievo inziale di aver finito una maratona negoziale si è trasformato, dopo qualche giorno, nel dubbio di aver fatto un ulteriore sbaglio).

Aggiungo, però, che, probabilmente, il non accordo riesce a fare del male a tutti. E che neanche Cameron abbia molto da festeggiare. Tra tanti furibondi scontri ideologici tra gli alleati della perfida Albione e gli europeisti tutti di un pezzo, sembrano essere, infatti, sfuggiti a quasi tutti i commentatori un paio di semplici numeri.

La maggiore concessione strappata dal Regno è stata, alla fine, la possibilità che uno Stato Membro congeli i sussidi di disoccupazione ai migranti venuti dagli altri Paesi dell’Unione per sette anni (nonché di commisurare eventuali assegni di assistenza destinati ai figli dei migranti al costo della vita prevalente nel Paese d’origine). Il punto è, però che i cittadini europei che chiedono benefici sociali nel Regno Unito sono stati – per il Department for Work and Pensions – circa 114 mila: il 3% dei 3 milioni e ottocentomila individui che ogni anno in Inghilterra fruiscono del sussidio. Peraltro, i migranti provenienti dall’Unione che vivono nel Regno sono quasi due milioni; tra di loro ci sono quasi la metà dei dirigenti che guidano le banche della City e dei docenti delle università più prestigiose, e meno del 6% di loro chiede assistenza, mentre la percentuale è quasi doppia per la popolazione locale. È su questa epocale battaglia che Cameron ha investito il suo futuro politico e i leader europei hanno concesso un doloroso accomodamento.

 

Per il resto nel testo c’è (quasi) nulla dopo tanto rumore. Il riconoscimento che l’idea costitutiva che l’Europa sia destinata ad una sempre maggiore integrazione non vale per il Regno Unito; come se questa fosse una novità, laddove per onestà intellettuale dovremmo cominciare a riconoscere che questa ineluttabilità non vale neppure per gli altri 27 Paesi che non riescono più a difendere neppure la libera circolazione. La concessione di un improbabile “freno a mano” che può essere tirato da un Paese che dell’area euro non fa parte, su decisioni che riguardano solo le nazioni dell’area EURO che pure dovrebbero aver diritto a decidere di un’unione monetaria già instabile, senza doversi preoccupare di chi non ne fa parte.

Due rassicurazioni assolutamente simboliche e una vittoria su un aspetto marginale hanno l’effetto controproducente di far perdere di vista una questione molto più grande perché l’Inghilterra (che, peraltro, probabilmente si troverebbe senza la Scozia se decidesse di abbandonare l’Europa) decide – attraverso il referendum – anche il ruolo che vuole avere nel mondo. Del resto, il sindaco di Londra Boris Johnson ci ha messo un solo giorno – dopo essersi conto che le decisioni del Consiglio Europeo assomigliano proprio a quei pasticci che rendono tanto indigesta l’Europa agli elettori britannici – per sciogliere le riserve e schierarsi con chi fa la campagna per l’uscita: una scelta che rischia di spezzare l’equilibrio finora assoluto tra i due schieramenti.

 

Non è, dunque, impossibile che a Giugno che l’Europa perda, per la prima volta, un pezzo. Peraltro assai importante, visto che si tratta dell’economia più dinamica del Continente e sede della maggiore piazza finanziaria del mondo. E non è neanche detto – lo dico da europeista convinto che all’Europa non ci sia alternativa, da persona che appartiene ad una generazione che sul sogno europeo è cresciuta – che un trauma simile non sia, a questo punto, salutare. Per tenere il Regno Unito nell’Unione, il premier britannico si era impegnato ad ottenerne una riforma: quello che lui e gli altri leader portano a casa sono solo eccezioni marginali pensate per rassicurare elettori spaventati.

Il punto è che, però, di riforme radicali hanno bisogno anche gli altri 450 milioni di cittadini europei. Procediamo per aggiustamenti come quello di venerdì scorso: di questo passo rischiamo di avere non più un’Europa a due (tre se contiamo anche Schengen) velocità, ma a velocità che tra di loro interferiscono portando l’intera macchina a fermarsi progressivamente.

Abbiamo bisogno di ministro unico che tassi e decida della spesa pubblica, come cominciano a riconoscere i tedeschi e i francesi. Ma anche – se non vogliamo continuare a girare attorno al problema – di una vera e propria democrazia europea senza la quale tradiremo quel principio elementare – non può esserci tassazione, se chi tassa non ci rappresenta – che furono proprio gli inglesi ad inventare; e che hanno intenzione di difendere anche a costo del “salto nel buio” che Cameron vuole evitare. Per riuscirci abbiamo, però, assoluto bisogno di uscire dall’inerzia di chi è convinto che tutto alla fine si aggiusta. Agli inglesi piace rendere chiari i termini dei problemi; è ora che anche noi europei riscopriamo questa virtù.

 

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