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NORVEGIA, SOMALIA: L’era della vulnerabilità

di Francesco Grillo

È difficile capire il senso di un massacro come quello di Venerdì scorso se non consideriamo, per un momento, il luogo dove esso si è consumato. La Norvegia, storicamente e sotto molti punti di vista, è un vero e proprio angolo di paradiso, anzi l’unico che è rimasto mentre il resto del mondo rischia di affogare tra contraddizioni sempre più estreme.

Il paese rimase neutrale sia nella prima che nella seconda guerra mondiale – anche se fu invaso senza dichiarazione di guerra dai nazisti che costrinsero il governo in esilio a Londra – ed è stato talmente attivo nel fare da mediatore di accordi  – anche se come fondatore della NATO è impegnato sia in Afghanistan che in Libia – che il comitato del premio Nobel da sempre consegna a Oslo e non a Stoccolma – come succede per tutti gli altri premi Nobel – il massimo riconoscimento per la pace.

Un paradiso anche dal punto di vista economico: mentre tutti gli altri paesi del mondo sviluppato cercano di salvarsi da deficit dello stato che arrivano oltre il dieci per cento per Stati Uniti, Inghilterra, Grecia, la Norvegia è l’unico paese europeo ad avere un surplus: del dieci per cento. E mentre il debito pubblico supera in media i 40,000 euro per ciascun cittadino europeo o americano – includendo nel calcolo anche i bambini, ciascun neonato norvegese può contare alla nascita su 60,000 euro di credito!

Un miracolo: pensate  che la Norvegia riesce ad essere, contemporaneamente, il secondo paese più ricco (dopo il Lussemburgo e prima della Svizzera) e il quarto più equo (quanto si misura l’uguaglianza utilizzando un indicatore – GINI – che misura appunto le differenze) del mondo. Come dire una vera  e propria combinazione di capitalismo e socialismo entrambi al massimo livello.

La Norvegia è anche uno dei paesi con la più alta percentuali di parlamentari donna – il 40% – ed uno delle più basse percentuali di persone che dichiarano che la religione occupa una parte importante della propria vita – meno del quattro per cento.

Un miracolo, dunque. Un miracolo se usassimo il linguaggio che normalmente si usa per definire ciò che è moderno, funzionante, probabilmente felice. Un paese che neppure è toccato dalle crisi devastanti che hanno portato il resto del mondo sull’orlo di un precipizio. E, tuttavia, oggi quel paese ritrova la propria forza non nel petrolio e nella propria modernità ma sotto le volte di una chiesa modesta dove un re con grande dignità abbracciava genitori sconvolti e composti. E allora?

E allora forse questa è davvero l’era della vulnerabilità. Dalla quale nessuno è escluso. Un’era nella quale potrebbe, persino, paradossalmente succedere che il male scelga come propri obiettivi proprio quelli che meno t’aspetti: il “centro del commercio mondiale”, il simbolo stesso di un impero rimasto senza rivali dieci anni fa e che proprio da quel momento ha cominciato il suo – relativo – declino; l’ultimo angolo di paradiso dieci anni dopo, per dimostrare che nessuno può essere al sicuro.

Ed è questo forse il messaggio che arriva da Oslo e che dieci anni fa fummo incapaci di comprendere. Prima ancora di perdere montagne di tempo, di miliardi e di vite rincorrendo improbabili “scontri tra civiltà” – islam contro occidente o tutti contro gli americani – dovremmo, invece, fermarci (come mi disse saggiamente Chiara un po’ di anni fa) e capire che siamo noi contro noi stessi. Che la guerra nuova contraddice proprio le categorie del materialismo storico che hanno dominato la cultura per due secoli: non divide più blocchi, nazioni, e neppure classi, ma famiglie, case, persino individui che vivono dissociazioni laceranti tra sé e anti sé, tra voglia di futuro e paura di futuro.

È l’era della vulnerabilità.

Perché se è vero che mai abbiamo vissuto tanto e così bene e anche vero che mai nella storia poteva essere anche solo concepita l’idea che un solo uomo potesse mettersi a fare la guerra contro un paese per mezza giornata o che cinquanta miliziani potessero tenere sotto scacco la super potenza del mondo per un giorno intero.

L’era della vulnerabilità perché all’epoca dell’impero romano o di quello inglese anche solo immaginare di invadere il centro dell’impero avrebbe comportato una preparazione ed una campagna lunga anni ed  invece oggi mentre il mondo è al mare rischia di ritrovarsi con la storia cambiata per sempre.

Un’epoca che, a mio avviso, prescinde, persino, dall’idea – assolutamente retorica – di dover annullare le ingiustizie e le sofferenze per poter prevenire il terrore perché esse non sono annullabili – anche se è nostro dovere etico continuare a ridurle sempre di più – e chiunque faccia questi discorsi in queste occasioni sta solo operando una strumentalizzazione vergognosa della morte.

La vulnerabilità – a differenza di quanto fanno i cantori della complessità – non va , però, solo osservata ma affrontata e gestita e, secondo me, invece,  quattro  sono le cose che dovrebbero con urgenza e maggiore forza – diventare  la risposta- pragmatica e visionaria – alla vulnerabilità.

Primo: dobbiamo dire a questi estremisti che hanno torto e che ci muoviamo nella direzione contraria a quella folle verso la quale ci vorrebbero spingere. Le nostre società devono diventare ancora più aperte. Siamo tutti fratelli e sorelle ospiti della stessa navicella e chiunque immagina di chiuderci in una lega è all’inizio del percorso di follia che ha portato il ragazzo norvegese a immaginare l’apocalisse.

Secondo: certi episodi succedono, con tutta evidenza, perché ci sono i media che li raccontano ed il premio per i pazzi interi (in questo mondo di mezzi pazzi, come avrebbe detto Dylan Dog) è il fatto di catturare il centro dei giornali per una settimana. Non è evidentemente possibile e non sarebbe giusto porre il silenziatore su una strage di queste proporzioni. È tuttavia fondamentale che se ne parli con sobrietà, dando spazio  (porca miseria!) anche alla storia non meno tragica di tredici milioni di esseri umani – per la metà bambini- che stanno morendo di fame nel corno d’Africa in questi giorni.

Terzo: bisognerà rafforzare l’intelligence per prevenire il terrore utilizzando gli stessi strumenti (la rete) di cui si serve il male e, tuttavia, creando meccanismi di totale trasparenza e responsabilità nei confronti dei cittadini per le azioni di monitoraggio che la polizia decidesse di intraprendere. Non ha senso che sulle telecamere nelle città debba decidere, in un paese come l’Italia, l’authority sulla privacy perché una società può tranquillamente decidere di sacrificare un pezzo di riservatezza in cambio di minore vulnerabilità; ma non ha altresì senso che i segreti di stato durino decenni e che i magistrati che hanno abusato di certe possibilità non rispondano a nessuno!

Quarto: È necessario che l’attività di anti terrorismo avvenga su basi internazionali, con una integrazione degli apparati, almeno di quelli di paesi che si riconoscono reciprocamente democratici aprendo la strada anche ad una democrazia, ad una cittadinanza che superi i limiti dello stato nazione.

Siamo in viaggio tra un mondo antico che si sta dissolvendo ed uno nuovo che ancora non abbiamo inventato. Ma è un viaggio che coinvolge tutti. Il ragazzo che arriva nei campi delle nazioni unite in Kenya dopo un viaggio di settimane nei quali si è cibato solo di qualche patata. E i ragazzi che nella piccola isola norvegese hanno scoperto all’improvviso di doversi far scudo gli uni con gli altri. Forse è il caso di abbandonare in massa il nulla e ricominciare a pensare come se fossimo tutti parte dello stesso destino.

Clicca qui per leggere articolo integrale (http://www.visionblog.eu/francescogrillo/blog/articolo.asp?articolo=108)

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Leggi anche :

An attack on the world – di Francesco Grillo http://www.opendemocracy.net/conflict-terrorism/symbol_2668.jsp

From catastrophe to global governance?– di Francesco Grillo (http://www.opendemocracy.net/faith-globaljustice/article_140.jsp

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