Significativamente Oltre

Investimenti esteri, quel gap da colmare

                                                                                                                                                                                                                                                                               di Francesco Grillo (Il Mattino, 20 Novembre 2012)

Sono proprio i viaggi in Medio Oriente, insieme a quelli fatti qualche mese fa in Cina, a chiarire in maniera netta la strategia che il Presidente del Consiglio Mario Monti sta perseguendo: puntare quasi tutto sul proprio prestigio personale; ricostruire l’immagine del Paese con riforme parziali ma che rispondono nei titoli alle richieste delle istituzioni internazionali; investire le proprie capacità negoziali trattando direttamente con i pochissimi detentori di capitali per attrarre la liquidità di cui abbiamo assoluto bisogno. Tuttavia, per un’azione di marketing del Sistema Italia non può bastare Monti e non può essere sufficiente un anno: deve essere stata per questa ragione, per dimostrare quanto sia indispensabile una strategia molto più ampia e a lungo termine, che il presidente del consiglio ha provocatoriamente ricordato alla politica italiana quale potrebbe essere l’effetto dell’incertezza sulla continuazione del percorso appena cominciato.

Un’economia che vuole stare in piedi in un contesto globalizzato deve essere evidentemente capace di attrarre investimenti dall’estero. L’afflusso di capitali porta con sé non solo posti di lavoro, tecnologie, competenze. Ma anche aspettative, domande da soddisfare da parte di clienti esigenti. E competizione di cui le imprese nazionali hanno assoluto bisogno per percepire l’innovazione come necessità assoluta e avere concorrenti da imitare.

Certo attrarre investitori esteri non significa svendere le imprese dalle quali possono maggiormente dipendere la sicurezza nazionale e l’accesso a risorse materiali o a conoscenze indispensabili. E, tuttavia, il consenso degli economisti e il buon senso dicono che quanto più una società è aperta, tanto più essa è forte, abituata a convivere con i rischi che la globalizzazione comporta.

Non è un caso, allora, che l’Italia sia negli ultimi anni quasi scomparsa, soprattutto nei settori più dinamici, dalla mappa delle possibili localizzazioni che le multinazionali considerano quando devono decidere dove insediarsi. Secondo i dati dell’OECD lo stock di investimenti esteri presenti nel nostro Paese è di circa 400 miliardi di dollari: una cifra pari poco più di un terzo dei valori fatti registrare in un Paese come la Francia dove pure si continuano a fare politiche industriali e a difendere campioni nazionali; ma anche decisamente inferiore al volume di investimenti esteri attratti in Spagna che, nonostante una crisi delle finanze pubbliche non meno grave di quella italiana, conta su un’economia strutturalmente più integrata nei circuiti internazionali. Se poi passiamo dal numero sugli stock a quello sui flussi di nuovi insediamenti, il dato diventa ancora peggiore perché ormai la Turchia e l’Irlanda ci hanno stabilmente superato e la Polonia sta per farlo.

C’è poi una differenza – sottile ma sostanziale – tra le diagnosi sulle cause della malattia che facciamo noi stessi da quella che si fa dall’esterno. È molto probabile che gli imprenditori italiani risponderebbero quasi all’unisono che le due ragioni principali della scarsa attrazione sono: l’elevatissima pressione fiscale che ci rende fuori mercato rispetto a concorrenti che, spesso, usano proprio l’arma dell’esenzione per convincere, anzi, molte nostre imprese – soprattutto quelle medie e piccole – a andar via dall’Italia; e il costo del lavoro e, preciserebbe uno come l’amministratore delegato di una grande impresa come la FIAT, la sua rigidità.

Tuttavia, se analizziamo i dati delle organizzazioni internazionali che più autorevolmente misurano il problema, la ragione più profonda dell’uscita progressiva dell’Italia dall’economia globale è l’incertezza. Non tanto quella politica su chi governa il Paese e il suo pur enorme debito pubblico; ma quella assai più diffusa che rende opachi i rapporti tra Stato e imprese, tra Stato e cittadini; e instabili i rapporti tra i cittadini, le imprese stesse. Se è vero che complessivamente per le Nazioni Unite, in Italia è molto più difficile che negli altri Paesi europei “fare impresa”, i parametri di maggiore sofferenza sono in assoluto: la debolezza del sistema giudiziario – e, dunque, la possibilità di far rispettare i contratti – dove l’Italia si colloca al centosessantesimo posto su centoottanta nazioni; e la complessità del sistema fiscale – siamo al centotrentunesimo posto per il numero di giorni impiegati da un imprenditore per stabilire quante tasse pagare che è problema collegato ma distinto da quello altrettanto grave del livello assoluto dell’imposizione fiscale. Efficacia della giustizia e semplicità del fisco: sono, in fin dei conti, tra i misuratori più importanti della qualità di quello che qualcuno chiamerebbe “patto sociale” e che però qualsiasi imprenditore ritiene indispensabile per poter calcolare rischi e possibili ritorni di un qualsiasi investimento.

Conta, poi, tantissimo, la conoscenza, la ricerca ed il sistema educativo: mentre gli Europei continuavano a lamentarsi di concorrenza sleale, centinaia di milioni di asiatici hanno abbandonato la povertà e sono diventati classe media, passando da condizioni di analfabetismo di massa a tassi di scolarizzazione superiori a quelli di un Paese come l’Italia. Ed è questo che rende un Paese, una Regione in grado non solo di attrarre investimenti dall’estero ma di selezionare quelli di maggiore qualità e di estrarne conoscenza per radicarla sul proprio territorio.

Sono investitori un po’ particolari quelli che Monti sta provando a convincere. Certo hanno a disposizione ricchezze favolose e (quasi) completamente libere: basterebbe anche solo il fondo sovrano di Abu Dhabi per comprare – due volte – tutte le società italiane quotate in Borsa. E, tuttavia, stiamo parlando appunto di fondi sovrani, di soggetti che, almeno, sulla carta sono portatori di una sensibilità diversa da quella di imprenditori che decidessero di venire nel nostro Paese per investirvi il proprio lavoro. Di sicuro possono risolvere problemi di breve periodo come quello di Fincantieri ed essere utili anche nel lungo: tuttavia, come Monti sa benissimo, un fondo sovrano – lo stesso ragionamento si applica alla Cina – riflette, in quanto tale, anche strategie politiche dalle quali non possiamo dipendere.

Più in generale, però, se vogliamo che l’Italia rientri in circuiti che non sono solo finanziari, ma di flussi di tecnologie e competenze, il lavoro che Monti ha cominciato deve continuare e diventare più ampio e profondo. Con la consapevolezza che, paradossalmente, più di una lunga guerra di posizione sull’articolo diciotto, potrebbe valere un ridisegno dell’attività dei tribunali che accorci i tempi della giustizia, un ripensamento del fisco che renda il rapporto con lo Stato più certo, uno spostamento di risorse dalle pensioni all’università: cambiamenti che richiedono tempi molto più lunghi e un investimento politico molto maggiore di quello che era alla portata di un governo tecnico.

 

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