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Michele Mezza: “Napoli e il Sud, il rosso e il nero dell’italianità…”

di Laura Bercioux

Memorabili le sue dirette per il funerale di Berlinguer, il processo dall’Aula Bunker con Falcone Borsellino, Gorbaciov a Mosca, 35 anni di notizie e di informazione: Michele Mezza, giornalista, scrittore, napoletano, trapiantato a Roma e vissuto a Milano, ha girato il mondo. Oggi si dedica al digitale. Il suo ultimo libro è “Avevamo la luna”,. A “Visti da Lontano”, la rubrica del nostro giornale dedicata ai meridionali lontani dal Meridione, Michele Mezza, racconta la sua Napoli.

Quale è il suo rapporto con Napoli e il Sud?

“Io sono nato a Napoli ma cresciuto a Milano e ora vivo a Roma. Una combinazione che  da una parte mi limita la mia percezione della città, e del sud in generale, anche se poi ho avuto l’opportunità di tornare e lavorare a Napoli in varie occasioni. Dall’altra mi aiuta a valutare le caratteristiche di Napoli e del Sud in termini comparativi. Per me Napoli e il Sud sono qualcosa in più o in meno delle altre città in cui ho vissuto come Milano e Roma. Il Sud è la mediterraneità, è l’Italianità più forte e sanguigna, e’ la crisi endemica delle sue terre. Napoli è il Sud al quadrato: mediterraneità, italianità, arretratezza all’ennesimo livello. Ma anche grande e continua contraddizione. Se devo  scegliere una sensazione su tutte, diciamo che Napoli è la città del ritmo che ha volte rimane in silenzio. Ecco questa immagine esprime il mio legame, il mio odio amore con la città, con la mia città, perchè Napoli  poi è sempre la città a cui torno con la mente quando cerco un rifugio”.

Cosa ricorda di bello e positivo?

“Napoli è tutto quello che il resto d’Italia non è:colore, arguzia, disperazione, teatro, musica,.occupandomi in particolare di relazioni digitali, mi pare più semplice leggere Napoli alla luce dei nuovi codici a rete. Napoli è la città di Internet, è la città della condivisione, dell’economia del vicolo, per antonomasia. E’ la città dell’open source, della continua imitazione e rielaborazione, come la sua musica dimostra. E’ la città del no copyright, non solo per l’attitudine al falso, ma sopratutto per la sua naturalità nel moltiplicare ogni simbolo del successo. Ecco Napoli come straordinaria macchina del tempo che combina e ibrida tradizione e futuro”.

Qual è la percezione della reputazione di Napoli nel suo ambiente di lavoro?

“Al di là dei luoghi comuni, delle vecchie tare della napoletanità, devo dire che nel campo della comunicazione Napoli è un brand di qualità, di competitività, di primato. Essere di Napoli, del Sud in particolare oggi è una prerogativa da curriculum, da esibire. Basta dare uno sguardo al top management dei grandi gruppi internazionali del lusso o della comunicazione: in larga parte i responsabili del marketing e delle relazioni esterne sono italiani, specificatamente meridionali, spesso proprio napoletani. Un motivo ci sarà”.

Attualmente qual è l’opera più simbolica?

“Al momento la cosa più tipica a Napoli, e nel sud  in generale, è una non opera, è il non operare, il non progettare. Da anni, da molti anni, nel sud  e a Napoli non si riesce a immaginare, a progettare e tanto meno a realizzare un’opera che possa assumere un valore simbolico. Tutto  si consuma ancora prima di diventare proposta. E quelle poche opere che arrivano a diventare cantiere  si tramutano in handicap. Se proprio devo indicare una realizzazione che è il simbolo del sud non operativo è forse il Crescent di Salerno. Un’opera invasiva, che riconfigura l’intero profilo della città, che poteva diventare un motore di sviluppo e identità a livello nazionale e internazionale, in una città che pure aveva dato dimostrazioni di dinamismo positivo. Ebbene tutto diventa carta bollata, pressappochismo, paralisi, ridicolo e dramma. Tutto diventa commedia. Amara”.

Qual è l’autore più rappresentativo?

“Uno del passato e uno contemporaneo. Per il passato direi Gianbattista Vico. Non era Napoletano ma lo diventò, lo volle essere e diede forma alla parte migliore della cultura Napoletana, temperando l’illuminismo e danno senso storico e forza dinamica all’improvvisazione e all’estemporaneità Napoletana. Un genio che diede lustro alla cultura Italiana da Napoli e con Napoli. Oggi direi Roberto Saviano che trasforma la degenerazione sociale della camorra in un linguaggio multimediale modernissimo proponendo materiali e supporti immaginari per neutralizzarne gli effetti corruttivi. Diciamo che Saviano, meglio il savianismo è il simbolo dell’autogenerazione possibile di Napoli.

Domenico Rea parlò di due Napoli che vivono fianco a fianco ma separate (la borghesia e i lazzari) e senza diventare popolo: Le sembra una chiave di lettura ancora attuale?

“Direi di no. Si è del tutto consunto quel ceto medio pre borghese che non è mai diventata borghesia occidentale. Tanto più in una fase dell’occidente che vede la middle class proletarizzarsi in maniera frustrata e rancorosa. Tipicamente  napoletana. Mentre i lazzari si espandono, e si diffondono. Diciamo che siamo nel tempo lazzaro. Guardiamo a cosa sta accadendo in Europa, dove l’opposizione alle tecnoburocrazie è tutta consegnata ad impasti di populismo metropolitano e di  rabbia post borghese. Napoli , il sud, potrebbe, proprio per aver già vissuto queste fasi, essere il laboratorio per la vaccinazione, per il superamento, per un laico rigetto del rigetto populista. E’ un’ennesima occasione per rifare di Napoli una capitale”.

Raffaele La Capria parla di ferita insanabile aperta nel 1799. Quando i lazzari presero i borghesi illuminati nelle loro case e li trucidarono sulla piazza completando l’opera del Cardinale Ruffo… Questa ferita ancora sanguina a suo avviso o è una enfatizzazione letteraria.

“A me è sempre sembrata un alibi autoreferenziale di un’intellettualità che doveva dare una ragione al proprio isolamento, alla propria incapacità di parlare al popolo, al territorio, alle città del sud. Ogni volta questa storia dei lazzari e della repubblica del 99. Ricordo una civettuola e snobbistica fondazione, chiamata appunto napoli99, che voleva riprendere quel filo interrotto. Io vedo piuttosto un altro vulnus, politico e culturale, quello del 44, quando Napoli fu sede  e motore di quella straordinaria operazione che Prima Togliatti, ma poi la stessa DC innestarono: aprire la strada per una vera rivoluzione democratica che portasse le masse popolari al centro dello stato borghese. Lì si poteva dare un senso al napoletanismo come categoria della repubblica. E invece fu l’ennesimo fallimento: dalla svolta di Salerno  si arrivò ad Achille Lauro. Anche questo caso Napoli anticipò la parabola italiana: dal compromesso storico al leghismo anti europeo. Perchè napoli anticipa? Perchè la crisi del sud non è figlia dell’arretratezza ma dell’ipermodernità? Io credo perchè Napoli e il Sud sono da tempo fuori dal paradigma fordista, fuori dalla cultura della fabbrica e  hanno già da decenni sperimentato l’economia della comunicazione e delle relazioni. Una nuova economia ma senza una politica adeguata, senza un gruppo dirigente, senza una società civile consapevole di questa novità”.

Cosa farebbe se fosse il sindaco di Napoli?

“Legherei tutto al progetto di Bagnoli: un grande polo del sapere e della qualità della vita. Metterei sul mercato internazionale il golfo più bello e metropolitano del mondo per  un grande progetto europeo: un campus europeo dei saperi relazionali. La città si adeguerebbe a questo motore”.

Cosa non farebbe mai se fosse il Sindaco di Napoli?

“Proclami o nomine”.

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