Significativamente Oltre

EU

A Hundred-Year Stagnation? For Who?

The prospects for growth in the West may be dim, but that doesn’t mean Asia’s developing countries must settle for privation

The creation of the Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) is a necessary objective. Anyone who travels in the Far East finds confirmation of the desperate lack of efficient networks. With the exception of Japan and other developed economies, countries see their ambitions reduced by chronic underdevelopment.

How can we forcefully industrialize agrarian countries if the goods produced are not transported on paved roads, via trucks, for eventual export? Is it reasonable to use polluting energies to then spend the earnings cleaning the air and water after only a few years?

Two years ago, McKinsey published a report on Asia’s infrastructure necessities, and it was a milestone for analysts, engineers and governments. The needs and opportunities are impressive. Even in the depths of crisis, Asian countries seem inclined not to bend from the desire to grow. They can count on internal resources, acquired know-how and international cooperation.

And they are wheedling this more than in the past. Administrative rigidities have been softened – a frequent vehicle for not-so-transparent awards – and, in general, there is a climate of greater cooperation with multinationals.

The numbers are striking. The report says more than US$ 8 billion will be invested in Asian infrastructure over 10 years. The fraction reserved for foreign companies is incredibly tempting: US$ 1 billion. Clearly, infrastructure is considered an absolute priority: energy and transportation are not similar to any other exchanged good.

In Boston and Washington where I live and work, the intellectual debate goes beyond these sums. Perhaps US$ 8 billion over 10 years is not impressive on the other side of the world and cannot revise the pessimistic predictions of a “hundred-year stagnation.”

The quote belongs to Larry Summers, Harvard professor and Treasury Secretary under Bill Clinton, and director of the National Economic Council under Barack Obama. His prestige makes his predictions even more alarming. We’re probably heading toward a hundred-year stagnation, where the progresses of the past will be memories.

The very concept of growth is called into question. It’s not necessary and perhaps no longer achievable. We habitually read about economic concepts in the news: liquidity traps, recession and reluctance to invest. Summers argues that deflation cannot be cured with monetary maneuvers. No interest rate will be sufficiently low to stimulate investments.

The predictions are arresting, with the knowledge that prices will be lower with every passing day. The recovery of the last few years was faint (nonexistent in Europe), uncertain, fragile, not homogenous and short-lived.

Paul Krugman confirmed Summers’ analyses and pushes them toward political aspects. Governments, he says, should be more audacious and forget the inflationist phobias of monetarist schools of thought, otherwise Summers’ predictions will become a tragic, fateful reality.

The Nobel laureate writes: “In this situation, the normal laws of economics don’t apply; virtue becomes vice, prudence transforms into folly.” Therefore, we need to defeat savings with any type of spending. Summers and Krugman regretfully recognize that pre-crisis growth was due, more than anything, to bubbles that then burst. Now it’s too late, and the economy’s tailspin leaves little hope.

The two economic gurus’ arguments are beyond reproach. Their theoretical approach is solid. But are the consequences of their analyses acceptable in developing Asia? Can governments resign themselves to stagnation? Can citizens tolerate centuries more of privations because there are not enough finances for development?

McKinsey reminds us that wealth created overseas also creates income for multinationals. GDP created in Asia needs resources, and it’s not a given that they need to come from China necessarily. If stagnation is a real threat in the West, Asia does not automatically have to follow the same path.

Actually, a security valve capable of compensating for growth differences and breathing oxygen into the asphyxiating economy could be built. However, all of this entails a new definition of international assets that need courage and forward thinking.

As long as traditional institutions like the World Bank and Asian Development Bank finance Asian infrastructure, we will likely witness a slow decline. If, instead, the G8’s offices accept the birth of new players like the AIIB, China’s role will be less marginal and Asia’s future more promising.

Alberto Forchielli is the managing partner of Mandarin Capital Partners

Lo spazio dell’Italia tra Usa e Africa. Parla Salzano (Eni)

Lo spazio dell'Italia tra Usa e Africa. Parla Salzano (Eni) Intervista di Formiche a Pasquale Salzano

Pasquale Salzano è senior vice president di Eni ed ha delega agli affari istituzionali. È il volto e la voce di Claudio De Scalzi, una vita nel Cane a sei zampe e da pochi mesi nominato dal governo Renzi nuovo Ceo della prima multinazionale italiana.

Salzano, classe 1973, è arrivato in azienda nel 2011 dalle fila del ministero degli Affari esteri essendo Consigliere d’Ambasciata. La promozione di un giovane diplomatico non sorprende, anzi conferma il peso della dimensione istituzionale e internazionale in Eni. Formiche.net lo ha incontrato per una conversazione a valle del Summit USA-Africa appena terminato a Washington e che ha lasciato in eredità sia la Clean Energy Finance Initiative sia investimenti tra i quali una partnership da 5 miliardi di dollari tra il fondo Blackstone e il ricco investitore africano Aliko Dangote per progetti di infrastrutture energetiche nell’Africa sub-sahariana.

Anche Eni, pur nel suo core business degli idrocarburi, investe da tempo nel Continente nero. Quali opportunità vi intravedete? “Il vertice di Washington è stato il più grande incontro con i capi di stato e di governo africani mai organizzato da un presidente americano negli Usa. La sua importanza è dunque innanzi tutto di carattere politico e strategico e segnala la crescente attenzione che l’amministrazione americana dedica ad un continente in cui, negli ultimi dieci anni, diversi paesi hanno registrato i tassi di crescita più elevati del mondo. Va considerato, inoltre, che la popolazione africana raddoppierà entro il 2050, tornando a rappresentare un quinto del totale mondiale, come era nel XVI secolo. In questo quadro, gli investimenti e il commercio sono considerati dagli Usa come parte del più complessivo impegno per la sicurezza e lo sviluppo civile e sociale del continente. Si tratta di un approccio altamente condivisibile, molto simile a quello che Eni, pur nella sua specificità di azienda energetica, ha tradizionalmente promosso in Africa fin dall’inizio della sua presenza, nel 1953. È stato proprio grazie alla attiva integrazione tra i progetti di sviluppo dell’azienda e le opportunità di crescita dei territori in cui è ospite, che Eni è potuta diventare non solo la prima compagnia internazionale del continente per produzione di idrocarburi, ma anche l’azienda leader nel favorire l’accesso all’energia da parte delle popolazioni locali. Il rinnovato impegno americano e la convergenza dei rispettivi approcci al continente non può dunque che essere vista da Eni in modo molto positivo”.

Gli Stati Uniti hanno deciso di puntare in modo deciso sullo sviluppo dell’Africa e sugli investimenti non solo energetici nel continente. L’Italia, per sua vocazione e collocazione rappresenta un ponte ideale tra l’altra sponda dell’Atlantico e l’Africa. Ritiene che questo nuovo sguardo a sud possa aiutare il nostro Paese a diversificare le proprie alleanze energetiche, finora più orientate ad est?

“Pochi lo sanno, ma l’Italia è tra i paesi europei che nell’ultimo decennio ha provveduto maggiormente alla diversificazione delle proprie fonti di approvvigionamento, come spesso auspicato dall’Unione europea. Nello stesso periodo, inoltre, l’Eni ha registrato in assoluto i migliori successi esplorativi tra le majors petrolifere mondiali, inclusa la più grande scoperta di giacimento gas della sua storia, in Mozambico, nel 2011 e l’Africa è stata al cuore di questi successi. Si tratta di nuove fonti che, soprattutto per quanto riguarda il gas, potranno contribuire ulteriormente alla diversificazione energetica italiana ed europea, consolidando una sorta di corridoio nord-sud come nuovo asse strategico di approvvigionamento energetico, di cui ha recentemente parlato anche il presidente Renzi, che potrà avvicinare sempre più l’Africa al vecchio continente”.

Ritiene che, tenendo conto anche dei nuovi progetti energetici annunciati dall’amministrazione Obama, ci possano essere ulteriori momenti di collaborazione tra Italia e Stati Uniti?

“Le sfide che la straordinaria crescita dell’Africa pongono alla comunità internazionale rendono sempre più importante la sinergia tra l’Italia e gli Stati Uniti, che non può che realizzarsi nella più ampia cornice dei rapporti tra Ue e Usa. L’importante negoziato in corso sulla Transatlantic Trade and Investment Partnership ne è solo uno degli esempi più recenti, e l’inclusione dei temi energetici al suo interno sarà molto rilevante. In Africa, in particolare, la collaborazione tra Italia e Usa potrà registrarsi anche alla luce del programma Power Africa lanciato dall’amministrazione un anno fa, che mira a raddoppiare l’accesso all’energia nel continente entro il 2018, grazie anche a importanti convergenze tra pubblico e privato (Public Private Partnership)”.

Il recente viaggio del premier Matteo Renzi in Africa – in Mozambico, Congo e Luanda – è forse il segno che anche la politica italiana guardi all’Africa non solo come a una frontiera, ma come a un mercato di riferimento. Eni come valuta questo nuovo approccio e quali cambiamenti scorge?

“Il rinnovato impegno del governo italiano verso l’Africa è a tutto campo e tocca la dimensione politica, economica e culturale. Può quindi essere considerato parte di una più ampia strategia di apertura e adattamento del nostro paese alle nuove tendenze del sistema internazionale. Un’azienda come Eni, che opera in circa settanta paesi in tutto il mondo, non può che considerare positivamente questo approccio, sempre più necessario e carico di implicazioni significative. A questo riguardo Il Ministero degli esteri ha recentemente promosso l’Iniziativa Italia–Africa, anche con l’obiettivo di rafforzare l’accesso all’energia sostenibile attraverso l’espansione della rete di aziende italiane impegnate nel continente. A metà ottobre si svolgerà a Roma una conferenza internazionale di alto livello per fare il punto sullo stato di avanzamento delle attività su questo fronte”.

Per dirla con Barack Obama, aumentare gli investimenti occidentali in Africa è anche un modo per rafforzare “sicurezza e democratizzazione dei Paesi africani”, anche quelli dove Eni è presente. Penso alla Nigeria, ma anche alla Libia, in queste ore teatro di scontri terribili. Cosa ne pensa? E come proseguono le attività di Eni nei Paesi africani più instabili?​

“Per le caratteristiche del suo business, Eni è abituata da sempre ad operare in realtà o regioni complesse o genericamente considerati “a rischio”. Per questo ha tradizionalmente dedicato grande attenzione allo sviluppo dei paesi in cui opera, anche attraverso il cosiddetto “dual flag approach”, ovvero quello di una compagnia al tempo stesso internazionale ma anche locale e con uno stretto rapporto con il territorio. Poiché l’energia è la chiave di ogni sviluppo, negli ultimi anni Eni si è anche impegnata direttamente nella realizzazione di alcune centrali elettriche, come ad esempio quelle in Nigeria e Congo, che vengono gestite insieme alle autorità locali e forniscono ai due paesi rispettivamente il 20 e il 60% dell’energia. Solo l’ulteriore consolidamento di questa strategia, ribadita dalle recenti iniziative sia negli Stati Uniti che in Italia, potrà offrire all’Africa quel futuro di pace e prosperità che ognuno di noi auspica”.

——————————————————————————————————————————————————————————

Sulo stesso tema, la nota scritta nel 2013 da Massimo Preziuso: Un’area di libero scambio UE-USA per lo sviluppo sostenibile mondiale e per la nascita degli Stati Uniti d’Europa

 

 

 

 

 

News da Twitter
News da Facebook