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Avanti, Europa (di Tommaso Nannicini)

Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Tommaso Nannicini durante la Conferenza Ispi su "Le sfide economiche e politiche per  l'Europa", Roma, 20 giugno 2016. ANSA/FABIO CAMPANA

Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Tommaso Nannicini durante la Conferenza Ispi su “Le sfide economiche e politiche per l’Europa”, Roma, 20 giugno 2016.
ANSA/FABIO CAMPANA

di Tommaso Nannicini su Medium

Emmanuel Macron ha compiuto un capolavoro politico. Ha creato dal nulla una forza politica liberal-europeista, in un Paese fortemente nazionalista dove il termine “liberalismo” è quasi una parolaccia. E, al secondo turno, ha vinto le elezioni, diventando il Presidente di tutti i francesi. Ci è riuscito perché è bravo, perché ha una visione forte sul futuro della Francia e dell’Europa e perché si è circondato di persone competenti che quella visione sanno farla propria per naturale inclinazione e non per mero tatticismo. Sapere dove andare e circondarsi di persone in grado di portartici vale il 50 percento del successo politico. L’altro 50 lo fa la fortuna, per dirla con Machiavelli.

Virtù, fortuna e doppio turno

Ma non c’è dubbio che, al di là del tradizionale binomio virtù-fortuna, Macron ha avuto dalla sua un altro potentissimo alleato: il combinato disposto rappresentato dal doppio turno e dal sistema semipresidenziale. In un sistema parlamentare con legge elettorale proporzionale, con ogni probabilità, il suo partito si sarebbe fermato sotto il 20 percento. Dopodiché, il nostro eroe avrebbe dovuto sedersi al tavolo con gli altri segretari di partito e difficilmente sarebbe riuscito ad assicurarsi le portate migliori.

Secondo un sondaggio Ipsos, il 43 percento di chi ha votato Macron al secondo turno dichiara di averlo fatto in chiave anti-Le Pen, il 33 perché vede in lui una speranza di rinnovamento e solo il 16 perché condivide il suo programma socio-economico. Se quel programma riuscirà a realizzarlo dipenderà, di nuovo, dalla sua bravura e da quella della classe dirigente di cui saprà circondarsi. Più nello specifico, dipenderà dall’esito delle elezioni legislative e, in seguito, dalla sua capacità di dar vita a una coalizione che convinca i francesi della bontà delle riforme. Colpisce come il nuovo governo, rispetto al nucleo forte dei promotori di En Marche, sia composto da persone un po’ più in là con gli anni e con esperienze sbilanciate verso la politique politicienne. Sarà importante capire come il neo presidente gestirà gli equilibri tra energie fresche e vecchie volpi all’interno di un quadro unitario.

 

Parigi, Italia

Cambiare la Francia per cambiare l’Europa, dunque. Per riuscirci, Macron avrà bisogno anche della collaborazione di tutte le forze politiche europeiste al di fuori della Francia, Pd in testa. L’obiettivo è fattibile, a patto che queste forze sappiano costruire un disegno politico che non sia solo francese, italiano, tedesco o via snocciolando, ma in primo luogo europeo.

Sui social si aggira un personaggio le cui frustrazioni politiche hanno trasformato in troll: dopo il voto francese, ha pensato bene di scagliarsi contro i “renzini” contenti per la vittoria di Macron. Rei, a suo dire, di paragonare impropriamente i due leader, mentre il renzismo è culturalmente più affine al lepenismo del Front National (?!?). Fermo restando che i paragoni tra leader diversi in paesi diversi non hanno granché senso, è stato lo stesso Macron a rivendicare la vicinanza politico-culturale al Pd di Matteo Renzi. E viceversa. Solo il nostro provincialismo e la propensione a buttare tutto in una caciara tra guelfi e ghibellini, ci possono far negare l’affinità tra i due progetti politici. Basta leggere l’intervista rilasciata da Macron al bravo Mauro Zanon per il Foglio: riduzione del carico fiscale e sostegno alle imprese 4.0; un euro in sicurezza e un euro in cultura (bonus 18enni incluso); riforme del welfare e del lavoro incentrate su meccanismi di attivazione, formazione e responsabilizzazione delle scelte individuali. Volendo guardare alle differenze, invece, ci sono due punti sui quali Macron batte molto: la riorganizzazione della macchina burocratica (con il contestuale ripensamento del perimetro pubblico) e il contrasto al dumping sociale (senza rinnegare i principi del libero commercio). Due punti su cui dovremmo riflettere di più anche in Italia.

Cambiare l’Europa, insieme

I punti di contatto addirittura aumentano quando si guardano le proposte sull’Europa. Da noi, Renzi è spesso dipinto come un leader che insegue i populisti sul loro terreno in chiave anti-europeista, mentre Macron è un paladino dell’Unione Europea senza macchia e senza paura. La verità è che, al di là dei diversi stili comunicativi, entrambi hanno sempre affermato la centralità dell’Europa, che per una nuova generazione che si affaccia al protagonismo politico è vissuta come la propria casa, come un orizzonte culturale ancor prima che politico. Le polemiche verso certi eccessi di rigidità tecnocratica nascono casomai da quella severità di giudizio che è sempre più acuminata verso le cose che ci sono più care. Così come la critica a certe liturgie ormai vuote non vuol dire rottamare il sogno europeo ma casomai rilanciarlo.

Più Europa e, soprattutto, più politica in Europa: è questa l’architrave della mozione congressuale sulla cui base Matteo Renzi è stato rieletto segretario del Pd. A partire dall’esigenza di una nuova architettura istituzionale che abbracci la lucida piattaforma di Sergio Fabbrini: un unione federale il cui Presidente sia eletto direttamente dai cittadini e in cui un nucleo duro di politiche pubbliche sia messo in comune. Pur sapendo che non tutti sono pronti per questo passaggio. Lo dice con chiarezza Macron nell’intervista a Zanon: “gli stati che non vogliono andare avanti non impediranno agli altri di avanzare”.

La mozione Renzi-Martina (e lo stesso vale per il programma di Macron o quelli di forze europeiste in altri paesi) non si limita alle proposte istituzionali, ma scommette subito su un’accelerazione che metta in comune alcune politiche pubbliche: da una Schengen della difesa a un’assicurazione europea contro la disoccupazione, fino alla proposta innovativa di Children Union. Per carità, su tutti questi punti, sia Macron sia Renzi, devono passare dall’enunciazione all’elaborazione, dalle felici intuizioni elettorali a concrete proposte di governo, che non naufraghino sugli scogli dell’implementazione economica o amministrativa. E devono costruire alleanze politiche per realizzare queste proposte. Sarebbe bello se En Marche e Pd iniziassero a farlo insieme, creando gruppi di lavoro congiunti aperti a tutte le forze riformiste in Europa, dentro e fuori del Pse.

Non c’è dubbio, in ogni caso, che con la vittoria di Macron si apra uno spazio fino a poco tempo fa inimmaginabile per rilanciare il progetto europeo. Ma gioire per la vittoria del candidato di En Marche (come si era già fatto cinque anni fa per quella di Hollande), o peggio mettersi a cercare il suo sosia italiano, serve a poco: dobbiamo, invece, sentire appieno tutto il peso della responsabilità di questo passaggio. Perché ogni opportunità comporta una responsabilità: se non saremo in grado di cogliere questa chance di cambiamento dell’Europa, potremmo non averne molte altre in futuro. Dipende anche da noi. Se l’Italia dovesse scegliere di stare alla finestra a guardare, il volume di Michele Salvati sulle “occasioni perdute” dal nostro Paese si arricchirebbe di un altro capitolo, l’ennesimo. Un capitolo, ahinoi, che avrebbe effetti rovinosi per le future generazioni di italiani e di europei.

Roma – Global Sustainability Forum 2017 (02.05.17)

Dalle ore 15, presso la Sala della Lupa di Palazzo Montecitorio si è svolto il “Global Sustainability Forum 2017”. Saluti di Marina Sereni, vicepresidente della Camera, e Khalid Malik, copresidente del Forum. Interventi di Maria Elena Boschi, sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio, Joseph Stiglitz, premio Nobel in Economia, Giuseppe Recchi, presidente di Telecom Italia, Valerio De Luca, direttore esecutivo del Forum. Moderatori Jean Paul Fitoussi, copresidente del Forum, e Paola Severino, rettore della Luiss.

Una autorevole ed aperta segreteria del Partito Democratico per connettere e far ripartire il Paese

Innovatori-Europei-defdi Massimo Preziuso

Questo inizio 2017 ci ha già chiaramente detto che il Paese rischia di mettere di nuovo la retromarcia.

Solo qualche mese fa questo avrebbe messo in moto un dibattito enorme sui rischi che corriamo se non acceleriamo.

Oggi sembra invece che questo andare lentamente a ritroso sia diventato normale. Un po’ in tutta Italia si ha la sensazione che il Paese viaggi senza pilota. E il caso di Roma Capitale rappresenta l’emblema di questa nuova normalità.

A peggiorare ulteriormente le cose poi (non) ci sono i partiti politici, che in questo 2017 non sono chiaramente più protagonisti di alcun cambiamento.

Il Movimento Cinque Stelle – entrato nella fase di maturità – sembra immobilizzato da una guerra auto distruttiva tra le potenziali “leadership” interne per chi sarà il candidato premier.

Il Partito Democratico rischia di perdere l’occasione (se non l’ha già persa) di cambiare il Paese e di liquefarsi irrimediabilmente in assenza di una sua auto-riforma decisa.

Chi come noi ha tanto insistito sulla importanza di una nuova Forma Partito basata su progettualità diffusa tra centro e territori, che costruisca e connetta la Smart Nation, attende da settimane una nuova Segreteria nazionale aperta, competente e autorevole. Se alla fine cosi non sarà, il PD avrà dichiarato una innata incapacità di riformarsi, condizione necessaria per rilanciare un Paese fortemente a rischio.

Facendo tornare sulla scena il vecchio Centrodestra, che dalla caduta del governo Berlusconi continua brillantemente a galleggiare, senza nulla fare, sperando in un nuovo protagonismo derivato dalla tanta voglia di “conservazione” che monta sempre più in tutto l’Occidente impaurito.

Ho quindi la netta sensazione che un Pd forte e propulsivo abbia ancora pochissimi mesi di tempo per strutturarsi definitivamente. O rimarra’ per sempre un progetto incompiuto.

 

Un buon 2017 per la Basilicata

2017di Rocco Tolve

Auguri di un buon 2017.

La speranza, o se vogliamo la necessità, è che ci sia, finalmente, il cambio di paradigma tanto atteso.

Che la politica sia un po’ meno “politics” (dinamiche attuate dai partiti o gruppi di pressione per riuscire ad ottenere il potere politico) e decisamente più “policy” (gestire la cosa pubblica), e che lo sguardo sia puntato non più all’orizzonte temporale della prossima elezione, per la quale è necessaria una quotidiana creazione del consenso in modi più o meno banali, ma al futuro delle prossime generazioni.

Che poi, in fondo, è quello che gli amministratori della cosa pubblica dovrebbero fare: identificare gli scenari di sviluppo locale e globale del prossimo futuro, ed impostare un impianto legislativo di creazione del valore e sostenibilità nel lungo termine (su scala generazionale, appunto) cercando di risolvere o almeno calmierare i principali problemi socio-economici del territorio.

La situazione appare particolarmente sentita nella nostra Basilicata, dove vuoi per la crisi che ormai ci attanaglia da un lustro abbondante (ed in cui vista la fatica quotidiana si è portati, inevitabilmente, a concentrare i propri sforzi sul breve termine), vuoi per la virata particolarmente forte sulla “politics”, con gruppi, fazioni e correnti che fanno a braccio di ferro per accaparrarsi il pezzo di torta principale (accompagnato magari da buone bollicine…prosit!), si è ormai perso di vista l’obiettivo di lungo periodo.

Eppure, a guardare numeri e statistiche, le problematiche sembrerebbero ben chiare ed identificabili.

Sul sito http://www.istat.it/it/basilicata e sul portale http://www.istat.it/it/archivio/16777 sono disponibili gli indicatori per le politiche di sviluppo.

Alcuni dati sono estremamente significativi nella loro durezza.

Nel decennio 2006-2015

A) il tasso di disoccupazione giovanile è passato dal 31.9 % al 47.7%

B) La disoccupazione complessiva sul totale della popolazione dal 10.6% al 13.7%

C) l’incidenza della disoccupazione di lunga durata (persone in cerca di occupazione da oltre 12 mesi) è passata dal 57.4 % al 65.6%

D) il tasso di giovani NEET 15-29 anni è passato dal 23.9% al 28.7%

E) il livello di istruzione della popolazione adulta (% di popolazione 25-64 anni in possesso almeno di diploma superiore) è sceso dal 49.9% al 41.1%

in termini demografici, l’indice di vecchiaia (percentuale di over 65 rispetto agli 0-14) è passato dal 138% al 170%, e l’età media della popolazione regionale è passata da 41.9 anni a 44.7 anni.

Contemporaneamente troviamo nel 2015 un 25% di famiglie che vivono al di sotto della soglia di povertà, e complessivamente, quasi 230.000 abitanti a rischio di povertà o esclusione sociale (1).

(1)      L’indicatore è dato dalla somma delle persone a rischio di povertà, delle persone in situazione di grave deprivazione materiale e delle persone che vivono in famiglie a intensità lavorativa molto bassa. Le persone a rischio di povertà sono coloro vivono in famiglie con un reddito equivalente inferiore al 60 per cento del reddito equivalente mediano disponibile, dopo i trasferimenti sociali. Le persone in condizioni di grave deprivazione materiale sono coloro vivono in famiglie che dichiarano almeno quattro deprivazioni su nove tra: 1) non riuscire a sostenere spese impreviste, 2) avere arretrati nei pagamenti (mutuo, affitto, bollette, debiti diversi dal mutuo); non potersi permettere 3) una settimana di ferie lontano da casa in un anno 4) un pasto adeguato (proteico) almeno ogni due giorni, 5) di riscaldare adeguatamente l’abitazione; non potersi permettere l’acquisto di 6) una lavatrice, 7) un televisione a colori, 8) un telefono o 9) un’automobile). Le persone che vivono in famiglie a intensità lavorativa molto bassa sono invidividui con meno di 60 anni che vivono in famiglie dove gli adulti, nell’anno precedente, hanno lavorato per meno del 20 per cento del loro potenziale.

Mentre, nell’ambito della competitività e del tessuto imprenditoriale, abbiamo osservato:

I) Una riduzione degli investimenti fissi in percentuale del PIL dal 24.33 % del 2006 al 20.12% del 2013;

II) Una riduzione degli investimenti PRIVATI in % del PIL dal 21.45% al 17.87%;

III) Un numero di occupati nei settori manufatturieri ad alta tecnologia e nei servizi ad elevata intensità di conoscenza ed alta tecnologia pari a 3.000 (su 180.000 occupati nell’anno 2013, appena l’1.6%. In Lombardia la percentuale è del 4.93% con 212.000 addetti “hi-tech”, nel Lazio addirittura del 6.17% con 136.000 addetti hi-tech);

IV) Il tasso a sopravvivenza a tre anni delle imprese nei settori ad alta intensità di conoscenza è passato dal 63.2% del 2007 al 43.7% del 2014;

V) Un tasso di iscrizione netto nel registro delle imprese (iscritte meno cessate) passato dal +0.8% del 2006 al -0.7% del 2015 , risulta negativo anche il tasso netto di turnover delle imprese (differenza tra tasso di natalità e mortalità), -1.5% nel 2014. Si è passati da 32.207 imprese del 2006 (con picco di 32.855 nel 2008) a 30.747 nel 2014.

Si rileva dunque un quadro di estrema fragilità, di progressivo impoverimento, di invecchiamento della popolazione, complice anche dinamiche demografiche che portano i giovani ad emigrare fuori regione, ed un tessuto economico/produttivo debole, con riduzione degli investimenti pubblici e privati, numero di imprese e di occupati nei settori hi-tech estremamente basso, scarsa propensione al rischio di impresa ed elevata mortalità delle stesse, complice anche decifit strutturali ed infrastrutturali (in reti sia fisiche che virtuali), che riducono la mobilità, l’incontro e lo sviluppo di persone, merci, idee, da cui possono nascere le soluzioni ai problemi di oggi e le idee per i settori economici portanti del domani.

In verità i problemi, già di per sé gravi, hanno conseguenze che si riverberano appunto su scala generazionale, ai quali la “policy” dovrebbe porre rimedio, prima che la nostra Regione si incammini in una spirale di declino inarrestabile, ed al proposito possono essere utili un paio di esempi.

L’elevato numero di famiglie che vivono al di sotto della soglia di povertà (25%), ed i numerosissimi abitanti a rischio povertà o esclusione sociale (oltre 200.000), sono spesso costretti a privazioni significative, in termini di alimentazione, di cure mediche, di istruzione o di sviluppo cognitivo e attività ludico-ricreative. Queste privazioni in particolar modo sui figli, e nei primi anni di vita dei bambini (anche a causa dei forti stress ambientali durante i quali il flusso di informazioni verso la corteccia prefrontale si interrompe, riducendo anche la creazione di sinapsi) riducono significativamente lo sviluppo cerebrale, cosa ormai accertata universalmente nelle neuroscienze vista la vivacissima neuroplasticità del cervello dei bambini, che vengono privati di stimoli, cure e attenzioni, ed energie. Si è dimostrato che il volume cerebrale di bambini che hanno vissuto al di sotto della soglia di povertà è dall’8 al 10% inferiore, in età adulta, rispetto a pari età che non hanno dovuto subire le medesime privazioni, ed i risultati in test intellettuali, i salari massimi ai quali possono giungere e la produttività lavorativa risulta, in modo analogo, inferiore.

(cfr https://www.scientificamerican.com/article/poverty-disturbs-children-s-brain-development-and-academic-performance/ ; https://www.scientificamerican.com/article/poverty-shrinks-brains-from-birth1/ )

È pertanto necessario fare il possibile, in termini di sviluppo della regione nel lungo periodo, per ridurre la percentuale di adulti in povertà o a rischio esclusione, o qualora questo non fosse possibile in maniera drastica fin da subito, provare a garantire ai bambini nella fascia 0-6 anni il miglior supporto possibile in termini di educazione, supporto e sviluppo.

È un processo che necessità appunto di “policy”, e senza allontanarci troppo verso i paesi nordici come Danimarca, Svezia, Norvegia, dai quali purtroppo siamo distanti anni luce, abbiamo all’interno del nostro territorio nazionale esempi di amministrazioni che hanno dedicato una porzione consistente del bilancio allo sviluppo psico-fisico, culturale ed educativo dei bambini. È il caso di citare la città di Reggio Emilia, che stanzia ogni anno oltre il 20% del proprio bilancio per il percorso educativo e formativo dei bambini 0-6 anni. Non si tratta di approccio del tipo “politics”, i bambini non hanno diritto di voto e non possono “ricambiare” il favore dei fondi stanziati per loro, ma piuttosto di buona policy, lungimirante, le cui conseguenze si misurano su una scala temporale generazionale.

(Altra problematica analoga riguarda l’effetto dirompente e devastante che avrà fra 25-30 anni il metodo pensionistico contributivo, in cui la prestazione previdenziale dipende dalla quantità di contributi versati, unita alla disoccupazione durante la quale, per sua stessa natura, non viene versato alcun contributo, e che genererà una numero spropositato di pensionati sotto la soglia di povertà. La cosa, unita al fatto che ad oggi le famiglie costituiscono il principale ammortizzatore sociale dei giovani disoccupati, può avere un effetto sociale devastante; ma chiaramente argomenti di tale portata vanno trattati in sede nazionale e non regionale).

Il secondo esempio riguarda chiaramente l’andamento demografico, con riduzione della popolazione ed incremento dell’età media e dell’indice di vecchiaia. La mancanza di un tessuto economico produttivo forte, e di investimenti mirati su cluster tematici, ha fatto sì che la crisi economica globale colpisse in maniera più forte qui da noi. L’elevato livello di disoccupazione, in particolar modo quella giovanile, e la mancanza di misure di impatto sul problema, ha generato un flusso migratorio di giovani, in particolar modo quelli con formazione universitaria e post-universitaria, con il risultato di drenare competenze e professionalità fuori dalla regione, di innalzare la vita media e l’indice di vecchiaia della popolazione residente.

La cosa, senza misure significative per invertire la tendenza, avrà come conseguenza una riduzione della forza lavoro specializzata e di creazione di imprese con elevato livello di conoscenza, una riduzione generale del tessuto economico produttivo, ed un contemporaneo aumento delle spese socio-assistenziali per gli anziani, con conseguente taglio di risorse su altri settori.

Dei pochi giovani che restano, alcuni diventano NEET, talmente scoraggiati dallo stato di fatto delle cose da non cercare neanche più occupazione, rifugiandosi negli ammortizzatori sociali garantiti dalla famiglia, alcuni entrano nel sistema della “politics”, provando tramite l’aspetto relazionale ad ottenere un piccolo posto o contratto di lavoro nel pubblico, ma chiaramente non è in grado di invertire la tendenza complessiva, e una piccola percentuale prova ad andare avanti, creando e rischiando in prima persona nel settore privato, o da dipendente, o mettendosi in proprio.

Una buona policy dovrebbe avere l’obbligo morale di invertire questa tendenza, concentrandosi sulla creazione di lavoro, sul provare a far rientrare i cervelli in fuga, o, nel caso peggiore, a non farne partire altri nel prossimo futuro.

Abbiamo le basi su cui partire. Un capitale umano straordinario, con alcune competenze di assoluta eccellenza. Centri di ricerca di caratura nazionale (Università, CNR), alcuni poli industriali di primissimo livello (Fiat-SATA a Melfi).

Serve una visione, quello che la buona politica dovrebbe avere.

Possiamo provare ad esempio ad investire in maniera significativa in ambito fin-tech, una volta completata l’infrastuttura di banda larga ed ultralarga sul territorio regionale.

Possiamo sfruttare il polo fiat-sata, alcune competenze interne all’Università, ed eventuali partnership (ad esempio con Pisa), per creare un polo avanzato di robotica e meccatronica, grazie al quale sarà possibile rilocalizzare nel nostro paese le industrie 4.0. Chiaramente essendo la robotica un’attività piuttosto capital intensive ma poco labour intensive, non genererà un significativo numero di posti di lavoro “generalisti”, ma un numero ridotto di competenze piuttosto specifiche. L’investimento è però in grado di generare un vantaggio competitivo nell’evoluzione del lavoro industriale.

Un numero significativo di posti di lavoro, perlatro non sostituibile nel medio periodo da intelligenze artificiali, importante nella nostra regione, e che avrà uno sviluppo nei prossimi decenni, è quello dei servizi alla persona (sanitari, socio-assistenziali, di supporto e di servizio) su cui la regione dovrebbe puntare in modo forte.

E poi vi sono chiaramente gli altri due cluster, quello energia e ambiente (che necessita di un articolo a parte) e quello dell’osservazione della terra sul quale si può procedere con investimenti piuttosto mirati.

Penso ad esempio alla civionica, la branca dell’ingegneria civile (quindi su strutture e infrastutture) che si occupa di structural health monitoring, controlli e monitoraggi su strutture ed infrastrutture esistenti (il mondo delle costruzioni nei prossimi decenni è destinato a muoversi sempre più verso la gestione e manutenzione del patrimonio edilizio ed infrastrutturale esistente) con sensori e sistemi di controllo da remoto, interfacciati su piattaforme e sistemi SDI (spatial data infrastructure) per la loro gestione, programmazione e manutenzione in tempo reale; oppure alla difesa del territorio dal rischio sismico e idrogeologico.

Ci sono diverse idee possibili, ma è importante che la POLITICA locale inizi ad avere una visione di lungo termine, un approccio da seguire senza disperdere tempi, risorse, e senza lotte interne per il “controllo” di un territorio che altrimenti rischia di dissolversi senza avere più molto da “controllare”. C’è bisogno di idee, competenze, e di una politica che si rinnovi. BUON 2017.

Ing. Rocco Tolve

“Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno.”                                                       Antonio Gramsci

Messaggio alla Nazione

flagdi Alberto Forchielli

Quello che il Presidente della Repubblica non può dire agli Italiani

Inizia un nuovo anno e sappiamo già che il trend per l’Italia del prossimo futuro non cambia. Molte imprese non saranno in grado di pagare le tasse, i contributi e i costi del lavoro e scivoleranno nel nero con imprenditori e lavoratori stranieri. La criminalità organizzata si allargherà. Le imprese moderne esportatrici si asserraglieranno in distretti, dove saranno circondate da sofisticati sistemi di sicurezza. La sfida non sarà una crescita del PIL misurato con parametri canonici (che non funzionano), ma la ricerca di un equilibrio tra queste tre forze per evitare che l’illegalità si mangi tutto e ci riduca in una terra di nessuno. In Messico questa sfida è all’ordine del giorno come lo è in Italia, ma noi non vogliamo rendercene conto perché vorrebbe dire una cosa sola: ammettere che la colpa è di tutti noi italiani che abbiamo un basso tasso di civiltà sociale e di educazione.

Come siamo arrivati a ciò? Non abbiamo investito in educazione, abbiamo sprecato risorse pubbliche e abbiamo caricato gli sprechi sulla classe produttiva che si restringe. Inoltre la burocrazia non lavora e non funziona, non abbiamo formulato leggi adeguate per combattere la criminalità, anche quella spicciola, non abbiamo investito in carceri e nemmeno per tenere le strade pulite.

In tutto questo, il ruolo – negativo – della politica è stato ed è enorme. E oggi, la politica, una volta per tutte, invece di continuare a comprare consenso con fondi pubblici, dovrebbe avere il coraggio di dire la verità. Dovrebbe far capire agli italiani che se si rimboccano le mani adesso, i benefici li vedranno le generazioni future. Dovrebbe educare e dare il buon esempio (su, non ridete) e farla – la politica – dovrebbe essere un sacrificio, non un mestiere (dai, smettete di ridere, parlo sul serio). Al contrario, il livello dei politici nostrani è bassissimo. Addirittura c’è ancora qualcuno che tra ignoranza e populismo auspica un’uscita dell’Italia dall’Unione Europea. Mentre restarvi aggrappati è una necessità di salvezza, perché uscirne significherebbe venire risucchiati dall’islamizzazione. La politica, inoltre, dovrebbe partorire una seria strategia economica. Sarebbe servita tanto nei decenni passati, con il risultato che adesso corriamo a tappare buchi non tappabili – Ilva, Alitalia, Il Sole 24 Ore… – perché non esistono più le risorse per fare una politica economica pro-attiva.

A livello economico servirebbe un grande trauma affinché la gente capisca, finalmente, che si deve lavorare meglio, più a lungo e con maggiore qualità. Mi spiego. “Meglio” vuol dire con più attenzione e dedizione anche nelle cose piccole. “Più a lungo” significa meno pause caffè, meno file a timbrare il cartellino, meno permessi malattia inesistenti, meno Facebook sull’orario di lavoro o telefonate personali, in pensione più tardi, eccetera. “Qualità”, infine, indica l’uso del cervello, con dei plus non da poco, come proporre dei miglioramenti, assumersi delle responsabilità e andare oltre il mansionario.

Sempre a livello economico, qualcuno si arrampica sugli specchi invocando le nostre poche eccellenze. Bene, sappiate che le nostre multinazionali “tascabili” hanno già fatto tanto, forse tutto. Altre non ne nasceranno. Invece molte se ne andranno trasferendo la sede direzionale in altri Paesi. In questo senso, non c’è dubbio che dovevamo globalizzarci di più in passato ed essere più presenti per attrarre clienti e capitali ma ormai quello che potevamo fare l’abbiamo fatto e adesso siamo troppo piccoli per fare di più. Ora avremmo bisogno di avere il mondo che viene da noi ma con questo mix di criminalità, burocrazia e vincoli sindacali – che proteggono i pensionati a scapito dei giovani – è utopico anche solo pensarlo.

Per crescere, anche a livello internazionale, il ruolo dei servizi è gigantesco, ma noi non siamo presenti in segmenti chiave come finanza, software, media e telecomunicazioni. Ci rimane solo il turismo che perde colpi e quote di mercato. Si potrebbe riprendere il cammino con grandi investimenti nella scuola e nell’università ma mancano i soldi. Mentre dalla rivoluzione digitale tutti i settori possono trarre benefici, ma la tecnologia chiave non è mai la nostra. E nell’applicazione siamo sempre indietro. Per competere, nel mondo odierno, bisogna essere migliori degli altri e noi non lo siamo.

Non lo siamo per diversi motivi, non ultimo per colpa anche della gestione famigliare di troppe nostre imprese, a scapito di vere managerialità, con il papà che ha fatto l’azienda e che poi i figli viziati l’hanno distrutta (salvo casi rari). Perché è una rarità genetica che a un padre eccezionale segua un figlio altrettanto eccezionale. E per fare gli imprenditori in Italia servono persone super eccezionali (e ne nascono poche che intelligentemente capiscono presto che andare all’estero è la cosa migliore).

I manager – lo sono stato anch’io un tempo – potrebbero avere un ruolo chiave nel riscatto economico del Paese ma per l’appunto sono spesso soffocati dalle famiglie. Nelle poche grandi imprese italiane non danno il meglio di sé mentre in quelle straniere eccellono. E purtroppo la capacità di lavorare e gestire organizzazioni complesse non è nel DNA italico. Nella Seconda guerra mondiale avevamo una Marina più grande di quella inglese nel Mediterraneo, ma facemmo più danni agli inglesi con un manipolo di uomini dei mezzi d’assalto che con tutto il resto della flotta. E basta studiare la sconfitta di Adua, di Caporetto o le tragiche offensive sull’Isonzo della Prima guerra mondiale, con generali cretini e ufficiali di complemento e soldati coraggiosi che operarono nella più totale disorganizzazione. L’Italia è sempre stata questa: comandanti inadeguati ed eroi per caso.

Come altri grandi Paesi dell’Occidente anche noi potremmo sfruttare le “diversity”, puntando su giovani, donne, persone di altre nazionalità e culture. Ma in Italia viene il peggio, gente con bassa produttività, scarsa attitudine al lavoro e alto tasso criminalizzante. Del resto le nostre scuole non incoraggiano e la mancanza di galere fa dell’Italia il paradiso della criminalità e del lavoro in nero. Insomma, il Messico d’Europa.

Perciò ai giovani dico di imparare un mestiere “tradeable”, ossia esercitabile ovunque nel mondo e andare via. Invece, per chi ha il coraggio di rimanere, l’Italia resta un Paese fantastico, dove funziona la sanità (a parità di costo), la ristorazione (perché non richiede un sistema), alcuni altri settori (come vino, ceramiche e macchine automatiche), le bellezze paesaggistiche (che non possono essere rubate), la nostra storia (perché il passato non si cambia ed è pieno di geni ed eroi ed io spesso mi ci tuffo per dimenticare il presente). E se anche l’economia non cresce, serriamo le righe per vivere bene anche con meno disponibilità materiali. Diamo priorità a sicurezza, ritroviamo le vecchie solidarietà di paese, colleghiamoci con il mondo, rimettiamoci in marcia per un lungo cammino senza aspettare governi miracolosi o altre soluzioni funamboliche tipo uscire da euro o da Unione Europea. Rimettiamoci tutti a studiare nel tempo libero e spegniamo quella cazzo di tv che ci rincitrullisce.

Poi, per riprenderci, riduciamo la criminalità sotto soglie accettabili con una stretta feroce e se non abbiamo i soldi per fare carceri e dobbiamo fare amnistie per decongestionarle rimettendo i delinquenti per strada che fanno sberleffi ai poliziotti, allora non potremmo prendere in leasing dei terreni in Turkmenistan e ricreare delle colonie penali? Potremmo addirittura impiegare un po’ di forestali per assettarle e degli ultras dell’Atalanta come guardie carcerarie, così, giusto per stimolare la creatività. Poi liberalizziamo il mercato del lavoro ed equipariamo i dipendenti pubblici a quelli privati.

In questo modo l’Italia riprende a correre al 3% come la Spagna, niente di fantastico ma meglio di un calcio nei maroni. Se teniamo la barra ferma per 50 anni torniamo nel novero dei Paesi civili. Io questo ritorno non lo vedrò ma almeno mi rinasce la speranza per il nostro futuro.

Soprattutto, fanculo ai pensionati di Boca Raton, io morirò qui, in Italia, con la sciabola in mano. Ecco, magari, non proprio nel 2017 (adesso sì, potete ridere), spero quando avrò cent’anni, ancora vispo come un fringuello. Nel frattempo, viva l’Italia.

Ripensare le regole prima del congresso. Lettera aperta di Innovatori Europei e Luoghi Ideali all’Assemblea del Partito Democratico

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Innovatori Europei (www.innovatorieuropei.org) e Luoghi Ideali (www.luoghideali.it), che hanno preso parte, da indipendenti, tra il 2015 e il 2016 ai lavori della Commissione Forma Partito, chiedono urgentemente ai membri della Assemblea del Partito Democratico, che si riunirà a Roma il prossimo 18 dicembre 2015, di portare alla discussione per la approvazione il documento “Spunti di discussione per il Pd di domani“.

In un momento così delicato per la Forma Partito, è urgente ripensare, in modi innovativi, il modello organizzativo del Partito Democratico, perché possa essere precursore di cambiamenti strutturali del Paese. Per farcela, bisogna rimettere al centro i valori, ma ci vuole anche un’organizzazione forte e adatta ai tempi. Serve una progettazione territoriale che nasca da circoli aperti al confronto con l’esterno e sia coordinata da un forte presidio nazionale. Serve, per evitare dannose faide personali, costruire in ogni territorio un’agenda politica condivisa che preceda le primarie; un Albo degli elettori certificato che ne garantisca la trasparenza e una Direzione del PD ristretta dove possano maturare indirizzi frutto di confronto di merito. Infine l’elezione dei Segretari regionali deve essere limitata agli iscritti.

Dal Partito Democratico, da questa profonda crisi, può rinascere un nuovo e sano interesse per una Politica progettuale e partecipata.

16 dicembre 2016, Roma

Innovatori Europei e Luoghi Ideali

 

Il mondo ai tempi di Trump

di Alberto Forchielli

Qualche considerazione vale la pena di farla dopo il summit dell’APEC – ossia dell’Asia-Pacific Economic Cooperation – che si è tenuto il 19 e 20 novembre a Lima, in Perù, con i leader dei 21 Paesi appartenenti a quell’area geografica, compresi ovviamente Stati Uniti (per l’ultimo ultimo viaggio all’estero di Obama come presidente uscente prima di lasciare la Casa Bianca in gennaio), Cina, Giappone e Messico, sul tema della loro cooperazione economica, che per inciso rappresenta quasi il 60% del PIL globale! Forum che per questo motivo è stato sotto i riflettori dei media internazionali – tranne ovviamente i riflettori appannati di quelli italiani evidentemente troppo impegnati a prevedere chi vincerà tra “sì” e “no” nel nostro cortile di casa – in funzione dei nuovi equilibri geopolitici; e quindi, inevitabilmente, anche economici, derivanti dalle nuove linee guida dettate dalla presidenza targata Donald Trump o almeno dai suoi proclami in campagna presidenziale. Con due aspetti da non sottovalutare.

Il primo è di carattere personale. Difatti, secondo diverse fonti autorevoli, “The Donald” ha deciso di diventare il presidente degli Stati Uniti d’America più per la soddisfazione di occupare la poltrona più importante dell’Occidente che per l’idea di governare realmente il suo Paese. E ora che dopo l’onore del trionfo inaspettato gli tocca l’onere di prendere decisioni quotidiane per il bene collettivo, siamo tutti curiosi di vedere come si comporterà e cosa succederà. Mentre il secondo aspetto, di rilevanza globale, è legato ai suoi proclami e alle promesse elettorali di avviare una politica davvero nuova per gli USA, che possiamo sintetizzare definendola una politica più “egoista”, sia nella sfera commerciale sia in quella del disimpegno dal ruolo di “sceriffi” del pianeta. E in questo senso c’è da essere spaventati a morte – io lo sono – perché, mettetevi il cuore in pace, senza gli Stati Uniti che lottano per il loro bene – che fortunatamente è di riflesso anche il bene dell’Occidente – si rischia di fare una brutta fine.

Perciò i segnali in arrivo dal forum peruviano dell’APEC non possono non essere che di grande timore perché tutti si rendono conto che con Trump gli USA possono realmente smettere di essere la “gallina dalle uova d’oro”. D’altro canto e non poteva che essere così, nelle dichiarazioni complessive resta l’auspicio di rafforzare il legame economico di libero scambio anche con lui.

Auspicio confermato dallo stesso Obama che, oltre agli incontri dell’APEC, ha interagito anche con il primo ministro australiano Malcolm Turnbull e con il primo ministro canadese Justin Trudeau, tranquillizzandoli sulla solidità delle rispettive alleanze per il futuro, ovvero anche sotto l’amministrazione Trump. E poi rassicurando un po’ tutti, dicendo che non si aspetta modifiche significative alla politica degli Stati Uniti, anche se, lo sottolineo ancora, Trump può modificare alcuni accordi decisivi.

Così, tra timori sotto traccia e buoni auspici di facciata, a Lima si è iniziato anche a pensare ad alternative alle eventuali mosse “isolazioniste” peraltro confermate da Trump il giorno successivo al summit di Lima, con l’uscita degli USA dal TTP (il Trans Pacific Partnership voluto da Obama per contenere l’espansionismo economico della Cina) in favore di accordi con i singoli Paesi (per Trump più efficaci). Alternative che vanno nella direzione di un TPP senza gli USA o attraverso un coinvolgimento di Cina e Russia. Anche perché, inevitabilmente, se gli Stati Uniti decidono di tirarsi indietro, il vuoto che lasciano, la Cina è disposta a riempirlo di corsa.

In conclusione, lo spartiacque rischia di essere davvero epocale e probabilmente non è stato ancora compreso appieno nemmeno dall’opinione pubblica anti-americana che abbiamo in Europa e che a vario titolo contesta gli USA a prescindere: dagli eccessi verso Putin al sostegno a Israele, dalla posizione in Iraq e Afghanistan al contenimento commerciale (e non solo) della Cina. Ricordiamoci però che dalla Seconda Guerra Mondiale, basti pensare al D-Day, diamo per scontata la protezione degli Stati Uniti sulla libertà del mondo e il suo conseguente benessere, come se la morte dei ragazzi americani in un qualche conflitto rientri in un fatto del tutto normale – tra un “chissenefrega” e un “se la sono cercata” – mentre quella, per esempio, dei ragazzi italiani, no, non debba avvenire per difendere gli stessi principi di libertà.

Ecco, personalmente, mi sono sempre vergognato di questo atteggiamento tipicamente italiano, tra la viltà e il paraculismo che ci contraddistinguono tanto quanto essere un popolo di poeti, santi e navigatori. Perché ragioniamo così? Perché, come in un condominio litigioso, abbiamo finora sempre esercitato il lusso di dare la nostra delega agli USA, per sporcarsi le mani al nostro posto. E se adesso davvero toccasse a noi andare a litigare?

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